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lunedì 21 dicembre 2015

Spagna, fine del bipartitismo o fine dei partiti?




Il ‘terremoto’ elettorale spagnolo è solo l’ultimo episodio di una dinamica ‘tellurica’ che ha coinvolto l’Italia, la Grecia, e infine il Portogallo nell’ottobre scorso. Ma sarebbe ingenuo dare per morta la forma-partito. Forse ne è nata una nuova.

di Damiano Palano

Questa nota sulle elezioni spagnole è apparsa su CattolicaNews

Dinanzi ai risultati delle elezioni spagnole è quasi inevitabile riconoscere il tramonto di una stagione politica. Come hanno sottolineato molti osservatori, il voto ha sancito infatti la fine del tradizionale bipartitismo centrato sul Partito socialista (Psoe) e sul Partito popolare (Pp). Un bipartitismo che, anche grazie a un sistema elettorale che penalizza le forze minori, ha di fatto dominato la Spagna dai tempi della “transizione” post-franchista. Ma che è ora uscito sconfitto dalle urne. La ‘frammentazione’ del quadro politico che ci consegnano i risultati è infatti simile a quella uscita dalle elezioni politiche italiane del febbraio 2013, e anche in Spagna si potrà costruire una maggioranza governativa solo con qualche alchimia e al prezzo di molti compromessi.

Il risultati spagnoli suggeriscono però anche un’altra domanda, che riguarda in questo caso non tanto la tenuta di un sistema partitico, quanto il destino della forma-partito. Non è infatti possibile liquidare solo come un dettaglio il fatto che Podemos e Ciudadanos - le due nuove forze che sono riuscite a insidiare il bipartitismo – abbiano inalberato fin dalla loro comparsa la lotta contro la «casta» e a favore della partecipazione dei cittadini. Proprio come il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos e Ciudadanos hanno infatti sviluppato una critica indirizzata contro la forma-partito più consolidata: una forma-partito che, naturalmente, non è più quella del vecchio partito di massa novecentesco, bensì quella che molti politologi etichettano come “cartel party”, un partito insediato nelle istituzioni e sempre più lontano dalla società.

Ma le elezioni spagnole ci suggeriscono allora che – insieme al bipartitismo formato da Psoe e Pp – dobbiamo dare per morto anche il partito, come forma organizzata dell’azione politica? Naturalmente sarebbe ingenuo pensare di trarre dai risultati di una singola elezione delle indicazioni su tendenze di lungo periodo. Ma, per quanto le previsioni in questo campo lascino sempre il tempo che trovano, si può tentare di dare una risposta. Quanto è avvenuto in Spagna nell’ultimo anno si inscrive in un quadro più generale, in cui interagiscono due dimensioni distinte. In primo luogo, si possono leggere i risultati spagnoli come l’ennesima conferma del crescente distacco dei cittadini dai partiti e dalla classe politica: un distacco che si riflette di volta di volta in disaffezione, sfiducia e astensionismo e che non è affatto (come spesso tendiamo a pensare) un fenomeno proprio solo dell’Italia, perché in realtà caratterizza più o meno tutte le democrazie occidentali. In secondo luogo, il responso spagnolo deve essere considerato anche come un effetto della crisi europea: una crisi che ha radici economiche e politiche molto profonde, ma che ha prodotto risultati clamorosi soprattutto nei paesi meridionali dell’Eurozona. E da questo punto di vista il ‘terremoto’ elettorale spagnolo solo l’ultimo episodio di una dinamica ‘tellurica’ che ha coinvolto l’Italia, la Grecia, con la scomparsa del Pasok a beneficio di Syriza, e infine il Portogallo nell’ottobre scorso. Le conseguenze della crisi e soprattutto l’impatto delle politiche di austerity hanno per molti versi contribuito a indebolire identità politiche consolidate, o comunque ha indotto una quota significativa dell’elettorato ad abbandonare il partito per qui avevano votato in precedenza. Per un verso, dunque, i risultati spagnoli possono essere considerati come una tendenza che si inquadra dentro un insieme articolato di tensioni, che probabilmente fanno solo esplodere alcuni processi maturati nel corso degli ultimi due decenni. E che davvero ci fanno sembrare le nostre democrazie come “democrazie senza partiti”.

In questo senso si possono dunque leggere nei risultati spagnoli i contorni della crisi di fiducia che investe il “cartel party”, se non altro perché ne emergono i fattori di debolezza, ossia il suo labile legame con la società e il suo rapporto invece simbiotico con lo Stato (e le sue risorse). Ma, al tempo stesso, sarebbe ingenuo dedurre dalla crisi del bipartitismo spagnolo (e dalla crisi di due partiti ‘cartellizzati’ come il Psoe e Pp) la ‘fine’ del partito. E, al di là degli stessi esiti politici (e del futuro di questa formazione politica), è forse lo stesso profilo di Podemos a mettere in guardia da conclusioni affrettate. Nato dall’iniziativa di un piccolo gruppo di accademici radicali nel novembre 2013, Podemos non rifiuta l’idea del partito, ma per molti versi ne ridefinisce l’immagine sulla base del primato della comunicazione. Ciò che contrassegna fin dall’inizio Podemos è infatti la scelta del piano della comunicazione come terreno su cui condurre la propria battaglia, e a partire dal quale costruire una nuova idea di partito. Oggi, ha detto per esempio Pablo Iglesias, fondatore e leader carismatico di Podemos, «la gente non milita nei partiti», ma «nella radio che ascolta». In questo senso, Iglesias e Podemos rompono con la visione consolidata secondo cui i partiti non sarebbero più in grado di svolgere una reale azione di rappresentanza delle istanze della società, e secondo cui dunque la “forma-partito” sarebbe inevitabilmente destinata a essere superata dalle reti informali e dalle connessioni fluide dei movimenti. Contro questa lettura Podemos ripropone piuttosto – seppur rivisitandola, e partendo dal riconoscimento della centralità della comunicazione come dimensione in cui si costituiscono le identità politiche – l’idea che il partito sia ancora uno strumento imprescindibile per fare politica. Uno strumento che, peraltro, non può fare a meno né di una leadership né di un’organizzazione. E che proprio per questo può puntare a conquistare «potere istituzionale».

Naturalmente rimane in questo momento difficile immaginare cosa avverrà nel futuro di questo singolare esperimento politico. Ed è ancora più difficile prevedere se, alla prova dei fatti, la «guerra di posizione» di cui parla Podemos si rivelerà soltanto una variante radicale di storytelling, o sarà davvero in grado di ottenere risultati significativi. Ma, al di là di tutti questi interrogativi, potremmo forse chiederci se, con l’affermazione di Podemos, le elezioni spagnole, oltre a sancire la fine del vecchio bipartitismo, non ci abbiano anche consegnato il ritratto di un nuovo tipo di partito.

venerdì 18 dicembre 2015

La democrazia travolta dalla democrazia. Una provocazione di Raffale Simone




di Damiano Palano

Verso gli ultimi decenni del V secolo a.C., un anonimo autore greco fissò nelle scarne battute di un dialogo fra due cittadini ateniesi una delle prime – e più radicali – critiche alla democrazia. «A me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto un sistema politico, che consenta alla canaglia di star meglio della gente per bene», chiariva fin dall’inizio il principale dei due interlocutori. E poco dopo affermava: «C’è chi si meraviglia che gli Ateniesi diano, in tutti i campi, più spazio alla canaglia, ai poveri, alla gente del popolo, anziché alla gente per bene: ma è proprio così che tutelano – come vedremo – la democrazia. Giacché appunto, se stanno bene e si accrescono i poveri, la gente del popolo, i peggiori, allora si rafforza la democrazia. Quando invece il popolo consente che prosperino i ricchi e la gente per bene, non fa che rafforzare i propri nemici. Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono i nemici della democrazia: giacché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e di ingiustizia, e il massimo di inclinazione al bene; nel popolo invece c’è il massimo di ignoranza, di disordine, di cattiveria » (Anonimo ateniese, La democrazia come violenza, Sellerio, Palermo, 1982, pp. 15-16).
Le parole dell’anonimo oligarca ateniese furono in realtà solo le prime di una lunga sequela, che più o meno da quel momento avrebbe iniziato a dipingere la democrazia come la peggior forma di governo, destinata a sancire il brutale dominio di maggioranze soggiogate da abili demagoghi e a condurre ogni comunità politica verso il disfacimento. Quella duratura dannazione della democrazia è invece molto distante dalla sensibilità contemporanea, che – almeno in Occidente – tende a considerare la democrazia come l’unica forma ‘legittima’ di organizzazione del potere. Nei duemilacinquecento anni trascorsi da quando l’anonimo scrittore consegnò ai posteri il proprio feroce ritratto della democrazia ateniese, il significato usualmente attribuito al termine «democrazia» è naturalmente quasi del tutto mutato. E, a ben guardare, solo un labile legame unisce la democrazia di cui Pericle aveva pronunciato il celebre elogio a ciò che noi contemporanei intendiamo con questo termine millenario. Ciò che consideriamo oggi con «democrazia» è infatti, per molti versi, il sistema rappresentativo-elettivo che prende forma dalle ceneri della vecchia rappresentanza medievale, che viene a modificare le proprie logiche di funzionamento contestualmente all’allargamento del suffragio e che viene ridefinito – soprattutto a livello dottrinario – dopo la Rivoluzione francese, con l’irruzione sulla scena di un «popolo-nazione» dal volto sfuggente e inafferrabile. È infatti proprio questo sistema che, nella stagione della ‘guerra civile mondiale’ del Novecento, viene rivestito di abiti ‘neo-classici’, ed è soprattutto a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale che il regime politico fondato sulla rappresentanza elettiva viene etichettato, nel ‘mondo libero’, con quella parola, «democrazia», che nel corso del secolo precedente era stato patrimonio quasi esclusivo di minoranze radicali e sette rivoluzionarie. 
Proprio il fatto che la democrazia sia oggi intesa come l’unico regime politico ‘legittimo’ comporta ben più di qualche fraintendimento quando si parla della ‘crisi’ della democrazia: perché con questa formula alcuni – in modo del tutto comprensibile – intendono indicare, per esempio, le lentezze del processo decisionale, che rischiano di provocare conseguenze negative per l’intera società, mentre altri – altrettanto legittimamente – alludono all’abbandono dei grandi obiettivi dell’uguaglianza e della partecipazione che contrassegnano l’ideale democratico; o anche perché, con quella medesima formula, alcuni si riferiscono al declino relativo del mondo occidentale dinanzi all’ascesa di aree del pianeta in cui prevalgono regimi autocratici, mentre altri intendono invece sottolineare le difficoltà che gli Stati occidentali hanno nel controllare i flussi transnazionali di merci, capitali e persone, e altri ancora biasimano il ruolo preponderante che hanno, nell’assunzione delle principali decisioni politiche, alcune istituzioni sovranazionali, le élite economico-finanziarie, o persino la «casta» dei professionisti della politica.
Anche in un quadro generale in cui persino i critici della democrazia tendono a brandire le insegne della democrazia, non mancano però autori che sfidano il conformismo e che, in qualche misura, raccolgono il testimone dell’ignoto oligarca ateniese. È questo il caso, per esempio, del pamphlet di Raffaele Simone, Come la democrazia fallisce (Garzanti, pp. 219, euro 17.00), un pamphlet che – pur senza adottare un profilo anti-democratico – sostiene che i grandi pilastri che hanno sostenuto la democrazia siano anche gli stessi che ne decreteranno la probabile fine. Naturalmente il testo di Simone – che è un linguista affermato e noto a livello internazionale – non si dilunga in un esame delle complicate, e talvolta persino bizantine, ricostruzioni dedicate al tema da scienziati politici, storici delle istituzioni e del pensiero politico. E proprio per questo il suo testo ha la freschezza che hanno talvolta i libri dei ‘dilettanti di talento’, che – superando con un balzo tutti i nodi irrisolti di discussioni specialistiche – riescono a cogliere alcuni aspetti cruciali. In sintesi, Simone sostiene che la democrazia, oltre che da un insieme di istituzioni, sia costituita da una «mentalità» e da una mitologia democratiche. «Questi pilastri, in parte immateriali in parte materiali», scrive Simone, «sorreggono ancor oggi l’architettura dei regimi democratici e hanno dinamiche coordinate, anche se non coincidenti» (p. 22). Ma si tratta di pilastri che rischiano di rendere sempre più fragile l’intera architettura.
Benché riconosca l’importanza delle istituzioni, in realtà Simone si concentra soprattutto sulla «mentalità democratica», perché è proprio qui che si trovano i problemi principali. Più in particolare, però, per Simone sono importanti alcune «finzioni costitutive», che garantiscono sia la vitalità delle istituzioni, sia la conservazione della mentalità democratica. Secondo Simone queste «finzioni» operano come idee regolative, nonostante siano irrealizzabili (perché in sostanza si propongono di realizzare l’irrealizzabile). Si tratta, cioè, di «massime di somma generalità che indicano traguardi verso cui tendere illimitatamente, senza alcuna speranza di raggiungerli» (p. 57), di proposizioni «logicamente false», eppure «ideologicamente vere», perché «guidano le convinzioni e il comportamento politico, anche se a volte sono molto ostiche ad accettarsi» (p. 58). Tra queste finzioni Simone colloca la libertà, l’uguaglianza, la sovranità popolare, la rappresentanza, il potere della legge, la competenza dell’elettore, l’inesistenza dei capi, o l’inclusione illimitata di chiunque entri nei propri confini. Tutti questi «principi-finzione», dice Simone, «si sono radicati in profondità nella coscienza occidentale dando corpo alla mentalità democratica, un ramificato sistema di credenze, opinioni, aspettative e perfino pretese, quale poteva svilupparsi solo in un ambiente speciale» (p. 103). E così, «con l’aiuto di un sistema scolastico particolarmente generoso e di una cultura diffusa orientata all’edonismo e al divertimento, si è impiantata l’idea che alla democrazia si possa chiedere tutto» (p. 103). Ciò significa, in sostanza, che la mentalità democratica non solo è diventata egemone, ma si è addirittura estesa anche ad aree estranee a quelle originarie, con conseguenze che per Simone sono ovviamente estremamente negative: «la democrazia è percepita come una Fata protettiva, munita di un’ampia cappa capace di coprire ogni aspetto e fase della vita e sotto cui chiunque, da qualunque parte provenga, può trovare rifugio nel momento del bisogno. La Fata ha tutte le doti immaginabili: è buona, comprensiva, generosa, tollerante, accogliente, affettuosa e non bada a spese. Questa percezione ha prodotto un generale riassestamento delle massime ingenue che guidano i comportamenti collettivi: al posto della millenaria regola ‘càvatela da solo’ ce n’è ora un’altra che dice: ‘qualcuno dovrà pur tirarti fuori da qui’, dando per scontato che a farlo debba essere proprio lei, la Fata Democratica, in una delle sue mille vesti (come Stato, come governo ecc.)» (pp. 104-105). I riflessi dell’estensione della mentalità democratica, tanto per esemplificare rapidamente, sono le aspettative crescenti su «un welfare erogato quasi gratuitamente», le richieste di assistenza da parte dei migranti, le diverse richieste di diritti culturali, le rivendicazioni sulla parità di genere, le ossessioni per il ‘politicamente corretto’. Ma naturalmente Simone non manca di evocare i danni che derivano dall’«abusare dell’uguaglianza», e cioè quei danni che derivano dal «prendere impropriamente sul serio la finzione in cui quella si esprime», trattandola «come una cosa salda», tanto da «trarne l’illusione di una libertà assoluta» (p. 112). 
A fronte del successo della mentalità democratica, la democrazia incontra però una serie di difficoltà non congiunturali (il declino dello Stato sovrano, i flussi migratori che investono i paesi occidentali, la trasformazione economica), che inducono Simone a prefigurare quantomeno il rischio di un crollo democratico. In realtà gli scenari che individua sono due: una «democrazia a bassa intensità», in cui l’astensione e la partecipazione continueranno a calare, o una «democrazia volatile», in cui la volatilità delle alleanze impedirebbe qualsiasi misura di cambiamento. La prognosi rimane comunque infausta: «In entrambi i casi la democrazia andrebbe in bancarotta, un disastro con esiti fatali anche sulla vita quotidiana, perché comporterebbe – esattamente come nella previsione di Montesquieu – una crisi delle poche residue virtù sopravvissute nei cittadini» (p. 176).
Nella discussione di Simone ci sono evidentemente molti nodi sospetti. Per esempio, appare piuttosto singolare che, circoscrivendo le proprie considerazioni all’Occidente, il linguista precisi che si riferisce solo «all’Europa occidentale» (p. 103), e che escluda così dal novero gli Stati Uniti, ossia la potenza globale che nel corso del Novecento ha inalberato la bandiera della democrazia e che nel corso degli ultimi settant’anni ha per molti versi riplasmato gli ideali democratici rompendo anche in modo netto con la vecchia tradizione democratica. E può anche lasciare piuttosto perplessi l’accento così marcato posto sulla «mentalità», senza che venga chiarito non solo – come direbbe qualche studioso ossessionato dall’«operazionalizzazione» dei concetti – ‘come si misuri’ questa mentalità, ma anche quali siano i suoi elementi ‘riconoscibili’, in quali tradizioni politiche essa possa essere ravvisata, quando storicamente prenda forma, e se in Italia se ne facessero alfieri, per esempio, il Pci di Palmiro Togliatti, la Democrazia Cristiana di Giulio Andreotti, o il Partito Socialista di Bettino Craxi. Infine, la scelta piuttosto infelice di definire «finzioni» quelle credenze su cui si fonderebbe la mentalità democratica non può che destare più di qualche perplessità, dettata più che altro dalla considerazione che – per molti versi – tutta la politica non è altro che un regno popolato di «finzioni», perché, a ben guardare, sono «finzioni», lo Stato, la nazione, la razza, il popolo, la classe e l’«Occidente». Tutte queste finzioni, che pure si riferiscono a qualcosa che non esiste materialmente, ci dicono però quale significato gli esseri umani danno alla loro vita comune, perché nel ‘politico’ si nasconde anche una dimensione simbolica irriducibile, nella quale si esplica la natura di «animale simbolico» dell’essere umano. E sebbene la fragilità mostrata dalle «finzioni» sia un problema reale dei nostri sistemi politici, su cui varrebbe la pena riflettere, Simone, quando – con una scelta terminologica forse fuorviante, ma comunque del tutto legittima – parla di «finzioni», tende invece a rivolgersi a qualcosa di diverso, che non sono le ‘persone collettive’ che popolano l’orizzonte simbolico della politica, bensì le ‘pretese’ eccessive nutrite dall’homo democraticus. In questo senso, a essere coinvolti sono, a ben guardare, quegli stessi ideali che nutrono più o meno tutte le ideologie moderne (e che dunque non sono certo esclusivi della ideologia democratica, sempre che una simile ideologia davvero esista).
Ma simili obiezioni naturalmente lasciano il tempo che trovano. Il pamphlet di Simone va preso infatti come un pamphlet, come una provocazione rivolta all’opinione pubblica, agli intellettuali e forse al mondo politico. Al di là delle argomentazioni, al cuore del libro di Simone – come al cuore di ogni pamphlet che si rispetti – c’è d’altronde la difesa energica di alcuni valori. Valori che si possono condividere oppure no. Valori che possono accendere gli entusiasmi di alcuni, specie nel momento in cui Simone si diffonde sugli effetti distruttivi che hanno sulla convivenza democratica i flussi migratori, o persino risultare irritanti per altri, magari quando il discorso tocca la critica dell’autorità. Il piano comunque non è più, in questo caso, quello di una discussione sulla «crisi», sul «disagio» e sul «malessere» della democrazia, ma quello di una discussione politica sui valori che una società deve perseguire, preservare e difendere. Ed è cioè anche il piano di una discussione sul significato che dobbiamo attribuire alla vecchia parola «democrazia».

Damiano Palano

sabato 12 dicembre 2015

La democrazia indignata di Juan Carlos Monedero. Sul "Corso urgente di politica per gente decente"





di Damiano Palano

Nel novembre 1917, mentre in Europa infuriava la guerra e aveva già iniziato a soffiare il vento della rivoluzione, Max Weber fissò nella celebre conferenza Wissenschaft als Beruf alcune delle riflessioni maturate nel corso di una intensa carriera scientifica, destinata a concludersi prematuramente di lì a pochi mesi. Ai giovani del Freistudentischer Bund di Monaco, che aveva invitato lo studioso al ciclo di conferenze, Weber, mentre illustrava la propria visione del metodo «scientifico», giungeva a toccare lo spinoso tema dei rapporto fra politica e ricerca nel campo delle scienze sociali. E da questo punto di vista ammoniva tanto gli studenti quanti i suoi colleghi a tenere ben distinto il piano della riflessione scientifica da quello della battaglia politica: «la polemica non si addice all’aula di lezione. Non vi si addice da parte degli studenti. […] Ma non vi si addice neppure da parte del docente: non si addice proprio quando questi si occupa di politica dal punto di vista scientifico, e allora meno che mai. Infatti la presa di posizione politica pratica e l’analisi scientifica di formazioni politiche e di partiti sono due cose differenti. Quando uno parla della democrazia in una riunione popolare, non fa alcun mistero della propria posizione personale: anzi, prendere partito in modo chiaramente riconoscibile è il suo dannato dovere, ciò a cui è tenuto. Le parole di cui si serve non sono allora strumenti di analisi scientifica, bensì strumenti di competizione politica nei confronti della presa di posizione altrui. Esse non sono un vomere per dissodare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, mezzi di lotta. Ma in una lezione o in un’aula sarebbe sacrilegio usare la parola in questa maniera» (M. Weber, La scienza come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006, p. 31).
Distinguere il piano dell’analisi scientifica da quello della battaglia politica non è in realtà sempre così semplice come Weber sembrava pensare. E d’altronde proprio nelle riflessioni dei più convinti alfieri dell’«avalutatività» delle scienze sociali si celano spesso distorsioni ideologiche macroscopiche. Ma naturalmente non è alla concezione della ricerca scientifica delineata da Weber che tende a guardare Juan Carlos Monedero, politologo dell’Università Complutense di Madrid e tra i fondatori di Podemos (dal quale si è dimesso per il dissenso su una linea politica eccessivamente ‘verticistica’ e ‘mediatica’). Il suo libro Corso urgente di politica per gente decente (Feltrinelli, pp. 222, euro 16.00) è infatti una sorta di ‘manuale’ di introduzione alla politica, da cui però l’impegno politico – e in particolare l’impegno a difendere una parte politica specifica – viene rivendicato quasi in ogni pagina. Se una simile compenetrazione tra i due piani che Weber richiedeva rimanessero rigorosamente distinti, rende per molti quasi ‘sacrilega’ l’operazione di Monedero, in realtà il libro merita invece di essere letto, anche per apprezzare l’abilità – anche retorica – con cui il politologo spagnolo si confronta con tutti i temi chiave che di solito sono al centro dei corsi introduttivi di scienza politica e teoria politica, e che però sono connessi alle concrete problematiche della società contemporanea. 
A dispetto del ruolo che Monedero ha assunto negli ultimi anni, sarebbe però sbagliato considerare il Corso urgente come un ‘manifesto teorico’, o come l’enunciazione della visione politica di Podemos, e non solo per la precoce fuoriuscita dello studioso madrileno da questa formazione. Il libro è infatti apparso nella sua prima edizione nel 2013, e la sua stesura è dunque precedente alla fondazione di quello che è diventato nel breve spazio di due anni uno dei protagonisti della politica spagnola. Inoltre, anche se il Corso urgente certo riflette in modo evidente il clima creatosi dopo il 15 marzo 2011 (il giorno in cui gli indignados spagnoli si accamparono alla Puerta del Sol di Madrid), questa sorta di manuale - o di «antimanuale», come lo definisce l’autore – condensa una serie di studi, considerazioni e anche battute di spirito che Monedero deve aver sperimentato e collaudato in un ventennio di insegnamento. E, anzi, l’effetto di questa sedimentazione talvolta rischia persino di inficiare la stessa logica delle argomentazioni (perché le citazioni da film, romanzi, canzoni tendono a essere persino compulsivamente affastellate l’una accanto all’altra).
Il nodo da cui prende le mosse Monedero, e che chiarisce il senso stesso del Corso urgente, è chiarito fin dalle prime pagine, e riguarda lo stato delle nostre democrazie: «Oggi la democrazia sembra universale, ma in realtà è stata svuotata di ogni contenuto. Si riduce al voto, e la politica sembra un gioco di attori ingaggiati per recitare male una parte e sorbirsi le nostre critiche. Crediamo che la democrazia si giochi tutta nelle leggi elettorali, nel diritto di voto, nel contenuto delle costituzioni, nella stesura di una normativa. Ma non è così. La migliore legge elettorale, la migliore costituzione, l’inclusione politica assoluta di tutte le persone che vivono in un territorio non valgono niente, se non c’è la volontà di ripartire equamente i diritti e i dover della vita condivisa. La migliore delle leggi non  serve a niente, se i cittadini accettano di governare se stessi con i principi dell’efficienza e della concorrenza. Confondiamo la democrazia con lo spettacolo della democrazia. Di fatto l’unica cosa reale è proprio lo spettacolo. Se non hai una parte nel programma non esisti. Per esistere nella democrazia, dei interpretare un ruolo e pronunciare qualche battuta. E comparire in televisione. È l’unica cosa che conta» (p. 22). Un simile quadro della democrazia occidentale costituisce in qualche modo il presupposto di una discussione in cui Monedero tocca tutti i punti chiave di un’introduzione alla politica, dalle classiche domande su cosa sia la politica, se quest’ultima abbia un’«essenza», e se la politica scaturisca dalle caratteristiche (immutabili) degli esseri umani. Nel libro, insieme a tutto ciò che ci si può aspettare da un «anti-manuale» scritto da un politologo di estrema sinistra (comprese le battute vagamente fruste e l’anti-clericalismo di maniera), si trova una variante della vecchia teoria della democrazia partecipativa, e cioè una visione della democrazia che assegna ai movimenti e alla partecipazione un ruolo essenziale, se non centrale, per conservare la vitalità di partiti e istituzioni. Ma nel testo ci sono comunque alcuni punti interessanti, che denotano comunque lo sforzo di confrontarsi con i grandi temi della teoria politica.
Forse l’elemento più interessante del libro di Monedero è costituito dall’impegno a discutere del nodo della natura umana. Anzi, a questo proposito Monedero scrive che riflettere sulla natura umana è addirittura necessario per pensare la politica, e per contrastare una specifica immagine della politica. «Abbiamo smesso di interrogarci sulla natura umana solo nel momento in cui si è imposta l’idea che l’uomo è lupo per l’altro uomo, come affermò Hobbes riprendendo Plauto» (p. 51), nota per esempio. E, in effetti, l’obiettivo del suo ragionamento è, da questo punto di vista, portare alla luce l’ambivalenza della «natura umana», ossia contrastare l’idea secondo cui l’essere umano sarebbe ‘naturalmente’ egoista e non predisposto alla cooperazione. Monedero tenta così di mostrare, anche attingendo alle ricerche etologiche, che l’essere umano ha una «fibra morale» innata, che è cioè portato all’altruismo, alla solidarietà e all’empatia, e non, dunque, solo all’egoismo, alla sfiducia, all’indifferenza. E questo conduce dunque a riconoscere l’ambivalenza dell’essere umano: «anche la dualità fa parte della nostra evoluzione. L’angelo (auspicato da Rousseau) e il demone (evocato da Hobbes) fanno parte della nostra natura. Tuttavia l’attuale diffusione di Homo sapiens sapiens sul pianeta non è merito di chi si è limitato a sopravvivere, ma di chi ha cooperato. L’empatia, la reciprocità e la solidarietà sono le chiavi della vita di quell’animale particolare che è l’uomo, capace di riflettere su se stesso. Fanno parte della nostra natura. Tocca alle istituzioni trasformarle in modelli si comportamento» (p. 53). Ma, se «l’uomo è incline alla cooperazione», in realtà – sostiene Monedero – esistono ambiti sociali che incoraggiano il depredatore che abita dentro di noi», e in particolare «il modello neoliberalista, senza spingerci tanto lontano, trasforma la società in un campo di battaglia di tutti contro tutti» (pp. 61-62). 
Il tentativo di ancorare l’analisi sulla politica a solide basi antropologiche naturalmente non prelude a un determinismo che riduca lo spazio della dimensione culturale. Anche Monedero subisce anzi il fascino di quella svolta ‘estetica’ della riflessione sul ‘politico’ che – grazie soprattutto alla mediazione di Ernesto Laclau – ha esercitato un influsso determinante sull’elaborazione dottrinaria dei dirigenti di Podemos (in particolare sul leader carismatico Pablo Iglesias Turrión e su Iñigo Errejón Galván). E proprio in questa direzione riconosce il peso che hanno le «narrazioni» e i concetti, non solo nell’indurre all’azione o all’obbedienza, ma anche a incorniciare la realtà dentro schemi interpretativi tutt’altro che neutrali. «Nominare è tradire», ricorda infatti Monedero, nel senso che, «quando nomina, l’uomo lascia necessariamente alcune cose fuori cal verbo, pone l’accento su altre, si concentra su un aspetto specifico e non su un altro, con il tempo gli si incollano addosso sfumature, contesti, significati, usi e abusi», tanto che così «interpreta la realtà e poi la fissa in habitus che ostacolano l’emancipazione» (pp. 76-77). «I nomi sono argine ma anche prigione», scrive dunque Monedero, riprendendo in fondo la stessa logica che informava la vecchia frase con cui Carl Schmitt invitava a riconoscere che tutti i concetti politici sono sempre concetti polemici. D’altronde il politologo madrileno non sfugge alla necessità di confrontarsi con il pensiero del giurista tedesco, e anzi sostiene che sia necessario distinguere le sue convinzioni politiche dal «realismo delle sue analisi» (p. 92). Monedero non può infatti non essere affascinato dall’idea che la politica nasca dall’esperienza del conflitto, e che essa sia in fondo ineliminabile proprio perché il conflitto è una componente irriducibile dell’esperienza umana. «Ciò che definisce la politica», scrive infatti Monedero, «è il conflitto potenziale (e le deviazioni dell’obbedienza)», e riconoscere questo dato «non significa mirare al disordine costante, ma comprendere che, finché ci saranno disuguaglianze, la tensione politica sarà sempre viva nei gruppi umani» (p. 92). 
Il fatto che Monedero evochi la disuguaglianza come fattore che determina il conflitto è senza dubbio la spia di un pensiero che tende a imputare la politica, più che alle caratteristiche della «natura umana», alle condizioni economico-sociali. E, d’altro canto, Monedero si spinge a definire il conflitto (che deve essere riconosciuto e non negato) come la base del progresso sociale: «L’essenza della politica», scrive per esempio, «è la probabilità dell’obbedienza, l’assunto per cui il conflitto è sempre presente perché la società è in perenne evoluzione. Non si può mai considerare finita la politica. Di conseguenza, non si potrebbe mai considerare finita la democrazia, e lo stesso vale per il socialismo. È il conflitto a mettere in moto le società. Il conflitto è un equilibrio instabile di essere umani che vivono nel tempo, e quindi invecchiano e perdono le energie a mano a mano che si avvicinano alla morte. Il conflitto esisterà finché esisteranno esseri umani che pensano di meritare certe cose ma ancora non le possiedono. Il conflitto è qui per restare, con la sua minaccia e la sua promessa di redenzione. I due volti del Giano politico» (pp. 95-96).
La concezione conflittualista articolata da Monedero è ovviamente finalizzata a una celebrazione della «politicizzazione» (e a una critica contestuale della «spoliticizzazione»), perché lo studioso spagnolo considera «una società politicizzata» come una società attenta, e invece una società «spoliticizzata» come una società in cui gli individui sono ripiegati sulla dimensione privata. Perché, nonostante sia ben consapevole che non si può schiacciare interamente la dimensione individuale su quella collettiva, per Monedero la politica è però soprattutto appartenenza a un gruppo, con tutto ciò che l’appartenenza a un gruppo implica. «Siamo individui, ma sopravviviamo solo in gruppo», così «la politica può essere descritta come l’ambito sociale legato alla definizione e all’articolazione di traguardi collettivi che è obbligatorio raggiungere», e dunque «è politico ciò che colpisce la collettività in modo imperativo» (p. 98).
La celebrazione della dimensione conflittuale della politica è finalizzata a un’analisi della condizione delle democrazie occidentali contemporanee. Monedero non dimentica di muovere una severa critica alla «scienza politica egemonica», che ha proceduto a ‘svuotare’ la democrazia della sua sostanza: «in altre parole, esistendo modi diversi di intendere la democrazia – mero processo decisionale, forma di livellamento sociale, assunzione di corresponsabilità, accordo fra le élite –, si è preferito adottare la definizione minima», una definizione «per cui la democrazia non è più un campo di battaglia e il suo obiettivo non è più ridurre le disuguaglianze» (p. 99). Monedero si riferisce ovviamente a quel filone della riflessione politologica che Peter Bachrach definì, negli anni Sessanta, come «elitismo democratico», ossia quel filone che riduce la democrazia a una procedura elettorale, dimenticando la dimensione partecipativa e l’impegno a garantire un’effettiva uguaglianza. «In realtà gli studiosi, dall’accademia, contribuivano solo a cancellare il dibattito sulla qualità della democrazia» (p. 102), scrive Monedero, ma naturalmente la sua attenzione non può non rivolgersi alla revisione ‘neo-liberale’ della teoria democratica, che trova un vero e proprio pilastro nel rapporto alla Trilateral della metà degli anni Settanta sulla Crisi della democrazia. A questo proposito, Monedero trova inadeguata e persino fuorviante la formula «postdemocrazia», proposta fra l’altro da Colin Crouch. «In genere», osserva per esempio, «la critica alla ‘postdemocrazia’ si limita alla richiesta di un capitalismo dal volto umano, un altro ossimoro della nostra epoca», mentre, «al di là dello sguardo nostalgico verso un passato idealizzato, la manifestazione più autentica e cruda del vuoto della democrazia si ha nella persistenza o nell’aumento delle disuguaglianze, nell’aggravarsi della frattura tra Nord e Sud, nella devastazione ambientale, nella disoccupazione e nella precarietà del lavoro, nel permanere di ‘zone brune’ dove lo stato non interviene e dove la violenza urbana e contro le donne è la regola, nell’oligopolio dei mezzi di comunicazione, nell’assenza di riforme agrarie, nell’esclusione, nella femminilizzazione della povertà, nell’aumento delle risorse destinate alla repressione e nella scelta della guerra per la risoluzione dei conflitti» (p. 191). Mentre la riflessione sulla «postdemocrazia» tende dunque a guardare nostalgicamente al passato, Monedero – indossando naturalmente gli abiti dell’intellettuale impegnato politicamente, e accantonando quelli dell’analista – indica nella «democrazia indignata», e cioè nella spinta dei movimenti, la strada principale che può consentire di «reinventare la democrazia e lo stato» (p. 192). «Non c’è errore più grande che pretendere di tornare a un passato abbellito solo dalla prospettiva dell’attuale indigenza delle nostre democrazie» (p. 192). Ma, se Monedero esalta i movimenti (e in particolare le diverse forme assunte a livello globale dagli indignados), non trascura di considerare i rischi di un’azione che si limiti alla dimensione del movimento. «Per il movimento indignato il rischio principale», nota anzi, «è quello di farsi prendere dalla malinconia» (p. 196). E soprattutto (ma non bisogna dimenticare che sono parole del 2013), osserva: «per non essere solo fumo purificatore, il movimento deve affrontare anche l’ora della verità del potere politico», perché «senza leader, senza programma, senza ossatura, il rischio di scomparire nel riflusso c’è sempre» (p. 206). D’altronde, non manca  neppure di notare che «nessuno sa quando l’indignazione riuscirà a trasformarsi in un nuovo senso comune per costruire una politica decente» (p. 211).
In un passaggio del libro Monedero ricorda un episodio della sua carriera di docente. «Qualche anno fa», scrive, «chiesi ai miei studenti di scienze politiche qual era l’ultimo libro di politica che avevano letto, e una ragazza disse: Il piccolo principe di Machiavelli» (p. 197). La gaffe della studentessa diventa del discorso di Monedero una formula per descrivere – combinando Saint’Exupéry con Machiavelli – la miscela di ingenuità e buon senso propria del movimento degli indignados. Ma forse questa miscela può anche essere riconosciuta nell’«anti-manuale» di Monedero, in cui – accanto a molte considerazioni acute e tutt’altro che banali – si trovano alcune ingenuità che finiscono con l’indebolire il discorso sulla politica. Forse l’ingenuità più evidente riguarda proprio l’esame delle ideologie politiche e la discussione su ciò che caratterizzerebbe, rispettivamente, la destra, la sinistra e il centro. Inserendosi nello sterminato dibattito sulla distinzione tra destra e sinistra, Monedero propone una soluzione piuttosto semplicistica. Se vent’anni fa (con un’operazione per molti versi discutibile) Bobbio riconduceva la dicotomia destra-sinistra a quella tra libertà e uguaglianza, Monedero compie una forzatura ulteriore, e quantomeno grossolana. Perché, se per un verso riconosce la difficoltà di attribuire alla «sinistra» un preciso patrimonio ideologico, dall’altro scrive che «una persona si colloca a destra quando il suo modo di vivere è egoista» (p. 106). Evidentemente le cose sono invece più complicate. Innanzitutto, perché – nonostante possa essere confortante per un cittadino di «sinistra» collocarsi su un versante eticamente virtuoso – la prospettiva ‘egoista’ che Monedero attribuisce alla «destra» in realtà è specifica solo di una componente del liberalismo (e neppure di tutto il liberalismo): ed è sufficiente pensare, sotto questo profilo, a tutte le diverse forme di nazionalismo, che spesso possono essere collocate a destra, ma che non si fanno certo portatrici di un ‘egoismo’ individualistico, se non altro perché possono chiedere ai cittadini di andare in guerra e di rischiare la vita per difendere la patria. Ma il ragionamento di Monedero appare su questo punto discutibile per un motivo più generale, che ha a che vedere con un carattere per molti versi addirittura costitutivo delle identità politiche. Proprio perché la politica – come lo stesso Monedero riconosce – ha a che vedere non tanto con gli individui, quanto con i gruppi di individui, è indispensabile riconoscere che ciascun gruppo ha sempre, nella propria struttura, una componente ‘egoistica’ e una ‘altruistica’. Detto molto semplicemente, ciascun gruppo, per potere esistere come tale, deve sempre mettere in atto qualche forma di ‘egoismo’, nel senso che deve fissare una barriera (anche solo identitaria) fra i suoi membri e tutti quanti invece stanno fuori. Ma, al tempo stesso, ogni gruppo presenta sempre una componente ‘altruistica’, anche se l’altruismo tende a valere solo tra i membri. Una simile ambivalenza sta d’altronde alla base del rapporto costantemente problematico tra la morale privata e la morale politica, ossia di quel rapporto in virtù del quale determinate azioni, che giudicheremmo immorali se commesse da individui, diventano invece legittime, e anzi encomiabili, se commesse da gruppi politici o da Stati. È forse proprio per la consapevolezza di questa insolubile ambivalenza – un’ambivalenza che è peraltro strettamente connessa alla relazione originaria, misteriosa e inquietante fra politica e violenza – che Max Weber invitava gli scienziati sociali ad astenersi dal tentare qualsiasi valutazione ‘scientifica’ dei valori. Ed era in fondo per questo stesso motivo che, concludendo la celebre conferenza sulla Politica come professione, con parole che in questo caso non hanno perso dopo un secolo nulla del loro prezioso valore, metteva in guardia gli aspiranti politici dalle insidie che li attendevano in un mondo di demoni: «Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. […] egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. […] Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile» (M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, cit., pp. 129-130).

venerdì 4 dicembre 2015

Crisi dei partiti, fine della democrazia? Una recensione di Ritanna Armeni a "La democrazia senza partiti"



Di Ritanna Armeni

Questo testo dedicato a La democraziasenza partiti (Vita e Pensiero, euro 12.00) è apparsa sul “Messaggero di Sant’Antonio” del dicembre 2015.

La crisi dei partiti è sotto gli occhi di tutti. Ma quasi nessuno si chiede quali possano essere le sue conseguenze per la democrazia. Essa nasce dall’esaurirsi del ruolo dei partiti così come lo abbiamo conosciuto nel Novecento. Non sono più i rappresentanti di interessi collettivi, seppure ‘di parte’, non sono più portatori di un’identità e, quindi, di importanti valori. La loro crisi si è manifestata con la fine delle ideologie e del rapporto sociale “di massa” che ha tanto contato nelle loro origini e nella loro esistenza. Oggi quelli che restano sono davvero molto diversi dalle robuste macchine che producevano idee e programmi e coinvolgevano milioni di uomini e di donne; si sono trasformati: sono “liquidi” o di “plastica”, fondati quasi esclusivamente sulla figura di un leader che tutto può. Nessuna nostalgia, sia chiaro: anche le vecchie organizzazioni erano piene di difetti, vizi e insufficienze, anche loro usavano spregiudicatamente il potere. E comunque non hanno saputo rispondere alle nuove domande dei cittadini e alle esigenze di una società moderna. Ma grazie a loro la democrazia ed europea è nata e fino a un certo punto si è rafforzata. E ora? 
Damiano Palano nel suo bel libro La democrazia senza partiti (ed. Vita e Pensiero), pone la domanda senza mezzi termini.  Possibile mantenere un assetto democratico senza quei soggetti (i partiti) che, come ha detto il filosofo Norberto Bobbio, sono “gli organi motori dello stato democratico”?. Oppure dobbiamo pensare che la loro fine corrisponda a quella della democrazia così come si è intesa in Europa almeno dal dopoguerra? Non è una domanda astratta. I nuovi partiti, quelli liquidi, mantengono una presenza forte nelle istituzioni. Questa presenza, privata del legame ideologico e sociale, è sicuramente tra le cause che determinano la loro trasformazione in gruppi d’interesse, corporazioni e alleanze di potere, che provocano scandali e malcostume e possono (c’è chi dice che il processo è già iniziato) limitare fortemente la democrazia. Per questo sarebbe necessario costruire moderne organizzazioni democratiche che aiutino la formazione di una volontà popolare, nuovi luoghi in cui i cittadini contino, anche fuori dai canoni novecenteschi.
Nella lunga agonia dei vecchi partiti e nella moderna società “liquida” nessuno si è ancora misurato con questa possibilità. I tentativi di usare a questo fine i social network si sono rivelati spesso astratti. Il problema è quindi tutto aperto. “Non è impossibile, anche se solo per via ipotetica – scrive nel suo saggio Palano – immaginare il profilo di una sorta di ‘Principe postmoderno’ che, pur aderendo per isomorfismo ad una società liquida, sia in grado di riconquistare una cultura politica capace di incarnare la vocazione incisa nella stessa parola ‘partito’: la vocazione di dare voce alla ‘parte’, di dare forma alla società, di costruire identificazione in grado di durare nel tempo, di alimentare l’immaginario democratico modificando i confini del ‘tutto’”. Non è impossibile, è vero, ma ancora non ce n’è traccia. E nel frattempo la democrazia s’indebolisce o si trasforma.

Ritanna Armeni


domenica 29 novembre 2015

Cercando un altro populismo. Il realismo ‘romantico’ di Pablo Iglesias





di Damiano Palano

Come tutti i movimenti politici nella fase nascente, anche Podemos rimane oggi un fenomeno difficile da interpretare, soprattutto perché le sue coordinate ideologiche e la sua fisionomia organizzativa sono davvero molto complicate da classificare all’interno delle più familiari griglie concettuali. Per il bagaglio ideologico (più o meno esibito) dei suoi dirigenti, è infatti inevitabile accostare Podemos ad altre formazioni della ‘nuova’ sinistra radicale europea, e in particolare a Syriza e al suo leader Alexis Tsipras. Da molti altri punti vista, Podemos è invece più simile al Movimento 5 Stelle, non solo per centralità che ha assegnato al piano comunicativo (e alla leadership del suo leader), ma anche per il tentativo di andare ben oltre il perimetro dell’elettorato di sinistra, rinunciando persino alla stessa formula «sinistra» e a molti degli elementi identitari di questa tradizione politica. E d’altronde il perno fondamentale della sua comunicazione – la lotta alla «casta», alla classe politica corrotta del Ppe e del Psoe, ma più in generale all’intera classe dirigente della Spagna post-franchista – avvicina Podemos, molto più che alla sinistra radicale, alla retorica ‘anti-politica’ del M5S e alle diverse espressioni di disaffezione che, negli ultimi decenni, sono state etichettate con la formula impressionistica di «populismo».
Nel suo primo anno di vita, Podemos (fondato ufficialmente nell’autunno 2013) sembrava destinato a una cavalcata trionfale, di cui il successo ottenuto nelle elezioni europee del 2014 era solo la prima tappa. Ora l’avanzata sembra incontrare le prime difficoltà, e la campagna per le prossime elezioni costituirà una cartina di tornasole, non solo per valutare se l’obiettivo di superare in termini di voti il Partito socialista verrà raggiunto, ma anche per capire quali saranno le prospettive di una formazione ancora ben lontana da un consolidamento organizzativo e identitario. È però quasi inevitabile cercare una risposta a tutte le domande su questo nuovo protagonista della politica spagnola nelle parole del suo leader, Pablo Iglesias Turrión, giovane politologo della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Complutense di Madrid, e in particolare nel suo Disputar la democracia. Politica para tiempos de crisis (Akal, Madrid, 2014), oggi tradotto in italiano, in un’edizione curata da Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena, con il titolo Democrazia anno zero. Il manifesto politico del leader di Podemos (Alegre, Roma, 2015, euro 15.00). Anche se – occorre avvertire – molte delle domande sul futuro (e persino sul futuro prossimo) di Podemos sono destinate a rimanere senza risposta dopo la lettura del libro di Iglesias. Non solo perché la stesura del testo risale all’estate 2013 (e dunque a una fase in cui Podemos era ancora solo un progetto), o perché l’autore dichiara di non avere avuto il tempo necessario per portare a compimento il piano che si era proposto. Ma probabilmente anche perché – e il caso di Iglesias lo conferma – i tempi dell’azione politica non si accordano mai con quelli della riflessione teorica, che rischia quasi sempre di arrivare tardi, proprio come la vecchia nottola di Minerva (e d’altronde nessuno, per capire davvero il «berlusconismo» o il «renzismo», si potrebbe accontentare della lettura di testi, non certo memorabili, come L’Italia che ho in mente o Tra De Gasperi e gli U2). 
Nonostante tutte queste cautele, il libro di Iglesias rischia davvero di risultare deludente persino per i suoi lettori meglio disposti. Nelle pagine di Democrazia anno zero si trova infatti davvero poco – per non dire nulla – dei progetti con cui Podemos mira a conquistare un ruolo di primo piano nella politica spagnola. Ma inoltre – tolti i riferimenti (per lo più rituali) a intellettuali marxisti come Perry Anderson, David Harvey e Immanuel Wallerstein, oltre che a un Gramsci un po’ caricaturalizzato – la base teorica principale di Iglesias sembra essere il best-seller La casta di Stella e Rizzo. E non solo perché il libro dei due giornalisti del «Corriere della Sera» viene effettivamente citato da Iglesias, ma perché la parte ‘programmatica’ del libro finisce col risultare una sorta di requisitoria contro la «casta» corrotta che governa la Spagna. In un passaggio importante del libro Inglesias scrive, per esempio: «A questa casta politica che prende le decisioni e mantiene uno scandaloso tenore di vita non interessano le sofferenze che colpiscono la maggior parte dei cittadini. I membri di questa casta hanno l’assistenza sanitaria privata, mandano i loro figli in esclusive scuole private, hanno salari e condizioni di lavoro privilegiate (quando lavorano) e i loro figli entrano nelle grandi imprese grazie alle raccomandazioni. La distanza tra i rappresentanti e i rappresentati cresce ogni volta che un privilegiato che chiede dei sacrifici ai cittadini è scoperto a guadagnare denaro in forma illegale o socialmente illegittima» (p. 168). Naturalmente il punto non sta nella veridicità della descrizione della situazione compiuta da Iglesias, perché – al netto dei toni retorici – è facile riconoscere nel quadro delineato dal leader di Podemos un ritratto molto familiare al lettore italiano, persino rassegnato dinanzi alla capacità della «casta» di riprodursi sotto ogni bandiera politica. Il punto sta piuttosto nel fatto che dietro la retorica di Iglesias sembra mancare un’analisi realistica della trasformazione che ha investito i paesi dell’Unione europea a partire dal 2011, e nella quale – come sempre nei momenti di crisi – sono emerse con nettezza tendenze che in realtà maturavano da molto più tempo. E proprio per questo il discorso di Iglesias non sembra distanziarsi molto dalla più superficiale retorica anti-casta degli ultimi anni, ossia da quella retorica che imputa tutti i guasti a una minoranza corrotta, privilegiata e vorace che si annida nei centri di potere della società. Una retorica cui ci hanno abituato negli ultimi anni un po’ tutti gli alfieri del ‘neo-populismo’, ma di cui forse si poteva trovare una declinazione non molto diversa anche nelle vecchie pagine di Guglielmo Giannini. Ma l’assenza di un’analisi realistica del contesto in cui Podemos deve muoversi, se da un lato può essere spiegata anche con le finalità propagandistiche e divulgative del pamphlet, dall’altro non può non sorprendere, perché stride proprio l’enfasi con cui Iglesias evoca la necessità del ‘realismo’. Un’enfasi che non affiora solo quando Iglesias, nelle pagine finali, mette in guardia contro gli eccessivi entusiasmi («È essenziale […] avere la capacità necessaria a costruire alleanze con gruppi politici e sociali che vogliono un cambiamento o che sono disposti a farne parte. In politica raramente ci si può permettere di ritenersi autosufficienti, l’arroganza e la superbia si pagano care. Vincere le elezioni non vuol dire prendere il potere», p. 185). Ma che emerge soprattutto nella parte più teorica del libro, per esempio nel momento in cui Iglesias ricorda la necessità di guardare alla politica con gli occhi del vecchio realismo: «la politica non risolve i conflitti né sul piano del Diritto né su quello delle idee, ma mediando e confrontando il potere di ogni attore. Per questo noi democratici non ci dobbiamo mai dimenticare che le ragioni senza la forza non sono niente. Come ci hanno insegnato molto bene i padri fondatori della nazione americana, per far sì che ci sia democrazia non basta un faldone di leggi da votare o una serie infinita di interventi regolamentati per parlare in parlamento, serve che ci sia una reale divisione del potere. […] Per avere uguaglianza di diritti bisogna avere anche uguaglianza di poteri» (p. 55). O anche quando, riabilitando la ragion di Stato e pensatori come Sun Tzu, Machiavelli, Richelieu, Bismarck e Carl Schmitt, scrive: «Se qualcosa hanno in comune queste figure tanto diverse tra loro è aver chiamato le cose con il loro nome e aver compreso e detto (ognuno nel suo contesto) che la politica (o la guerra) è, essenzialmente, l’arte del potere, che studia come mantenerlo e conquistarlo» (p. 56). 
Per la verità, Iglesias sposta l’impianto del realismo – e l’enfasi sulla forza – solo sul terreno della battaglia culturale, adottando la nozione gramsciana di «egemonia». «Per questo», osserva, «non si deve mai assumere il linguaggio dell’avversario politico senza contestarlo o analizzarlo. Quando i nostri avversari politici fanno propri termini come casta, porte scorrevoli, ‘berlusconizzazione’ della politica, sfratti, precarietà ecc., spostano di fatto il campo di battaglia su un terreno che ci favorisce. Ottenere questi spostamenti di campo è l’obiettivo dell’azione politica sul terreno ideologico» (p. 61). In realtà, però, quando riprende l’idea gramsciana dell’«egemonia», finisce con l’impoverirla non poco, perché in fondo la battaglia per l’egemonia culturale diventa una battaglia che si combatte ‘solo’ sul terreno simbolico. E per questo finisce con lo smarrire il riferimento ‘realistico’ ai rapporti di potere (di cui pure Iglesias segnala l’importanza sul versante della politica internazionale).
Alla base di questa ‘traduzione’ del realismo politico di Gramsci nel linguaggio ‘anti-casta’ (si potrebbe persino dire ‘anti-politico’) di Iglesias è facile ritrovare la mediazione cruciale di Ernesto Laclau. Ma è anche quasi scontato ravvisare nell’utilizzo concreto della teoria del populismo dello studioso argentino più di qualche limite, che riguarda il fatto che l’«egemonia» di Podemos – più che poggiare le radici nelle relazioni di potere – sembra poggiare sullo stesso livello in cui si svolge lo spettacolo della «democrazia del pubblico». Come è stato d’altronde osservato: «Podemos, facendo proprie e intrecciando le teorie di Laclau e Gramsci, punta a unire tutti i soggetti colpiti dalle ‘caste’, cioè dall’alto. Giocandosi la carta del pragmatismo: se il mercato della politica è diventato uno scaffale di un centro commerciale, dove la scelta del prodotto da parte dei consumatori (elettori) avviene più per sensazione o per l’immagine della confezione, allora tanto vale inserire i contenuti in un contenitore attraente. Nuovo. Pulito. Dinamico. Accessibile a tutti. […] La forma data a Podemos è un misto buono per tutte le esigenze. Per i consumatori meno esigenti del prodotto Podemos, basta internet, il colpo di clic, basta lo smartphone a portata di mano; per i più critici, resta lo spazio classico fatto di assemblee, comitato, riunioni, circoli che si richiamano alle forme della lotta di classe. E poi, ancora e soprattutto, la televisione» (M. Pucciarelli – G. Russo Spena, Podemos. La sinistra spagnola oltre la sinistra, Alegre, Roma, 2014, pp. 86-87). E se l’identità ‘liquida’ di Podemos è all’origine delle sue fortune – in modo sostanzialmente analogo a quanto è avvenuto nel 2013 per il Movimento 5 Stelle in Italia – è però piuttosto chiaro che i suoi successi hanno ben poco a che vedere, almeno per ora, con i reali processi di potere e con i rapporti di forza. 
Forse l’assenza di un’analisi dei rapporti di forza nel libro di Iglesias è soltanto uno degli aspetti in cui Disputar la democracia mostra di essere un lavoro incompiuto, a causa degli impegni politici che hanno travolto il suo autore a partire dall’autunno 2013. Ma se i successi elettorali ottenuti finora da Podemos possono essere considerati come un argomento sufficiente per ritenere del tutto secondarie le lacune analitiche del discorso di Iglesias, è comunque più che legittimo ritrovare in quelle stesse lacune la spia di difficoltà con cui – prima o poi – il leader spagnolo e il movimento politico di cui è a capo si troveranno alle prese. Nel discorso di Iglesias, affiora infatti lo stesso disinteresse che Laclau in fondo nutriva (o sembrava nutrire) per le risorse ‘materiali’ del potere. La teoria di Laclau tende infatti a dare per scontato che il confronto tra identità collettive avvenga sul terreno delle istituzioni statali: in primo luogo, dunque, tende a presupporre che il conflitto agonistico tra parti si svolga invariabilmente dentro il perimetro dello Stato nazionale; inoltre, almeno in modo implicito, pare sempre assumere che le istituzioni statali siano dotate delle risorse necessarie per agire nella società, e che ciò che avviene sul terreno del conflitto simbolico si traduca dunque ‘a cascata’ sui reali rapporti di potere in cui i singoli individui sono inseriti (per un’argomentazione più compiuta, rinvio a Il principe populista, in Populismo e democrazia radicale, a cura di Marco Baldassari e Diego Melegari, Ombre corte, Verona, 2012, ma anche a Egemonia o storytelling? Il populismo 2.0 di Pablo Iglesias). Ma proprio per questo Laclau non può che ‘presupporre’ uno spazio economico ‘nazionale’ di fatto impermeabile agli attori esterni: deve cioè ipotizzare una ‘sovranità’ economica (se non autarchica) quantomeno irrealistica, e al tempo stesso sopravvalutare la facoltà dello Stato di agire sul terreno ‘materiale’ dell’economia. Molti regimi latino-americani che hanno utilizzato Laclau come strumento per ‘legittimare’ un nuovo populismo hanno concretamente sperimentato le ambiguità di questo discorso. Ma è evidente che queste difficoltà non possono che risultare ulteriormente amplificate in una situazione come quella spagnola, in cui – non diversamente da quanto accade nel resto dell’Ue – l’«autonomia» di manovra dei governi nazionali è quantomeno ‘imbrigliata’ dall’infrastruttura istituzionale dell’Ue. E da questo punto di vista le vicende di Syriza e di Tsipras dovrebbero insegnare qualcosa a Iglesias. Perché un populismo che si nutre solo di retorica, ma che rifiuta di confrontarsi con i nodi del potere, rischia di rivelarsi soltanto uno tanti, fuggevoli protagonisti della contemporanea politica spettacolo. E il realismo, di cui pure Igleasias si dichiara convinto alfiere, rischia di apparire solo un realismo ‘romantico’, destinato a rincorrere le occasioni alla superficie della politica spettacolo, senza poter davvero incidere sui rapporti di potere.

Damiano Palano

Vedi anche Egemonia o storytelling? Il populismo 2.0 di Pablo Iglesias

giovedì 19 novembre 2015

Crisi della rappresentanza e crisi del soggetto politico. Un seminario all'Università Bicocca - Milano, giovedì 26 novembre 2015, ore 15.45 (con Nando Pagnoncelli, Filippo Pizzolato, Damiano Palano e Paolo Costa)




Giovedì 26 novembre 2015, ore 15.45

CRISI DELLA RAPPRESENTANZA E CRISI DEL SOGGETTO POLITICO

Seminario di approfondimento in occasione della presentazione del volume Gemina persona di Paolo Costa.

Introduce: Filippo Pizzolato, giuspubblicista, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Ne discutono:
• Damiano Palano, politologo, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
• Nando Pagnoncelli, analista della pubblica opinione, presidente di IPSOS

Conclude: Paolo Costa, autore del volume Gemina persona

Edificio U7, IV piano, Aula n. 4064
Sala Consiglio della Scuola di Economia e Statistica
Via Bicocca degli Arcimboldi,8 – 20126 Milano

In occasione della presentazione del volume “Gemina persona. Un’ipotesi giuspubblicistica intorno alla crisi del soggetto politico” di Paolo Costa, il seminario intende approfondire il tema della crisi del soggetto politico a partire dalla sua più attuale declinazione quale crisi della rappresentanza politica.
Pur muovendo da premesse storico-concettuali, il seminario vuole dedicare una specifica attenzione alle più immediate ricadute reali del problema, avvalendosi a tal fine del contributo di autorevoli studiosi quali Damiano Palano, politologo, e Nando Pagnoncelli, analista della pubblica opinione.

Sono invitati a partecipare tutti gli interessati

Per ulteriori informazioni:
Dipartimento di Scienze Economico-Aziendali e Diritto per l’Economia Tel. 02 64483007 (Sig. Alberto Serbini); e-mail: diseade@unimib.it

martedì 17 novembre 2015

La trappola del «compiacimento democratico» secondo David Runciman




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di D. Runciman, Politica (Bollati Boringhieri, pp. 174, euro 11.00) è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica.

«Che cosa intendiamo per politica? Il concetto è estremamente ampio e comprende ogni genere di attività direttiva autonoma. Si parla della politica valutaria delle banche, della politica di sconto della Reichsbank, della politica di un sindacato in uno sciopero, si può parlare della politica scolastica di un comune cittadino o rurale, della politica della presidenza di un’associazione per ciò che riguarda la sua direzione, e infine della politica di una donna intelligente che si sforza di guidare il proprio marito. Naturalmente non ci occuperemo di un concetto così ampio nelle nostre riflessioni di questa sera. Con il termine ‘politica’ intendiamo piuttosto riferirci soltanto alla direzione o all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire – oggi – di uno Stato» (M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006, p. 52).
Le parole con cui, ormai quasi un secolo fa, Max Weber si rivolgeva agli studenti dell’Università di Monaco nella sua celebre conferenza sulla Politica come professione, rimangono ancora oggi un punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia comprendere cosa sia la politica nel mondo contemporaneo, e forse anche cosa sia la politica nella sua essenza. Ma le difficoltà che segnalava Weber nel 1919, soffermandosi incidentalmente sull’inflazione del termine «politica», oggi non sono certo superate, e rendono per questo forse ancora più complicato fornire una risposta soddisfacente (se non certo completa). 
È invece proprio a questo insidioso compito che è dedicato il volumetto Politica di David Runciman (Bollati Boringhieri, pp. 174, euro 11.00), politologo dell’Università di Cambridge, presso la quale dirige il Dipartimento di Politica e Studi Internazionali. E benché il lettore più esigente possa ravvisare più di qualche lacuna nel testo – nel quale, per esempio, non vengono neppure menzionati testi cruciali della discussione novecentesca sulla politica, come il celebre Der Begriff des Politischen di Carl Schmitt o The Human Condition di Hannah Arendt – il risultato del lavoro di Runciman è comunque interessante (e godibile), non solo per chi sia in cerca di una prima riposta alla domanda «cosa è la politica?».
L’approccio di Runciman potrebbe essere definito come una sorta di realismo ‘hobbesiano’ moderato. Per un verso, il politologo sottolinea il ruolo che le istituzioni hanno nel controllare la violenza, mentre, per l’altro, sottolinea come la politica non sia affatto riducibile alla semplice dimensione istituzionale. Per esempio scrive: «All’origine di ogni accordo politico di successo convivono due lati. C’è il lato della politica che è prodotta da istituzioni stabili: tutti i contenziosi e i contrasti vengono in qualche modo risolti prima che la guerra esploda. E c’è la politica che produce istituzioni stabili: tutte le questioni e gli accordi che conducono una guerra ad essere conclusa. La politica non può essere ridotta ad alcun particolare assetto istituzionale. La politica precede gli assetti istituzionali e nello stesso tempo viene prodotta da essi» (pp. 14-15). Anche se non cede al compiacimento che talvolta contrassegna lo sguardo cinico dei realisti, Runciman avverte inoltre che la «politica del bene» spesso non è altro che «la maschera che rende possibili le orribili azioni che essa dovrebbe prevenire» (p. 23). E non dimentica di affrontare il problema del modo in cui la politica – e anche il terribile strumento della violenza, costitutivamente connesso alla dimensione politica – può volgersi verso il ‘bene’. Proprio qui, peraltro, Runciman torna a evocare le parole della vecchia conferenza in cui Weber diffidava i giovani che volevano ‘salvarsi l’anima’ a non cercare nella politica la via per raggiungere questo obiettivo. Ma la risposta che lo studioso britannico fornisce è in questo caso differente, perché non è solo la decisione del politico a decretare quale sia la soluzione al dilemma tragico relativo all’uso della violenza (e a ciò che essa comporta). «Weber era innamorato pazzo dell’eroe politico tragico e solitario di un tempo, in un’epoca in cui la politica era spesso tragica e sembrava aver bisogno di eroi. Agli inizi del XXI secolo il peso del rischio è cambiato. Il disordine civile non è sempre dato dal numero di persone che si mettono in pericolo. Ci sono anche le minacce ai principi condivisi del comportamento politico che una politica stabile ha reso possibile. I politici non hanno responsabilità solo sui propri cittadini, ma anche sulle proprietà costituzionali, sulla legge internazionale e sull’opinione pubblica globale. Tutto ciò impone dei vincoli che essi ignorano, mettendo loro e noi in pericolo. I politici non possono fare semplicemente i conti con la propria coscienza. Ci vuole qualcuno o qualcos’altro a cui debbano rendere conto» (p. 54). Ma il rischio è che i cittadini – cui nelle democrazie i politici devono rendere conto – diventino sempre più apatici, distanti, indifferenti e in fondo disinteressati a ciò che fanno i loro leader. Ed è proprio questa l’insidia principale che Runciman individua nel futuro delle democrazie occidentali. In sostanza, il successo di Hobbes – ossia un mondo in cui le istituzioni sono riuscite a monopolizzare la violenza, consentendo così lo sviluppo economico e uno stabile progresso tecnologico – priva le società democratiche del XXI secolo della possibilità di prevedere, sulla scorta del passato, quali sono i rischi di fallimento. «Non ci sono precedenti storici a cui riferirsi: non abbiamo cioè esempi di società prospere, sicure e vincenti, abituate ai livelli di comodità e di vantaggi di cui godono le odierne democrazie occidentali, che abbiano subito un collasso. Il che non significa che questo non possa accadere» (p. 65).
Naturalmente il monito di Runciman potrebbe essere preso come un inutile allarmismo, ma in realtà il discorso è più sottile. Ciò su cui il politologo intende attirare l’attenzione è piuttosto il rischio che discende dalla convinzione che ci si possa liberare dallo Stato e dalla politica (così come dai suoi costi): una convinzione che non solo nutre l’immaginario ‘anti-casta’ di molti movimenti degli ultimi anni, ma che costituisce una sorta di pilastro ideologico di molti cantori delle potenzialità delle nuove tecnologie, così come dei sostenitori delle virtù della «tecnocrazia». Un effetto di simili atteggiamenti è stato però il deleterio restringimento della classe politica: «L’élite politica ha sfruttato la nostra disattenzione per rafforzarsi. Non vorremmo chiedere conto della loro temerarietà, ma non abbiamo strumenti per farlo: la loro maggiore conoscenza del funzionamento della politica ci lascia con un sentimento di impotenza. La gente pensa di potersi riprendere la politica quando vuole, spesso si trova a non sapere dove individuarla quando ne ha effettivamente bisogno. I professionisti sono in grado di aggirare queste dinamiche. Il solo modo per imparare a fare politica è praticarla continuamente, sia quando le cose vanno bene sia quando vanno male» (p. 111). Ma un effetto ulteriore – di portata ben superiore – potrebbe essere proprio l’incapacità di prevedere i rischi reali della catastrofe che pesa sul nostro futuro. Naturalmente – e Runciman lo ricorda – le democrazie hanno oggi a disposizione risorse inimmaginabili nel passato e sono dotate inoltre di una formidabile capacità di adattamento. Ciò nondimeno, «le democrazie non sono padrone del loro destino» (p. 165), e le scelte dei singoli governi potrebbero fare ben poco dinanzi a sfide effettivamente globali. Inoltre, per affrontare le grandi sfide del XXI secolo (prima fra tutte quella del mutamento climatico), le democrazie potrebbero non avere a disposizione il tempo necessario per agire adeguatamente. Ma, soprattutto, le democrazie occidentali potrebbero cadere vittima di una sorta di «compiacimento democratico». Un compiacimento che è qualcosa di più insidioso che la semplice soddisfazione di aver raggiunto un obiettivo mai conseguito nel passato, perché coincide piuttosto con la convinzione che il processo di miglioramento sia destinato a proseguire in modo interminabile nel futuro, e che il passato e i suoi incubi non possano tornare. Come scrive Runciman: «La democrazia è sopravvissuta alla Grande depressione, è uscita dal fascismo, ha sopraffatto il comunismo. Ha reso libero praticamente tutti i suoi cittadini. La violenza è stata allontanata. Il benessere si è diffuso. Le democrazie non solo hanno sempre risposto alle minacce e alle ingiustizie, ma hanno sempre vinto le loro sfide. Potremmo quindi credere che questo processo si ripeterà per un tempo indefinito. Quando sarà necessario, sapremo prendere le nostre decisioni insieme» (p. 168).
Non è molto difficile ritrovare le tracce del «compiacimento» biasimato da Runciman in molte delle discussioni sullo stato odierno della democrazia e sugli allarmi – più o meno fondati che siano – intorno alla sua ‘crisi’ o al suo logoramento. Di recente, un osservatore attento come Michele Ainis, a proposito di un libro del linguista Raffaele Simone, ha scritto che probabilmente gli allarmi sulla «crisi della democrazia» non sono per nulla fondati: «Può darsi», ha scritto, «che stia per affacciarsi un modello iperdemocratico, una democrazia senza partiti, dove la decisione principale spetta al delegante (il cittadino) anziché al suo delegato (il parlamentare)» (M. Ainis, I paradossi della democrazia. E i suoi (prematuri) funerali, in «Corriere della Sera», 27 ottobre 2015, p. 39). Certo il discorso di Ainis può avere qualche fondamento, ma è davvero difficile non  riconoscere nella previsione (o nell’auspicio) di una prossima «iperdemocrazia» l’ennesima variante di quell’ottimismo da cui Runciman mette in guardia. Non perché non ci siano motivi per essere ottimisti. Ma perché l’ottimismo che nasconde al nostro sguardo i rischi reali non risulta in fondo molto diverso da un atteggiamento suicida. Nel nostro futuro, scrive d’altronde Runciman nella conclusione, nulla è predeterminato e sicuramente ci saranno scelte difficili: «Ma non potremo affrontare queste sfide nascondendoci o incrociando le dita. Potremo farlo solo attraverso la politica» (p. 170).

Damiano Palano