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martedì 19 gennaio 2016

Schmitt e la «guerra di aggressione». Pubblicato uno scritto del 1945, commissionato al giurista da un grande industriale tedesco



di Damiano Palano

Questo testo è apparso su "Avvenire" del 15 gennaio 2015, con il titolo Schmitt. Crimini del Reich


Condividendo un destino simile a quello di Martin Heidegger, il nome di Carl Schmitt è destinato ad essere sempre accompagnato da una fama sinistra. Probabilmente Schmitt non fu, come suggeriscono alcuni dei suoi critici, il «sommo giurista del Führer». Ma certo il suo sostegno al regime nazionalista negli anni immediatamente successivi alla presa del potere da parte di Hitler non può essere liquidato come un dettaglio trascurabile. Se questi motivi impongono di accostarsi a Schmitt sempre con grande cautela, è però difficile non riconoscere nel giurista tedesco uno dei più acuti osservatori delle grandi trasformazioni politiche del Novecento. Perché Schmitt fu davvero tra i primi a intravedere le implicazioni della fine della centralità politica del Vecchio continente e del tramonto dello jus publicum europaeum
Dopo essersi dedicato per due decenni al diritto costituzionale, a partire dalla metà degli Trenta, il giurista si rivolse infatti ai mutamenti del diritto internazionale. La riflessione sui fondamenti spaziali della politica (e del diritto) l’avrebbe spinto a rielaborare le ipotesi sulla distinzione fra amicus e hostis, fissate già negli anni Venti nel celebre saggio sul Concetto di ‘politico’, e soprattutto a scrivere le pagine di Terra e mare e del Nomos della terra. Alcuni dei saggi più significativi dedicati a questi temi sono raccolti in Stato, Grande spazio, Nomos (Adelphi, pp. 527, euro 60), un volume che non offre materiali sconosciuti al pubblico italiano, ma che consente di cogliere, una volta di più, come la riflessione sul rapporto costitutivo fra Ortung e Ordnung, fra “localizzazione” e “ordinamento”, attraversi l’intera indagine schmittiana. 
Inedito in Italia è invece il singolare testo La guerra d’aggressione come crimine internazionale (Il Mulino, pp. 142, euro 16.00), che riprende un  parere steso da Schmitt nel 1945 su richiesta dell’industriale tedesco Friedrich Flick. Come ricostruisce Carlo Galli nella prefazione, al termine della guerra gli avvocati di Flick commissionarono a Schmitt un testo finalizzato a sostenere la difesa dell’industriale nell’eventualità in cui egli fosse incriminato dagli Alleati per aver contribuito a preparare una «guerra d’aggressione». La discussione di Schmitt si riconnetteva alla sua precedente riflessione sulle trasformazioni della guerra e del diritto internazionale. Ma in realtà il giurista attenuava le proprie tesi, nel tentativo di dimostrare che per un cittadino europeo del 1939 la «guerra di aggressione» non poteva essere considerata come un crimine internazionale, e che in ogni caso la guerra era una responsabilità esclusiva degli Stati (e non dei singoli individui). 
In realtà Flick non fu mai incriminato per questo reato. Fu invece condannato per crimini contro l’umanità, perché aveva utilizzato nelle proprie imprese manodopera schiavizzata. Pochi mesi dopo avere steso il parere, toccò invece allo stesso Schmitt finire in carcere a Norimberga, dove corse il rischio di essere accusato per avere indirettamente partecipato «alla pianificazione di guerre d’aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità». Dopo alcune settimane di interrogatori le accuse però caddero, e Schmitt passò da detenuto a semplice testimone, prima di essere definitivamente rilasciato, il 13 maggio 1947. Proprio allora lo studioso poté salire sul treno che lo avrebbe condotto nella cittadina di Plettenberg, dove visse ritirato per più di quarant’anni, «protetto dalla sicurezza del silenzio», sentendosi come uno sconfitto della storia e come l’ultimo epigono della scuola dello jus publicum europaeum.

Damiano Palano

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