di Damiano Palano
Questo testo è apparso su "Avvenire" del 15 gennaio 2015, con il titolo Schmitt. Crimini del Reich
Condividendo un destino simile a quello di Martin
Heidegger, il nome di Carl Schmitt è destinato ad essere sempre accompagnato da
una fama sinistra. Probabilmente Schmitt non fu, come suggeriscono alcuni dei
suoi critici, il «sommo giurista del Führer». Ma certo il suo sostegno al
regime nazionalista negli anni immediatamente successivi alla presa del potere
da parte di Hitler non può essere liquidato come un dettaglio trascurabile. Se
questi motivi impongono di accostarsi a Schmitt sempre con grande cautela, è
però difficile non riconoscere nel giurista tedesco uno dei più acuti
osservatori delle grandi trasformazioni politiche del Novecento. Perché Schmitt
fu davvero tra i primi a intravedere le implicazioni della fine della
centralità politica del Vecchio continente e del tramonto dello jus publicum europaeum.
Dopo essersi
dedicato per due decenni al diritto costituzionale, a partire dalla metà degli
Trenta, il giurista si rivolse infatti ai mutamenti del diritto internazionale.
La riflessione sui fondamenti spaziali della politica (e del diritto) l’avrebbe
spinto a rielaborare le ipotesi sulla distinzione fra amicus e hostis, fissate
già negli anni Venti nel celebre saggio sul Concetto
di ‘politico’, e soprattutto a scrivere le pagine di Terra e mare e del Nomos
della terra. Alcuni dei saggi più significativi dedicati a questi temi sono
raccolti in Stato, Grande spazio, Nomos
(Adelphi, pp. 527, euro 60), un volume che non offre materiali sconosciuti al
pubblico italiano, ma che consente di cogliere, una volta di più, come la
riflessione sul rapporto costitutivo fra Ortung
e Ordnung, fra “localizzazione” e
“ordinamento”, attraversi l’intera indagine schmittiana.
Inedito in Italia è
invece il singolare testo La guerra
d’aggressione come crimine internazionale (Il Mulino, pp. 142, euro 16.00),
che riprende un parere steso da Schmitt
nel 1945 su richiesta dell’industriale tedesco Friedrich Flick. Come
ricostruisce Carlo Galli nella prefazione, al termine della guerra gli avvocati
di Flick commissionarono a Schmitt un testo finalizzato a sostenere la difesa
dell’industriale nell’eventualità in cui egli fosse incriminato dagli Alleati
per aver contribuito a preparare una «guerra d’aggressione». La discussione di
Schmitt si riconnetteva alla sua precedente riflessione sulle trasformazioni
della guerra e del diritto internazionale. Ma in realtà il giurista attenuava
le proprie tesi, nel tentativo di dimostrare che per un cittadino europeo del
1939 la «guerra di aggressione» non poteva essere considerata come un crimine
internazionale, e che in ogni caso la guerra era una responsabilità esclusiva
degli Stati (e non dei singoli individui).
In realtà Flick non fu mai
incriminato per questo reato. Fu invece condannato per crimini contro
l’umanità, perché aveva utilizzato nelle proprie imprese manodopera
schiavizzata. Pochi mesi dopo avere steso il parere, toccò invece allo stesso
Schmitt finire in carcere a Norimberga, dove corse il rischio di essere
accusato per avere indirettamente partecipato «alla pianificazione di guerre
d’aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità». Dopo alcune
settimane di interrogatori le accuse però caddero, e Schmitt passò da detenuto
a semplice testimone, prima di essere definitivamente rilasciato, il 13 maggio
1947. Proprio allora lo studioso poté salire sul treno che lo avrebbe condotto
nella cittadina di Plettenberg, dove visse ritirato per più di quarant’anni,
«protetto dalla sicurezza del silenzio», sentendosi come uno sconfitto della
storia e come l’ultimo epigono della scuola dello jus publicum europaeum.
Damiano Palano
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