giovedì 29 dicembre 2016

Sarà un algoritmo che ci seppellirà? Un libro di Dominique Cardon sulla "società dei calcoli"




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Dominque Cardon, Che cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite al tempo dei «big data» (Mondadori Università, pp. 90, euro 10.00), è apparsa su "Avvenire" il 27 dicembre 2016, con il titolo Algoritmi e prove di "conformismo personalizzato".

Già molto prima che i computer invadessero la nostra vita quotidiana si incominciò a intravedere l’ombra sinistra del vecchio Golem nei rudimentali robot immaginati dalla fantascienza. E da allora il sospetto che un sofisticato manufatto tecnologico possa sottrarsi al controllo degli esseri umani non ha cessato di alimentare il nostro immaginario. Oggi l’insidia alla nostra libertà non sembra però giungere tanto dai robot, quanto da un elemento che permea ormai quasi ogni aspetto della nostra vita, anche se probabilmente non siamo neppure del tutto consapevoli della sua influenza: gli algoritmi. Senza arruolarsi nell’esercito degli «apocalittici», e senza innalzare la bandiera della tecnofobia, il volume di Dominque Cardon, Che cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite al tempo dei «big data» (Mondadori Università, pp. 90, euro 10.00) rappresenta un’ottima guida per comprendere innanzitutto quale sia la portata della trasformazione che stiamo vivendo. 
Un tempo i calcoli statistici riguardavano principalmente gli Stati e le imprese, ma le cose sono cambiate radicalmente con l’avvento di internet. Inizialmente si sono sviluppate tecniche per misurare l’audience dei siti, poi sono nati i grandi motori di ricerca come Google, capaci di misurare la ‘forza sociale’ di una pagina. Infine è comparsa una nuova famiglia di calcolo digitale, che si basa sull’apprendimento automatico (machine learning) e punta a ‘predire’ il comportamento futuro degli internauti, oltre che a spingerli ad agire in un certo modo. E proprio per questo gli algoritmi – che in termini generali sono solo istruzioni che consentono di giungere a un risultato, organizzando gerarchicamente delle informazioni e operando dei calcoli – sono diventati progressivamente più importanti. Gli algoritmi hanno infatti oggi il compito di smistare, aggregare e rappresentare tutte quelle ‘tracce’ che ciascuno di noi lascia quando acquista un prodotto online, quando naviga su internet alla ricerca di un ristorante tipico, quando legge un giornale sul tablet, quando paga al supermercato con la carta di credito, quando entra in autostrada. Il punto cruciale è però soprattutto che l’algoritmo riesce a ‘imparare’ dalla mole quasi sterminata di dati cui attinge. Confronta il profilo di un utente con quello di altri che hanno fatto le stesse scelte. E così è in grado di ipotizzare, per esempio, che un individuo che ha acquistato (o solo cercato) un determinato libro possa essere interessato a un certo film, o che desideri mangiare in determinato tipo di ristorante, oppure che intenda assistere al concerto di uno specifico artista. E questa ‘predizione’ avviene semplicemente sulla base dell’esame del passato di consumatori ‘simili’, ossia grazie al confronto dei profili di utenti che hanno compiuto scelte analoghe. 
L’irruzione dei big data e la penetrazione nella vita quotidiana degli algoritmi sono ovviamente fenomeni destinati a produrre conseguenze enormi sulle strategie di marketing più consolidate e sulla stessa logica della comunicazione. Ma Cardon attira la nostra attenzione soprattutto sulle insidie che si nascondono dietro la nuova società dei calcoli. Insidie che innanzitutto mettono a rischio la privacy di ciascuno di noi. Ma che vanno a incidere anche sulla nostra autonomia e sulla nostra libertà, proprio nella misura in cui puntano a renderci le cose più ‘facili’. Le nuove infrastrutture di calcolo predispongono infatti le nostre scelte, pur senza determinarle. Ma in questo modo finiscono col costruire attorno a ciascuno di noi la «bolla» di una sorta di ‘conformismo personalizzato’. Perché le informazioni che ci raggiungono e le possibilità che ci vengono offerte non fanno altro che confermare le scelte che abbiamo fatto in passato. Mentre le opzioni alternative diventano invisibili al nostro sguardo. E la nostra finestra sul mondo si restringe sempre di più.

Damiano Palano

venerdì 16 dicembre 2016

Bartolomé de Las Casas: Indigeno è uguale. Un libro di Luca Baccelli



di Damiano Palano


Questa recensione al libro di Luca Baccelli, Bartolomé de Las Casas. La conquista senza fondamento (Feltrinelli, pp. 282, euro 25.00), è apparsa su "Avvenire" il 16 dicembre 2016.

Nei manuali di storia del pensiero politico il nome di Bartolomé de Las Casas viene di solito ricordato solo fuggevolmente e al suo contributo – a differenza di quanto accade per grandi esponenti della scolastica spagnola come Francisco de Vitoria e Francisco Suarez – sono dedicate solo poche righe. La riflessione di Las Casas occupa invece un posto cruciale, che andrebbe finalmente riconosciuto. E un passo importante in questa direzione è rappresentato dal volume di Luca Baccelli, Bartolomé de Las Casas. La conquista senza fondamento (Feltrinelli, pp. 282, euro 25.00), che ricostruisce le sequenze di un’esperienza destinata a sfociare nella difesa degli «indiani» e in una spietata critica della colonizzazione del Nuovo Mondo.
Nato a Siviglia nel 1484, Las Casas giunse per la prima volta all’Hispaniola nel 1502, e già nel corso di questa prima spedizione ebbe modo di assistere alle atrocità perpetrate dagli spagnoli. Tornò però presto in Europa, dove fu ordinato presbitero e probabilmente conseguì una laurea in Diritto canonico a Salamanca. Quando nel 1509 approdò nuovamente all’Hispaniola erano già maturate le prime critiche alle violenze contro i nativi, e in particolare i domenicani presenti sull’isola avevano cominciato a sostenere che i coloni spagnoli vivevano in peccato mortale a causa della crudeltà con cui trattavano gli indigeni. Las Casas si avvicinò progressivamente a queste posizioni, ma un’autentica svolta avvenne mentre preparava l’omelia per la Pasqua del 1514. Da allora prese a predicare contro la tirannide e la schiavitù. Tornò in Castiglia per perorare la causa degli indigeni dinanzi all’anziano re Ferdinando. Ottenuta l’approvazione del proprio modello di colonizzazione, attraversò ancora una volta l’Atlantico, giungendo nel Nuovo Mondo con il titolo di «Protector universal de todos los indios de las Indias». Ma subito dovette scontarsi con le opposizioni dei coloni. A partire dal 1519, di fronte a una serie di fallimenti e nuovi massacri, interruppe l’attività pubblica. Per circa quindici anni si dedicò agli studi ed entrò nell’ordine domenicano. Più tardi riprese i vecchi progetti di colonizzazione pacifica, in particolare nella regione di «Vera Paz». Nominato nel 1543 vescovo del Chiapas, ebbe un ruolo determinante per la redazione delle Leyes nuevas, con cui i nativi venivano riconosciuti sudditi della corona di Spagna e si stabiliva l’eliminazione della schiavitù. In seguito le Leyes furono ridimensionate, e Las Casas si trovò così impegnato in nuove battaglie. E ancora pochi mesi prima di morire, nel 1566, inviò a papa Pio V una petizione in cui chiedeva un decreto che scomunicasse coloro che dichiaravano «giusta» la guerra contro gli indigeni.

L’originalità del contributo di Las Casas è legata soprattutto a un’idea dell’eguaglianza che (giungendo anche a rompere con Aristotele) esclude la schiavitù e richiede che ogni forma di potere si fondi sul consenso. Ma proprio il nodo della «guerra giusta» – allora al centro di infuocate discussioni – era fondamentale nella sua riflessione. A questo proposito Las Casas seguiva la critica che Vitoria aveva indirizzato a Sepùlveda, ma – come mostra efficacemente Baccelli – la radicalizzava ulteriormente. Anche Las Casas, come Vitoria, faceva infatti discendere i diritti dalla nozione aristotelica dell’uomo come «animale politico». Ma se Vitoria legittimava la presenza degli spagnoli in America, per Las Casas i nativi erano invece i signori naturali, che avevano diritto di opporsi all’occupazione dei loro territori. E dunque riconosceva anche alle comunità indigene la titolarità dello jus belli. Ma ciò nonostante, soprattutto in alcuni passaggi, anche la stessa nozione di «guerra giusta» era svuotata di ogni significato. Perché la guerra appariva ai suoi occhi solo come «multorum homicidium commune et latrocinium». E cioè solo come un omicidio di massa, senza alcuna possibile giustificazione.

Damiano Palano

lunedì 5 dicembre 2016

Il sinistro laboratorio della «scienza della felicità». Un libro di William Davies




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di W. Davies, L'industria della felicità (Einaudi, Torino, 2016), è apparsa con il titolo La "scienza della felicità", fra emozioni e big data, in "Avvenire", 22 novembre 2016.


Nel 1927 la Jwt, una grande azienda pubblicitaria di New York, siglò un contratto con la General Motors che prevedeva l’apertura di proprie sedi anche al di fuori degli Stati Uniti. La Jwt era stata la prima ad adottare sistematicamente tecniche di profiling psicologico, ma fino a quel momento le sue indagini si erano rivolte solo al pubblico americano. Il contratto con la Gm apriva invece un terreno inesplorato alla nuova «pubblicità scientifica». La costruzione della prima mappa dei gusti globali del consumatore incontrò però ben più di qualche resistenza. Ponendo domande su argomenti che riguardavano le automobili, ma anche il cibo e il consumo di articoli per l’igiene personale, gli intervistatori si inoltravano infatti in una sfera che molti in Europa consideravano ancora inviolabile. In Gran Bretagna alcuni ricercatori furono addirittura arrestati. In Germania la Jwt fu accusata di spionaggio industriale. E a Copenaghen un intervistatore fu addirittura spinto giù da una rampa di scale.
Questi episodi – che sono raccontati da William Davies nel suo L’industria della felicità. Come la politica e le grandi imprese ci vendono il benessere (Einaudi, pp. 240, euro 20.00) – riescono a chiarire in modo emblematico la portata del mutamento culturale che, nel corso di un secolo, ci ha assuefatto ai sondaggi. Ma nel suo libro Davies ricostruisce soprattutto la storia intellettuale della convinzione secondo cui il monitoraggio di gusti e comportamenti consentirebbe di raggiungere la «felicità». E naturalmente trova le radici di questa idea innanzitutto nell’utilitarismo di Jeremy Bentham, secondo cui il principale obiettivo di ogni Stato doveva essere proprio il perseguimento della massima «felicità» dei cittadini. Nel tentare di dare una veste ‘scientifica’ al proprio progetto, Bentham cercò infatti di misurare ‘quantitativamente’ la felicità, utilizzando per esempio come indicatori il denaro e il battito cardiaco. E in quel modo indicò le due strade che la «scienza della felicità» avrebbe imboccato in seguito. Per un verso, l’economia neo-classica negli ultimi decenni dell’Ottocento adottò l’idea che l’individuo fosse un «edonista calcolante». Per l’altro, la psicologia comportamentista americana, studiando solo il comportamento ‘osservabile’, cercò di capire come l’«animale uomo» rispondesse agli stimoli esterni. Ma questa vicenda giunge sino a nostri giorni, anche perché l’«industria della felicità» ha oggi a disposizione un enorme laboratorio. Quasi tutte le nostre transazioni quotidiane sono infatti ormai digitalizzate e vanno a rimpinguare un preziosissimo patrimonio di big data. Al tempo stesso, l’accumulazione di informazione viene alimentata da quel nuovo narcisismo di massa che, per esempio, spinge a rispondere alla domanda «A cosa stai pensando?», posta quotidianamente da Facebook a un miliardo di utenti. 
Come sottolinea Davies, la «scienza della felicità», nel suo tentativo di ‘quantificare’ qualcosa che va ben al di là di un oggetto materiale, è destinata a rimanere imprigionata in un paradosso insolubile. Ciò non significa però che dentro quell’utopia non si nascondano implicazioni dirompenti. Nel piccolo passo che conduce molti di noi a esibire spontaneamente la propria vita più intima qualcuno può forse intravedere un grande passo verso la conquista della «felicità» (o quantomeno della soddisfazione personale). Proprio compiendo quel ‘piccolo passo’ finiamo però anche dentro un immenso laboratorio in cui libertà, l’autonomia e la realizzazione degli esseri umani vengono ridotte a causalità neurali o psicologiche. E, soprattutto, dimentichiamo ciò che quell’anonimo cittadino di Copenaghen aveva forse intravisto già nel lontano 1927. 

Damiano Palano



4 dicembre 2016. Sconfitta di un governo o fine di un leader?




di Damiano Palano*

Probabilmente non si dovrebbe interpretare l’esito di un referendum costituzionale come una consultazione su un governo o un leader politico. Ma nel caso del referendum del 4 dicembre è davvero impossibile non farlo, sia per le modalità con cui si è giunti al voto, sia per le proporzioni che ha assunto il risultato finale. La schiacciante maggioranza di contrari alla riforma costituzionale, prima ancora che sancire una vittoria del fronte del No, segna infatti una clamorosa sconfitta di Matteo Renzi. Proprio quello stesso leader che ha sempre vantato di avere una sorta di ‘filo diretto’ con i cittadini ha compiuto l’errore di valutazione probabilmente più clamoroso che la storia repubblicana ricordi. Perché come un dissennato giocatore d’azzardo ha puntato tutto – se stesso, il proprio partito e persino l’intero Paese – su una carta rivelatasi perdente. E se certo la carriera politica di Renzi non finisce con questa sconfitta, l’esito del referendum lascia però un’Italia nuovamente alle prese con la ricerca di un governo, lacerata da nuove linee di frattura e con un sistema di partiti – se possibile – ancora più debole (perché è evidente che la principale vittima della disfatta è proprio il Partito Democratico). 
Nell’esito del voto hanno senza dubbio avuto un peso la marcata personalizzazione del quesito e la lunghezza estenuante della campagna. Proprio questi fattori hanno consentito alle composite opposizioni del governo non solo di ‘politicizzare’ il voto, ma anche di mobilitare i rispettivi elettori, e soprattutto molti di quelli che negli ultimi due anni avevano disertato le urne. Alla fine, infatti, l’affluenza (68,48% in Italia, 65,47% tenendo conto anche del voto dei residenti all’estero) è risultata notevolmente superiore a quella delle elezioni europee del 2014. E anche questo ha determinato lo scarto finale di circa sei milioni di voti di differenza a favore del No.  
Dalle proporzioni della sconfitta emerge quello che – al di là del merito della proposta di riforma – è stato (almeno per ora) il fallimento politico principale di Matteo Renzi. Se l’ex sindaco di Firenze conquistò prima il Partito Democratico e subito dopo Palazzo Chigi con la grande promessa di andare al di là del tradizionale bacino elettorale del centro-sinistra, ‘pescando’ voti nell’area di centro-destra, senza al tempo stesso smarrire consensi sul versante di sinistra, è evidente che l’esito della consultazione referendaria ha sancito il tramonto di questa ambizione. Perché è difficile non notare come, al di là delle percentuali, i voti a favore del Sì (13.432.208) non siano molto distanti dalla somma dei voti riportati alla Camera nel 2013 dal centro-sinistra e dalla coalizione guidata da Mario Monti (13.640.934). Naturalmente nel corso di quasi quattro anni le geometrie tra le forze politiche sono cambiate. Ma in ogni caso Renzi non è riuscito nell’impresa che si proponeva (o, quantomeno, ha perso verso sinistra quel poco che ha conquistato sul versante di centro-destra), mentre gli avversari “populisti” che puntava a indebolire appaiono oggi ancora più forti di quattro anni fa. Ovviamente un simile bacino elettorale, di questi tempi, non può essere trascurato, specie dopo mille giorni di governo. Ma non poteva essere sufficiente in un referendum, tramutatosi ben presto – per volontà di tutti – in un referendum su un leader e su un’intera esperienza di governo.
Osservata con distacco, la vicenda politica di Matteo Renzi non può essere però considerata solo come un’eccezione italiana. Perché in qualche modo conferma ancora una volta quali sono, al tempo stesso, la forza e i limiti della personalizzazione della politica. In una fase storica in cui le grandi appartenenze si sfaldano e in cui i partiti di massa sono ormai un ricordo del passato, la politica può sopravvivere solo grazie a leadership carismatiche, attorno alle quali costruire messaggi di cambiamento radicale e uno storytelling entusiasmante. Ma in tempi di crisi – e dinanzi alla stretta del “vincolo esterno” – qualsiasi storytelling è destinato a rivelarsi ben presto solo un effimero mantello retorico gettato sulle spalle di una politica debole, del tutto incapace di modificare la realtà. Così come altri leader europei hanno visto dissolversi quasi fulmineamente la loro legittimazione, anche Matteo Renzi – salito meno di tre anni fa a Palazzo Chigi come “rottamatore” e come paladino del “Paese reale” – ha così finito col diventare, agli occhi di molti, il simbolo stesso, più che della “casta”, di una politica incapace di mantenere le proprie solenni promesse. E alla ricerca di quella legittimazione che le urne non gli avevano mai dato, si è dovuto scontrare con l’ostilità (che i suoi spin doctor avevano probabilmente sottovalutato) proprio di quei settori – i giovani, i disoccupati, le fasce marginali della società – che in teoria dovevano essere gli interlocutori principali del “rottamatore”, ma che si sono rivelati invece i suoi più strenui e radicali oppositori.
Poco più di cento anni fa, in tempi di partiti di massa e di grandi strutture burocratiche, Robert Michels parlò di una “legge ferrea dell’oligarchia”. Qualsiasi movimento politico che voglia ottenere dei successi, diceva Michels, deve dotarsi di un’organizzazione efficiente. Ma, inevitabilmente, proprio un’organizzazione disciplinata è destinata a produrre un’oligarchia. Quel mondo è per noi ormai lontano. E forse oggi dovremmo parlare invece di una “legge ferrea dell’obsolescenza della leadership”. Perché ogni formazione politica che voglia ottenere dei risultati deve necessariamente dotarsi di una leadership efficace. Ma nessuna (o quasi nessuna) leadership di successo sembra poter resistere a lungo alla prova del governo.

Damiano Palano

* questo testo è stato parzialmente pubblicato su Cattolica News


venerdì 18 novembre 2016

Dipinti di guerra, battaglie d'artista. Il nuovo libro di Luigi Bonanate





di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Luigi Bonanate, Dipinger guerre (Aragno), è apparsa su "Avvenire" il 18 novembre 2016.

Se un giorno dovessero essere ospitati in un solo museo i grandi dipinti che hanno tentato di fissare sulla tela l’orrore della guerra, quasi sicuramente – accanto alle opere di Rubens, Goya, Manet e molti altri –  nella sala centrale si troverebbe collocato Guernica di Pablo Picasso. Perché, come ben poche altre opere, il grande quadro dell’artista catalano è riuscito a dar forma al nostro modo di concepire (e condannare) la guerra, cogliendo la trasformazione della violenza nell’età della tecnica. Un simile museo della pittura di guerra naturalmente non esiste, e con ogni probabilità non esisterà mai. 
Ed è forse questo che rende particolarmente prezioso il nuovo e sorprendente volume Luigi Bonanate, Dipinger guerre (Aragno, pp. 475, euro 65.00), perché il politologo allestisce proprio una simile galleria, mettendo l’uno accanto all’altro capolavori noti e meno noti dell’arte occidentale che, con stili e sensibilità talvolta abissalmente lontani, hanno tentato di ‘afferrare’ l’orrore della violenza bellica. E nelle quasi cinquecento pagine del suo libro accompagna così il lettore attraverso i corridoi di questa immaginaria «Galleria della guerra», in un viaggio che è anche un’esplorazione attraverso l’immaginario occidentale e i suoi mutamenti.
La prospettiva che guida Bonanate è infatti quella dello studioso di politica internazionale. Ed è questo specifico punto di osservazione a rendere il volume davvero unico nel sul genere. Bonanate si volge cioè alle rappresentazioni artistiche della guerra con un obiettivo che rimane squisitamente «politologico» (nel senso più nobile del termine). Perché l’intento è innanzitutto di comprendere se le trasformazioni intervenute nella guerra abbiano interagito con le rivoluzioni artistiche. Ma soprattutto perché Bonanate indaga su una metamorfosi culturale che nel corso del tempo viene a modificare l’atteggiamento nei confronti della guerra. Nel definire le coordinate della propria esplorazione, Bonanate torna in particolare all’«iconologia» di Erwin Panofsky, e cioè a uno sguardo capace di cogliere – al di là dei «valori formali» – il «senso essenziale» dell’opera d’arte, il suo significato profondo. L’«iconologia» consente allora di riconoscere nei «quadri di guerra» un riflesso delle immagini del mondo che orientano gli artisti nelle differenti stagioni storiche, ma anche di cogliere la valutazione della guerra che ciascuno di essi intese fissare nelle proprie tele. In altri termini, come scrive Bonanate, «il bombardamento di Guernica non è stato rappresentato da Picasso nell’unico modo possibile, ma in uno che esprimeva il suo giudizio sull’evento, sulla guerra, sull’arte, sui movimenti pittorici del tempo, sulla storia, sulla vita». E qualcosa di simile avviene anche per Le conseguenze della guerra di Rubens, o per le incisioni I disastri della guerra di Goya, o per un’opera come La Guerra di Henry Rousseau.



Nella vicenda della «pittura di guerra» Bonanate individua alcune scansioni storiche ben precise. Dalla nascita dello Stato moderno fino alla sua piena affermazione alla metà del Seicento l’iconografia bellica è principalmente pubblica, e soprattutto riflette una concezione alta e drammatica della funzione che la guerra svolge nella storia. Accanto a questa pittura pubblica si consolida inoltre un «battaglismo» dagli esiti talvolta notevoli – come nel caso di capolavori coma la Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca, la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, la Battaglia di Costantino contro Massenzio di Giulio Romano – che però non pone al centro la guerra, dal momento che mette in scena lo scontro militare solo per farne «una manifestazione retorica, svuotata di significato e offerta semplicemente al culto della forma per la forma». Una rottura radicale interviene invece con la Rivoluzione francese, quando, con l’ingresso sulla scena della «nazione», la pittura è costretta a ‘prendere parte’, a farsi ‘militante’. 


 

E il simbolo del passaggio non sono certo gli artisti che esaltano i successi di Napoleone, bensì due celebri dipinti di Goya, 2 maggio 1808 e 3 maggio 1808, che celebrano la rivolta dei patrioti spagnoli e che fissano peraltro un modello destinato a essere rivisitato in seguito da Édouard Manet, da Hans Hartung, da Picasso e da altri ancora. Un salto ulteriore è sancito poi dal 1870, e ancora più nettamente dalla Grande guerra. In questo senso, molti dipinti di Otto Dix e di C.R.W. Nevinson, oltre a Guernica di Picasso e a Premonizione della guerra civile  di Salvador Dalì, riflettono un mutamento netto nella collocazione rispetto alla guerra. Perché l’artista prende ormai posizione ‘contro’ la guerra, dichiarando esplicitamente il proprio disgusto ed esibendo gli effetti distruttivi della violenza.



Certo una simile condanna non ha fatto scomparire la violenza armata dalla scena del mondo. Ma forse – insieme a Bonanate – si può riconoscere anche una vittoria della pittura nella caduta di qualsiasi pregiudizio positivo sulla guerra. Perché il lungo cammino che da Piero della Francesca conduce sino a noi – se certo non si conclude con il tramonto della guerra – sembra però sancire la capacità dell’arte di ‘sconfiggere’ la violenza bellica. E cioè la capacità di denunciarne le tragedia, di discuterla criticamente, di proporne la condanna, anche in una stagione in cui la guerra diventa addirittura «indescrivibile».

Damiano Palano

lunedì 7 novembre 2016

Se la realtà diventa il Paese dei Balocchi. "Ludocrazia", un libro a cura di Marco Dotti e Marcello Esposito




di Damiano Palano


Se fino a qualche decennio fa era ancora circondato da un ambiguo fascino romantico, il gioco d’azzardo a partire dagli anni Novanta ha subito una vera e propria mutazione genetica. Si è trasformato infatti in un fenomeno di massa, che coinvolge ogni fascia d’età e ogni strato sociale. E chiunque può rendersi conto della portata di questa metamorfosi provando a contare le slot machine che proliferano quasi ovunque, oppure osservando l’ininterrotto flusso di clienti che si affolla ai punti vendita delle lotterie istantanee. Spesso ci si è finora limitati a riflettere sui casi più estremi di ‘dipendenza patologica’ dal gioco, sui suoi aspetti criminali e sulle responsabilità degli Stati. Ma è mancato uno sguardo d’insieme sul fenomeno. Il volume Ludocrazia. Un lessico dell’azzardo di massa, curato da Marco Dotti e Marcello Esposito (ObarraO edizioni, pp. 318, euro 16.00) rappresenta invece un primo tentativo di indagare in profondità le radici e le conseguenze di un mutamento che non può essere circoscritto alle forme più estreme della ‘ludopatia’. Ovviamente lo sguardo è volto a ricostruire i meccanismi su cui si basa l’addiction, la dipendenza dal gioco, e le dimensione di un fenomeno di cui solo in parte i dati statistici riescono a dare conto. Ma le voci che compongono questa sorta di dizionario – da Addiction a Videolotteries, passando per Las Vegas, Gioco e Slot machine – tentano soprattutto di suggerire l’idea secondo cui l’azzardo di massa, sfondando gli argini della vita quotidiana, avrebbe innescato profonde conseguenze sulle relazioni sociali e sul nostro immaginario. 
In questa prospettiva la Gamification non è qualcosa che riguarda esclusivamente il gioco d’azzardo in senso stretto, o solo i comportamenti patologici. Si tratta piuttosto di una tecnica articolata con cui vengono inseriti nei diversi ambiti della vita quotidiana elementi propri del gioco (come possono essere punti, premi, salti di livello). L’obiettivo è ovviamente condizionare e indirizzare i comportamenti, ma senza che ciò avvenga in modo costrittivo. Trasformando un’attività in un ‘gioco’ – che mette in palio un premio (da una merendina a un posto di lavoro) – si può riuscire infatti ad aumentare il coinvolgimento da parte di un soggetto a una situazione di per sé poco attraente, o addirittura percepita come sfavorevole e ostile. Nessuno così costringe nessuno a fare alcunché. Ma, attraverso premi e gratificazioni, si finisce comunque per apprendere un determinato comportamento. In questo modo la competizione più aspra può diventare una gara agonistica, mentre il clima del conflitto può stemperarsi nell’atmosfera ludica. Ed è per effetto di questa formidabile capacità di influenzare il comportamento individuale che le tecniche legate al gioco non restano più circoscritte dentro le pareti dei grandi casinò ed escono anche dal perimetro del «gioco d’azzardo legale», alimentando le nuove strategie del marketing. Ma questa diffusione epidemica del gioco incide in profondità sulle relazioni sociali, perché modifica il contesto ambientale delle nostre relazioni. «Trasformare tutto in gioco (e in azzardo) non annulla solo le potenzialità del gioco», scrivono infatti Dotti ed Esposito, ma «annulla l’umano in quanto tale». Perché scompaiono l’Altro, la relazione e il mondo. E proprio come nel Paese dei Balocchi di Pinocchio, quando tutto diventa gioco, il gioco cessa di essere tale.

Damiano Palano

lunedì 31 ottobre 2016

La lezione di Max Weber nel tempo della democrazia plebiscitaria




di Damiano Palano

Questo testo è apparso con il titolo Il carisma del leader riletto da Weber su Avvenire» del 16 settembre 2016 (come recensione a M. Weber, Il leader, Castelvecchi, Roma, 2016).

All’indomani della morte di Max Weber, avvenuta improvvisamente il 14 giugno 1920, la moglie Marianne trovò impilate sulla sua scrivania alcune grandi buste postali marroni. In quelle buste erano conservati i manoscritti preparatori, sommariamente catalogati in base all’argomento, di un’opera ambiziosa, cui il sociologo stava lavorando da almeno dieci anni, e in cui dovevano confluire i risultati di un’intera vita di studio. Nel 1909 Weber aveva infatti accettato l’offerta di curare l’edizione di un nuovo manuale di economia politica, riservando per sé la stesura soprattutto di un capitolo intitolato Economia e società. Ma a poco a poco il capitolo si era dilatato sempre di più, e la sua pubblicazione fu così progressivamente rinviata. All’indomani della morte, Marianne iniziò a riordinare il materiale del marito con l’obiettivo di giungere rapidamente alla sua pubblicazione, che in effetti avvenne tra il 1921 e il 1922. Sottovalutò però il fatto che i testi – peraltro spesso frammentari e incompiuti – risalivano a fasi differenti. Proprio per questo la prima edizione di Economia e società – come quella curata negli anni Cinquanta da Johannes Winckelman – doveva essere letta come un’opera organica e coerente, a dispetto anche delle contraddizioni che il testo presentava. La nuova edizione critica, curata da Wolfgang J. Mommsen e Michael Meyer, consente invece di ricostruire, insieme alle ipotesi principali, anche le revisioni che Weber operò nel corso del tempo, e che al momento della morte erano tutt’altro che giunte a una soluzione. E una nitida esemplificazione è offerta dal volume Comunità (Donzelli, pp. 262, euro 32.00), in cui vengono riproposti fedelmente i testi con cui Weber delineava una tipologia di tutte le grandi forme di comunità.
Prendendo le distanze dalla convinzione positivista che nella storia potessero essere individuati ben precisi stadi evolutivi delle società, Weber si discostava anche dalla classica distinzione tra «comunità» e «società», con cui Ferdinand Tönnies aveva posto le basi della sociologia tedesca. Per Tönnies la modernizzazione doveva infatti coincidere con una progressiva transizione dalla «comunità» alla «società», ossia come una decadenza delle comunità organica medievale e un passaggio alla moderna «società meccanica», nella quale prevalevano i legami utilitaristici e le relazioni contrattuali. Secondo Weber, invece, le due dimensioni potevano coesistere, e si doveva piuttosto parlare di forme di comunità che tendevano alla «comunione» (e cioè a un agire comune non riconducibile a criteri utilitaristici) oppure alla «sociazione» (e cioè a un agire razionale finalizzato allo scopo). Con questa prospettiva, Weber si soffermava così sulle trasformazioni intervenute nelle comunità domestiche e nelle relazioni tra comunità e mercato, ma anche sul grado di «apertura» e «chiusura» dei vari gruppi umani. In questo senso esaminava anche la specificità delle comunità politiche, contrassegnate dal tentativo di conquistare il monopolio legittimo della forza su un determinato territorio. E, in pagine ancora oggi davvero interessanti, toccava il nodo delle comunità etniche. In questo caso Weber si allontanava nettamente da tutte quelle letture che ricercavano un fondamento ‘oggettivo’ all’appartenenza etnica o nazionale. La comunanza etnica era in particolare definita come l’effetto della costruzione ‘artificiale’ di ascendenze comuni e di memorie condivise. Weber decostruiva così il vecchio mito della «comunità di sangue», tutt’altro che marginale nella cultura tedesca del tempo. Ma sosteneva anche che la «repulsione etnica» risultava fondata solo su elementi simbolici, ossia sulla trasformazione di determinati elementi convenzionali – un taglio capelli o un tipo di abbigliamento – in simboli di appartenenza etnica. Ed evocando per esempio un viaggio negli Stati Uniti compiuto nel 1904, ricordava come «il fetore di burro» agisse «in modo più intenso come fattore di separazione rispetto alle stesse differenze razziali», e in ogni caso ben più di quanto agisse «il fantasioso ‘fetore dei negri’», evocato spesso dai bianchi americani.
Quei frammenti risalivano probabilmente al 1910, e non è improbabile che Weber avrebbe approfondito il discorso, soprattutto intorno al pathos dell’appartenenza nazionale. D’altronde la trasformazione innescata dalla Grande guerra indusse il sociologo a tornare su alcuni nodi cruciali della sua precedente riflessione. Già prima della conflitto, in alcune pagine fondamentali – raccolte ora nel volume Il leader (a cura di Francesco Marchianò, Castelvecchi, pp. 95, euro 11.50), aveva d’altronde riconosciuto la forza travolgente della legittimazione carismatica. Ma aveva sottolineato anche come la «gabbia d’acciaio» della progressiva razionalizzazione di ogni aspetto della vita sociale fosse destinata a ridurne il ruolo. All’indomani della fine della guerra, si convinse invece che il carisma potesse giocare un ruolo anche nella nuova democrazia di massa, e che una forte leadership potesse anzi ostacolare gli effetti negativi della burocratizzazione. Il Novecento si è naturalmente incaricato di mostrare quali insidie si nascondessero sul sentiero di una Führerdemokratie. Ma è quasi scontato riconoscere come ancora oggi – in un mondo segnato dalla personalizzazione della politica e in cui tornano a proliferare muri e barriere – i problemi che Weber affrontava rimangano assolutamente cruciali. È d’altronde anche per questo che, a distanza di un secolo dalla sua stesura, Economia e società continua a fornire costanti sollecitazioni e non cessa di rappresentare un modello per una ricerca sociale che, sfuggendo alle suggestioni di ogni determinismo, punti a trovare nei significati culturali la spiegazione dell’agire umano.  

Damiano Palano


domenica 9 ottobre 2016

Se la democrazia dei partiti precipita senza paracadute. "Governare il vuoto" di Peter Mair




di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Peter Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00) è apparsa su "Avvenire" il 2 agosto 2016.

Proprio mezzo secolo fa, nel 1966, il politologo tedesco Otto Kirchheimer iniziò a intravedere i primi segnali della trasformazione che stava investendo i partiti di massa. L’avvento della società del benessere, l’attenuazione del conflitto di classe e l’indebolimento delle grandi appartenenze stavano infatti modificando l’ambiente in cui le grandi organizzazioni politiche erano nate alla fine dell’Ottocento. E proprio per rispondere a questi mutamenti, i partiti di massa cominciavano allora a tramutarsi in catch-all-parties, in partiti «pigliatutti», che puntavano cioè a conquistare voti non più soltanto in uno specifico segmento della società, contrassegnato da una forte identificazione ideologica e subculturale, bensì in tutti i settori. In questo modo venivano abbandonati i più ambiziosi ideali di trasformazione sociale, mentre tutte le energie venivano indirizzate verso l’obiettivo della vittoria elettorale e le risorse concentrate nell’attività di comunicazione.
A cinquant’anni di distanza, non è certo difficile riconoscere come le previsioni di Kirchheimer avessero intuito, con indubbia lungimiranza, molte delle trasformazioni successive. E il volume di Peter Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00), costituisce da questo punto di vista un prezioso aggiornamento di quelle antiche ipotesi. Un aggiornamento che mostra dove abbiano condotto quelle tendenze e, soprattutto, quali rischi esse comportino. Sulla base dell’esperienza maturata in un’intera carriera di studi, il politologo irlandese – scomparso prematuramente nel 2011 – si chiede infatti se, insieme ai partiti di massa (e a ciò che ne rimane), non sia destinata a essere messa in discussione anche la stessa forma democratica dei sistemi politici occidentali. In particolare, secondo Mair, la corrosione delle basi su cui si fondano i contemporanei regimi democratici è imputabile allo svuotamento dello spazio in cui cittadini e rappresentanti politici si trovano a interagire: questo spazio era in passato occupato proprio dai partiti, ma ora rimane sempre più sguarnito. Le cause sono in primo luogo da ricercare nel crescente disimpegno dei cittadini, di cui sono tracce (non sempre però così chiaramente interpretabili) il calo della partecipazione elettorale, l’instabilità del comportamento di voto e l’emorragia di iscritti di cui hanno sofferto pressoché tutti i partiti europei. Accanto a questo primo fattore si accompagna però anche la simmetrica tendenza al disimpegno che coinvolge le élite politiche. In altri termini, i partiti hanno quasi del tutto abdicato alla funzione di rappresentanza delle istanze sociali, assunte invece da altre agenzie. E, al tempo stesso, hanno privilegiato – in termini pressoché esclusivi – la ricerca di ruoli di governo (a livello locale e nazionale). Il ‘corpo’ dei partiti, costituito dalla rete organizzativa diffusa sul territorio, si è così progressivamente atrofizzato fino a diventare esilissimo. Mentre è cresciuta la ‘testa’, stabilmente insediata dentro le istituzioni rappresentative. I grandi partiti assumono così le sembianze di ‘agenzie dello Stato’, specializzate nel compito di reclutare il personale politico, ma del tutto incapaci di stabilire un solido rapporto (fiduciario e identitario) con la società. Per questo, scrive Mair, quella che si profila all’orizzonte «è una nuova forma di democrazia in cui i cittadini rimangono a casa mentre i partiti vanno a governare».
Le previsioni di Mair – che i travagli vissuti dell’Unione europea negli ultimi anni hanno ampiamente confermato – sono in realtà ancora più cupe. Nello spazio ‘svuotato’ dal disimpegno di élite e cittadini, vanno a infatti collocarsi tanto la protesta ‘populista’ contro l’establishment, quanto la tentazione di ‘depoliticizzare’ le democrazie, ossia di trasferire le decisioni più importanti verso arene sottratte agli umori di elettorati sempre più imprevedibili. Simili soluzioni non possono però davvero colmare il fossato aperto dalla scomparsa di quell’appartenenza comune che cittadini e leader politici condividevano grazie ai partiti di massa. Proprio per questo i nostri sistemi rappresentativi rischiano allora di scivolare nella voragine sempre più profonda aperta dalla fine della «democrazia di partiti». E di precipitare nel vuoto della società liquida.

Damiano Palano

giovedì 29 settembre 2016

La giostra delle élite. Rileggendo "Trasformazione della democrazia" di Vilfredo Pareto





di Damiano Palano

Questa segnalazione del volume di Vilfredo Pareto, Trasformazionw della democrazia, a cura di F. Marchianò (Castelvecchi, Roma, 2016), è apparsa su «Avvenire» il 7 agosto 2016.

Nel 1921, quando uscì Trasformazione della democrazia, il suo ultimo libro, Vilfredo Pareto aveva ormai settantatré anni e quasi tre vite alle spalle. Nato nel 1948 a Parigi da padre italiano e madre francese, Pareto aveva infatti studiato ingegneria al Politecnico di Torino e lavorato per circa vent’anni nel settore minerario. Aveva poi conquistato una grande notorietà come geniale studioso di economia, approdando anche alla carriera accademica. Ma, dopo alcuni anni, aveva deciso di cambiare ancora una volta il proprio campo di studi e di dedicarsi anima e corpo alla costruzione di un sistema sociologico. Negli ultimi anni del secolo progettò dunque un ciclopico Trattato di sociologia generale, la cui stesura lo tenne impegnato per un ventennio e che vide la luce solo nel 1916. Il Trattato non ebbe però l’accoglienza che Pareto si attendeva. Prima di tutto perché si trattava di un’opera per molti versi illeggibile: bizantina nel disegno teorico e straripante di esemplificazioni storiche. Ma in secondo luogo perché rappresentava l’ultimo frutto – davvero troppo tardivo – di quella stagione positivista che in Italia aveva consumato da tempo le proprie fortune. Rileggere oggi Trasformazione della democrazia – ripubblicato da Castelvecchi, arricchito da una puntuale introduzione di Francesco Marchianò  (pp. 111, euro 12.50) – è invece un utile esercizio. E non solo perché in questo suo ultimo testo Pareto sintetizzò in poche pagine alcune delle tesi al centro del Trattato. Ma anche perché si tratta di un libro destinato a suggerire al lettore del XXI secolo una serie di domande tutt’altro che datate. 
Pareto – è quasi superfluo ricordarlo – fu, insieme a Gaetano Mosca, uno dei principali esponenti del filone teorico elitista. In ogni società, secondo Pareto, in virtù della differente distribuzione delle caratteristiche fisiologiche, è cioè sempre possibile individuare una netta distinzione tra «masse» ed «élite», tra una maggioranza passiva e una minoranza di individui che invece detengono potere, ricchezze e cultura. Al tempo stesso, per Pareto è sempre all’opera un processo di «circolazione delle élite»: in seguito al costante mutamento nella distribuzione delle capacità tra le diverse fasce della popolazione, le ‘vecchie’ élite al potere sono destinate a decadere e a essere sostituite da ‘nuove’ élite in ascesa. Ed era proprio questa dinamica che Pareto intravedeva nella società europea uscita dalla Prima guerra mondiale, dove in particolare sottolineava l’importanza di fenomeni come la crisi della sovranità statale, la decadenza della classe politica liberale (che definiva «plutocrazia demagogica») e l’emergere del sindacalismo.
Anche se Pareto colse l’importanza cruciale che in politica hanno le «azioni non-logiche», ossia le componenti non riconducibili a una razionalità strumentale, le basi ‘psicologiche’ su cui erano fondate le sue ipotesi non possono non apparire oggi irrimediabilmente segnate dal tempo. Ma, per quanto le risposte che forniva siano per molti motivi inaccettabili, non possono invece essere accantonate né le domande che poneva né alcune delle intuizioni che sviluppò. Se non altro perché possono aiutare a considerare da una prospettiva differente anche le «trasformazioni della democrazia» che stiamo vivendo. Quando per esempio oggi si evocano i successi dei tanti tipi di populismo che affollano i nostri sistemi politici, si parla e si scrive – con un fondamento – di una ‘rivolta contro le élite’, di una protesta contro i privilegi della «casta» e contro lo strapotere conquistato dalle élite. Seguendo Pareto, ci dovremmo chiedere invece se una simile protesta, più che la reazione allo strapotere delle élite, non sia la testimonianza della loro debolezza, oltre che un presagio del loro imminente tramonto. Ma soprattutto ci dovremmo interrogare sulla direzione verso cui – per effetto di dinamiche economiche, sociali, tecnologiche – ci condurrà il processo di «circolazione» delle élite. E dunque su quali saranno il volto, l’ideologia e gli strumenti delle élite di domani.


Damiano Palano

lunedì 12 settembre 2016

Non solo tecnica: la buona politica viene dall’alto. La prospettiva della "pneumatologia politica"


di Damiano Palano

Questa recensione  al volume di V. Rosito, Lo spirito e la polis. Prospettive per una pneumatologia politica (Cittadella, Padova, 2016) è apparsa su «Avvenire» il 9 settembre 2016.


Nel 1922, in uno dei suoi saggi più noti, Carl Schmitt scrisse che «i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». Proprio quella formula era destinata ad aprire un nuovo sentiero di ricerca intorno alla trasformazione dei concetti politici. Ma doveva anche introdurre nel dibattito novecentesco la formula «teologia politica»: una formula senza dubbio evocativa, ma dal significato tutt’altro che univoco, e che in effetti è stata utilizzata nel corso del Novecento in direzioni molto diverse. La proposta schmittiana intendeva infatti soprattutto suggerire l’analogia formale tra i concetti giuridici della modernità occidentale e i concetti teologici. Altri utilizzarono invece la suggestione schmittiana per sviluppare una teoria della secolarizzazione, nella quale la dimensione del sacro veniva pienamente neutralizzata (e nella quale dunque spariva ogni relazione con la trascendenza). E altri ancora tentarono di mostrare come nell’esperienza politica non fosse eliminabile una proiezione escatologia.  In una direzione piuttosto differente si è invece mossa, nella seconda metà del Novecento, la «Nuova Teologia Politica», che – coltivata per esempio dai Johann Baptist Metz e Jürgen Moltmann – si è soprattutto proposta di fornire una lettura della teologia cristiana critica nei confronti delle spinte privatistiche. Ed è per molti versi in questo stesso sentiero problematico che si colloca lo stimolante volume di Vincenzo Rosito, Lo spirito e la polis. Prospettive per una pneumatologia politica (Cittadella, pp. 117, euro 11.90). 
Per Rosito, la polis e lo spirito – e cioè la sfera politica e quella spirituale – non sono spazi lontani e separati. «Lo Spirito, e con esso la dimensione dello spirituale», scrive infatti, «sono profondamente connessi con la polis poiché intendono pensare e rappresentare non tanto la generalità di tutti gli uomini, quanto la complessità dell’uomo tutto». È in questa chiave che viene indicata la strada di una «pneumatologia politica»: un paradigma diretto a mettere in evidenza le implicazioni tra l’ordine teologico dello Spirito, quello economico-politico del potere e quello comunicativo. Sulla scorta delle indicazioni del filosofo austriaco Ferdinand Ebner, la «pneumatologia» procede innanzitutto dal riconoscimento del legame tra la dimensione umana del linguaggio e quella dello Spirito. Più precisamente, la pneumatologia si concentra sulla natura intrinsecamente comunicativa dello spirituale. Ma, in secondo luogo, la «pneumatologia politica» rivede sensibilmente la classica raffigurazione della relazione tra Spirito e Polis, perché, come ha sottolineato Moltmann, è la connettività a contrassegnare le implicazioni sociali dello Spirito. Dio è cioè presente tra il popolo nel senso che il luogo della sua presenza è lo spazio che distingue e unisce i soggetti di una relazione.  
Una simile prospettiva è naturalmente critica nei confronti di quelle visioni della secolarizzazione che interpretano la sfera del religioso nei termini della contrapposizione fra immanente e trascendente. Ma la riflessione di Rosito nasce soprattutto dalla ricerca di un indirizzo alternativo a una realtà segnata – come quella del capitalismo contemporaneo – dallo schiacciamento sul presente, dall’espulsione di qualsiasi progettualità escatologica e dunque dalla riduzione della politica a semplice ‘tecnica’. La pneumatologia politica infatti non solo critica le derive individualizzanti o identitarie. Ma punta anche a riguadagnare una tensione progettuale, e così a indicare la strada di forme e pratiche «generative», capaci di aprire alla collettività nuovi spazi di relazione. 


Damiano Palano

venerdì 9 settembre 2016

Il declino dell’impero americano? Un libro di Joseph S. Nye contro la "fine" del secolo americano




di Damiano Palano

Nel 1974, l’allora giovane Immanuel Wallerstein pubblicò il suo articolo forse più famoso, nel quale esponeva i cardini della teoria dei sistemi-mondo, al centro poi di un’opera quantomeno ambiziosa sulla storia del capitalismo. In quell’articolo Wallerstein forniva una sintetica illustrazione dell’intreccio tra fattori economici e politici che, a partire dal XVI secolo aveva consentito all’«economia-mondo» capitalistica di avere progressivamente la meglio sugli «imperi-mondo», che avevano invece segnato in profondità la storia precedente. In quella vicenda, ovviamente aveva giocato un ruolo importante l’affermazione dello Stato moderno. Ma ancora più rilevante era stata l’affermazione di varie potenze politicamente ed economicamente egemoni, che, di volta in volta, avevano rappresentato il «centro» del sistema dell’economia-mondo. E in particolare, lo studioso newyorkese individuava tre grandi casi di egemonia: le Province Unite Olandesi nel Settecento, la Gran Bretagna nell’Ottocento e gli Stati Uniti nel XX secolo. ovviamente ognuno di questi cicli era segnato da una fase ascendente e da una più o meno prolungata fase discendente. Forse il motivo del successo dell’articolo era però legato al fatto che Wallerstein sosteneva che gli Stati Uniti, dopo aver toccato il culmine della loro parabola, avessero già imboccato la via del declino alla fine degli anni Sessanta. E anche per questo si poteva già intravedere all’orizzonte una quarta fase, dominata da aree ex-periferiche, tra cui non poteva non spiccare la Cina di Mao.
Ma Wallerstein non fu certo l’unico a scorgere il segnali del declino americano. Al principio degli anni Ottanta Robert Gilpin tornò a Tucidide per elaborare un’affascinante teoria della stabilità egemonica, che conduceva a una previsione non troppo fausta per il futuro di Washington. Gilpin individuava come condizione per la stabilità del sistema internazionale la presenza di una potenza egemone, che fosse molto più forte rispetto agli altri Stati dal punto di vista economico, tecnologico e militare. Dopo una fase di ascesa, all’egemone toccava però inevitabilmente il destino del declino. L’esempio paradigmatico non poteva non essere la potenza ateniese, che dopo avere guidato le città greche alla vittoria contro il vicino persiano era rimasta vittima del proprio successo. Ma anche Gilpin non esitava a intravedere nello specchio dell’Atene di Pericle l’immagine degli Stati Uniti usciti dagli anni Settanta. La supremazia economica e tecnologica risultava sempre più insidiata da Europa e Giappone, mentre anche fattori interni alla società americana (e soprattutto il venire meno del patriottismo) sembravano rappresentare un’insidia altrettanto minacciosa. 
Alla metà degli anni Ottanta il regista canadese Denys Arcand, mentre dipingeva ironicamente il gustoso quadro della crisi di alcune coppie della media borghesia intellettuale, poneva sullo sfondo proprio questi timori, chiedendosi se la ricerca ossessiva della «felicità personale» - che i vari protagonisti declinavano soprattutto in chiave sessuale – non fosse un altro che un segnale dell’imminente Declino dell’impero americano. Come era infatti avvenuto ad Atene, si poteva temere che il benessere economico, l’edonismo della società dei consumi, la rivoluzione «postmaterialista» e l’enfasi sull’«autorealizzazione» individuale potessero finire con l’erodere il patriottismo che aveva segnato la fase ascendente della potenza americana. E non era dunque affatto da escludere che, presto a tardi, si sarebbe affacciata sulla scena una nuova Sparta. 
A distanza di tanti anni è oggi piuttosto semplice liquidare quegli allarmismi come eccessivi, se non del tutto fuorvianti. A dispetto delle previsioni di Wallerstein e Gilpin (ma anche di storici come Paul Kennedy) negli anni Ottanta l’economia americana si riprese e, anche grazie alla rivoluzione microelettronica, riconquistò quel primato che sembrava destinata a smarrire. E, soprattutto, a emergere clamorosamente fu invece il declino della superpotenza sovietica, destinata di lì a poco a dissolversi sotto il peso di un’economia arretrata e della sconfitta militare in Afghanistan. È anche per questo che la tesi del nuovo libro di Joseph S. Nye, Fine del secolo americano? (Il Mulino, pp. 134, euro 13.00), non può che apparire come un antidoto contro le retoriche ‘decliniste’, che prevedono l’imminente conclusione del primato di Washington. 
Il politologo – noto in Italia soprattutto come teorico del soft power, ossia il potere di persuasione e attrazione di un determinato modello culturale – passa infatti in rassegna tutti i motivi per cui risulta in gran parte fuorviante pensare non solo che il declino americano sia imminente, ma anche che sia prossima una transizione di potere tra Usa e Cina, simile a quella che si ebbe nella prima metà del Novecento tra l’impero britannico e la nuova superpotenza statunitense. E il punto principale è che nessuno dei potenziali sfidanti sembra in grado di prendere davvero il posto di Washington. L’Europa, a dispetto della sua economia, sembra (come ben sappiamo) molto lontana da una reale unità politica. La Russia, che è ancora dotata di un notevole arsenale nucleare, ha però un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni di gas e petrolio e inoltre attraverserà probabilmente nei prossimi decenni un significativo calo demografico. Il Giappone  nonostante le difficoltà rimane la terza economia mondiale, ma non sembra avere le caratteristica di una superpotenza globale, per le ridotte dimensioni geografiche e demografiche. L’India, che pure è dotata di un consistente arsenale nucleare, è ancora un paese con una vastissima popolazione povera, e sembra inoltre ancora lontana dalla possibilità di colmare il gap in termini di alfabetizzazione e crescita economica nei confronti della Cina. Il Brasile, che certo negli ultimi vent’anni è cresciuto a ritmi sostenuti, ha però incontrato un brusco rallentamento, ed è ancora alle prese con carenze infrastrutturali, elevata violenza e scarsa produttività. Ma neppure la Cina sembra avere per Nye le carte in regola per ‘succedere’ agli Stati Uniti. E i motivi hanno a che vedere innanzitutto con la dipendenza energetica, il ritardo tecnologico rispetto agli Usa, le peculiarità di un sistema monetario controllato dallo Stato. Ma anche con la diseguaglianza crescente, il degrado ambientale, le migrazioni interne, la corruzione e l’assenza di reti di sicurezza sociale, oltre che con una dotazione militare che – per quanto in crescita qualitativa e quantitativa – sembra molto lontana dal poter insidiare la supremazia di Washington.
È stato principalmente Niall Ferguson a sostenere che il XXI secolo sarà cinese e a prevedere che il declino americano si presenterà molto presto. Anche per questo uno dei bersagli principali di Nye sono proprie le ipotesi dello storico britannico. In realtà, ben pochi osservatori hanno però formulato l’ipotesi di un «declino assoluto» degli Stati Uniti. Molti hanno piuttosto suggerito l’ipotesi di un declino ‘relativo’, su cui lo stesso Nye tende a convergere. In altre parole, il declino non deriverebbe da una diminuzione in termini assoluti di quelle risorse su cui gli Usa possono contare, bensì da un calo in termini relativi, dovuto all’ascesa di nuovi protagonisti. Se questa ipotesi può apparire forse rassicurante, in realtà è tutt’altro che priva di insidie. Il rischio principale del prossimo futuro – e lo stesso Nye lo riconosce – sarà infatti la complessità della politica internazionale. Gli attori in gioco già oggi non sono più solo gli Stati, e inoltre il numero di potenze sullo scacchiere mondiale è destinato a crescere, tanto che per qualcuno sta nascendo un inedito sistema «a-polare», e non semplicemente «multipolare». Ed è forse per questo che le suggestive analogie tra Atene e Washington (o tra l’impero romano e l’«impero americano») tendono quasi sempre a rivelarsi piuttosto maldestre. E che molte delle discussioni sul «declino» finiscono quasi sempre col risultare fuorvianti.

Damiano Palano

lunedì 1 agosto 2016

Schiavi del capitalismo del "like", nell'era della "psicopolitica". Un nuovo libro di Byung-Chul Han




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere (Nottetempo, pp. 110, euro 12.00), è apparsa su "Avvenire" del 29 luglio 2016.

Durante il Superbowl del 1984 andò in onda per la prima volta un celebre spot della Apple in cui si annunciava il lancio del nuovo computer Macintosh. Nello spot di Ridley Scott – che metteva in scena il mondo orwelliano di 1984 – una massa apatica di lavoratori anestetizzati e totalmente privi di autonomia ascoltava passivamente il discorso del Grande Fratello proiettato su un teleschermo. Improvvisamente nella sala irrompeva una donna che, sfuggendo all’inseguimento della polizia del pensiero, riusciva a scagliare un pesante martello verso il teleschermo, che esplodeva in un’enorme fiammata. Come il martello gettato contro il Grande Fratello, il lancio del Macintosh avrebbe sancito la fine dell’apatia che aveva segnato l’era della televisione. E per questo – come recitava enfaticamente la voce fuoricampo – il 1984 sarebbe stato molto diverso da 1984.



Secondo Byung-Chul Han – filosofo di origine coreana e docente alla Universität der Künste di Berlino – il 1984 non rappresentò invece la fine di uno stato di sorveglianza. Nel suo Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere (Nottetempo, pp. 110, euro 12.00), Han sostiene infatti che l’avvento della rivoluzione microelettronica, lo sviluppo di internet e la nascita del web 2.0 avrebbero dato avvio a un’era segnata da un controllo ancora più pervasivo. Nel passato, la società disciplinare studiata da Michel Foucault puntava ad assoggettare i corpi, mediante una sorta di ‘ortopedia concertata’. Oggi il potere punta invece a plasmare la psiche, passando dal controllo passivo a un controllo attivo. E la «biopolitica» di cui parlava Foucault si trasforma allora in una «psicopolitica». In sostanza, secondo Han, il potere «si plasma sulla psiche, invece di disciplinarla o di sottoporla a obblighi e divieti», «non ci impone alcun silenzio», ma «ci invita di continuo a comunicare, a condividere, a partecipare, a esprimere le nostre opinioni, i nostri bisogni, desideri o preferenze, e a raccontare la nostra vita». Il «capitalismo del like» non ci costringe entro norme, discipline o spazi chiusi, ma ci invita a ‘essere liberi’. Perché proprio ‘partecipando’ e ‘condividendo’ le nostre passioni e i nostri bisogni, noi alimentiamo spontaneamente – e senza alcuna costrizione – l’immenso archivio dei big data. Un archivio in cui non sono solo immagazzinati per sempre i nostri gusti e le nostre preferenze, ma in cui si trova trascritto addirittura lo «psicoprogramma dell’inconscio». 
La «psicopolitica» annuncia naturalmente un totalitarismo ancora più brutale di quello novecentesco, di cui la distopia orwelliana era la trasposizione letteraria. Se il totalitarismo ‘disciplinare’ doveva infatti scontrarsi con l’opposizione dei soggetti, il nuovo totalitarismo «psicopolitico» non incontra alcuna resistenza e non innesca alcun conflitto: penetra invece come un serpente in ogni interstizio della vita e riesce a fare di ciascun individuo il controllore di se stesso. E così, dal momento che gli individui sono isolati gli uni dagli altri anche nelle relazioni lavorative, la libertà promessa dalla rivoluzione digitale si rovescia nel suo contrario, in un controllo e in una sorveglianza totali. 
Psicopolitica va ad arricchire ulteriormente un quadro – fortemente critico nei confronti delle mitologie della rete – che Han ha già cominciato a delineare in testi come La società della trasparenza (2014) e Nello sciame (2015). Per quanto anche in questo nuovo capitolo non manchino i toni apocalittici, si tratta di una lettura indubbiamente ricca di sollecitazioni e intuizioni folgoranti, e che vale la pena prendere sul serio. Perché i rischi della ‘desocializzazione’ e della ‘de-sensibilizzazione’ sono effettivamente un’insidia per la nostra libertà. E perché la «trasparenza» tanto invocata e celebrata è spesso solo la premessa di un «autodenudamento volontario» e di una «de-interiorizzazione della persona» che lasciano la vita davvero «nuda» dinanzi alle spire di un nuovo potere.

Damiano Palano

lunedì 18 luglio 2016

“Un principe postmoderno? Il futuro del partito visto dal passato: cultura, politica, potere”. Intervento al Convegno "La natura del partito e le sue trasformazioni"


Da alcuni giorni è disponibile on-line la registrazioine dell'intervento
Un principe postmoderno? Il futuro del partito visto dal passato: cultura, politica, potere”
tenuto al Convegno "La natura del partito e le sue trasformazioni nell'età contemporanea" svoltosi all'Università della Calabria il 4 e 5 maggio 2016.