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lunedì 21 dicembre 2015

Spagna, fine del bipartitismo o fine dei partiti?




Il ‘terremoto’ elettorale spagnolo è solo l’ultimo episodio di una dinamica ‘tellurica’ che ha coinvolto l’Italia, la Grecia, e infine il Portogallo nell’ottobre scorso. Ma sarebbe ingenuo dare per morta la forma-partito. Forse ne è nata una nuova.

di Damiano Palano

Questa nota sulle elezioni spagnole è apparsa su CattolicaNews

Dinanzi ai risultati delle elezioni spagnole è quasi inevitabile riconoscere il tramonto di una stagione politica. Come hanno sottolineato molti osservatori, il voto ha sancito infatti la fine del tradizionale bipartitismo centrato sul Partito socialista (Psoe) e sul Partito popolare (Pp). Un bipartitismo che, anche grazie a un sistema elettorale che penalizza le forze minori, ha di fatto dominato la Spagna dai tempi della “transizione” post-franchista. Ma che è ora uscito sconfitto dalle urne. La ‘frammentazione’ del quadro politico che ci consegnano i risultati è infatti simile a quella uscita dalle elezioni politiche italiane del febbraio 2013, e anche in Spagna si potrà costruire una maggioranza governativa solo con qualche alchimia e al prezzo di molti compromessi.

Il risultati spagnoli suggeriscono però anche un’altra domanda, che riguarda in questo caso non tanto la tenuta di un sistema partitico, quanto il destino della forma-partito. Non è infatti possibile liquidare solo come un dettaglio il fatto che Podemos e Ciudadanos - le due nuove forze che sono riuscite a insidiare il bipartitismo – abbiano inalberato fin dalla loro comparsa la lotta contro la «casta» e a favore della partecipazione dei cittadini. Proprio come il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos e Ciudadanos hanno infatti sviluppato una critica indirizzata contro la forma-partito più consolidata: una forma-partito che, naturalmente, non è più quella del vecchio partito di massa novecentesco, bensì quella che molti politologi etichettano come “cartel party”, un partito insediato nelle istituzioni e sempre più lontano dalla società.

Ma le elezioni spagnole ci suggeriscono allora che – insieme al bipartitismo formato da Psoe e Pp – dobbiamo dare per morto anche il partito, come forma organizzata dell’azione politica? Naturalmente sarebbe ingenuo pensare di trarre dai risultati di una singola elezione delle indicazioni su tendenze di lungo periodo. Ma, per quanto le previsioni in questo campo lascino sempre il tempo che trovano, si può tentare di dare una risposta. Quanto è avvenuto in Spagna nell’ultimo anno si inscrive in un quadro più generale, in cui interagiscono due dimensioni distinte. In primo luogo, si possono leggere i risultati spagnoli come l’ennesima conferma del crescente distacco dei cittadini dai partiti e dalla classe politica: un distacco che si riflette di volta di volta in disaffezione, sfiducia e astensionismo e che non è affatto (come spesso tendiamo a pensare) un fenomeno proprio solo dell’Italia, perché in realtà caratterizza più o meno tutte le democrazie occidentali. In secondo luogo, il responso spagnolo deve essere considerato anche come un effetto della crisi europea: una crisi che ha radici economiche e politiche molto profonde, ma che ha prodotto risultati clamorosi soprattutto nei paesi meridionali dell’Eurozona. E da questo punto di vista il ‘terremoto’ elettorale spagnolo solo l’ultimo episodio di una dinamica ‘tellurica’ che ha coinvolto l’Italia, la Grecia, con la scomparsa del Pasok a beneficio di Syriza, e infine il Portogallo nell’ottobre scorso. Le conseguenze della crisi e soprattutto l’impatto delle politiche di austerity hanno per molti versi contribuito a indebolire identità politiche consolidate, o comunque ha indotto una quota significativa dell’elettorato ad abbandonare il partito per qui avevano votato in precedenza. Per un verso, dunque, i risultati spagnoli possono essere considerati come una tendenza che si inquadra dentro un insieme articolato di tensioni, che probabilmente fanno solo esplodere alcuni processi maturati nel corso degli ultimi due decenni. E che davvero ci fanno sembrare le nostre democrazie come “democrazie senza partiti”.

In questo senso si possono dunque leggere nei risultati spagnoli i contorni della crisi di fiducia che investe il “cartel party”, se non altro perché ne emergono i fattori di debolezza, ossia il suo labile legame con la società e il suo rapporto invece simbiotico con lo Stato (e le sue risorse). Ma, al tempo stesso, sarebbe ingenuo dedurre dalla crisi del bipartitismo spagnolo (e dalla crisi di due partiti ‘cartellizzati’ come il Psoe e Pp) la ‘fine’ del partito. E, al di là degli stessi esiti politici (e del futuro di questa formazione politica), è forse lo stesso profilo di Podemos a mettere in guardia da conclusioni affrettate. Nato dall’iniziativa di un piccolo gruppo di accademici radicali nel novembre 2013, Podemos non rifiuta l’idea del partito, ma per molti versi ne ridefinisce l’immagine sulla base del primato della comunicazione. Ciò che contrassegna fin dall’inizio Podemos è infatti la scelta del piano della comunicazione come terreno su cui condurre la propria battaglia, e a partire dal quale costruire una nuova idea di partito. Oggi, ha detto per esempio Pablo Iglesias, fondatore e leader carismatico di Podemos, «la gente non milita nei partiti», ma «nella radio che ascolta». In questo senso, Iglesias e Podemos rompono con la visione consolidata secondo cui i partiti non sarebbero più in grado di svolgere una reale azione di rappresentanza delle istanze della società, e secondo cui dunque la “forma-partito” sarebbe inevitabilmente destinata a essere superata dalle reti informali e dalle connessioni fluide dei movimenti. Contro questa lettura Podemos ripropone piuttosto – seppur rivisitandola, e partendo dal riconoscimento della centralità della comunicazione come dimensione in cui si costituiscono le identità politiche – l’idea che il partito sia ancora uno strumento imprescindibile per fare politica. Uno strumento che, peraltro, non può fare a meno né di una leadership né di un’organizzazione. E che proprio per questo può puntare a conquistare «potere istituzionale».

Naturalmente rimane in questo momento difficile immaginare cosa avverrà nel futuro di questo singolare esperimento politico. Ed è ancora più difficile prevedere se, alla prova dei fatti, la «guerra di posizione» di cui parla Podemos si rivelerà soltanto una variante radicale di storytelling, o sarà davvero in grado di ottenere risultati significativi. Ma, al di là di tutti questi interrogativi, potremmo forse chiederci se, con l’affermazione di Podemos, le elezioni spagnole, oltre a sancire la fine del vecchio bipartitismo, non ci abbiano anche consegnato il ritratto di un nuovo tipo di partito.

venerdì 18 dicembre 2015

La democrazia travolta dalla democrazia. Una provocazione di Raffale Simone




di Damiano Palano

Verso gli ultimi decenni del V secolo a.C., un anonimo autore greco fissò nelle scarne battute di un dialogo fra due cittadini ateniesi una delle prime – e più radicali – critiche alla democrazia. «A me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto un sistema politico, che consenta alla canaglia di star meglio della gente per bene», chiariva fin dall’inizio il principale dei due interlocutori. E poco dopo affermava: «C’è chi si meraviglia che gli Ateniesi diano, in tutti i campi, più spazio alla canaglia, ai poveri, alla gente del popolo, anziché alla gente per bene: ma è proprio così che tutelano – come vedremo – la democrazia. Giacché appunto, se stanno bene e si accrescono i poveri, la gente del popolo, i peggiori, allora si rafforza la democrazia. Quando invece il popolo consente che prosperino i ricchi e la gente per bene, non fa che rafforzare i propri nemici. Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono i nemici della democrazia: giacché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e di ingiustizia, e il massimo di inclinazione al bene; nel popolo invece c’è il massimo di ignoranza, di disordine, di cattiveria » (Anonimo ateniese, La democrazia come violenza, Sellerio, Palermo, 1982, pp. 15-16).
Le parole dell’anonimo oligarca ateniese furono in realtà solo le prime di una lunga sequela, che più o meno da quel momento avrebbe iniziato a dipingere la democrazia come la peggior forma di governo, destinata a sancire il brutale dominio di maggioranze soggiogate da abili demagoghi e a condurre ogni comunità politica verso il disfacimento. Quella duratura dannazione della democrazia è invece molto distante dalla sensibilità contemporanea, che – almeno in Occidente – tende a considerare la democrazia come l’unica forma ‘legittima’ di organizzazione del potere. Nei duemilacinquecento anni trascorsi da quando l’anonimo scrittore consegnò ai posteri il proprio feroce ritratto della democrazia ateniese, il significato usualmente attribuito al termine «democrazia» è naturalmente quasi del tutto mutato. E, a ben guardare, solo un labile legame unisce la democrazia di cui Pericle aveva pronunciato il celebre elogio a ciò che noi contemporanei intendiamo con questo termine millenario. Ciò che consideriamo oggi con «democrazia» è infatti, per molti versi, il sistema rappresentativo-elettivo che prende forma dalle ceneri della vecchia rappresentanza medievale, che viene a modificare le proprie logiche di funzionamento contestualmente all’allargamento del suffragio e che viene ridefinito – soprattutto a livello dottrinario – dopo la Rivoluzione francese, con l’irruzione sulla scena di un «popolo-nazione» dal volto sfuggente e inafferrabile. È infatti proprio questo sistema che, nella stagione della ‘guerra civile mondiale’ del Novecento, viene rivestito di abiti ‘neo-classici’, ed è soprattutto a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale che il regime politico fondato sulla rappresentanza elettiva viene etichettato, nel ‘mondo libero’, con quella parola, «democrazia», che nel corso del secolo precedente era stato patrimonio quasi esclusivo di minoranze radicali e sette rivoluzionarie. 
Proprio il fatto che la democrazia sia oggi intesa come l’unico regime politico ‘legittimo’ comporta ben più di qualche fraintendimento quando si parla della ‘crisi’ della democrazia: perché con questa formula alcuni – in modo del tutto comprensibile – intendono indicare, per esempio, le lentezze del processo decisionale, che rischiano di provocare conseguenze negative per l’intera società, mentre altri – altrettanto legittimamente – alludono all’abbandono dei grandi obiettivi dell’uguaglianza e della partecipazione che contrassegnano l’ideale democratico; o anche perché, con quella medesima formula, alcuni si riferiscono al declino relativo del mondo occidentale dinanzi all’ascesa di aree del pianeta in cui prevalgono regimi autocratici, mentre altri intendono invece sottolineare le difficoltà che gli Stati occidentali hanno nel controllare i flussi transnazionali di merci, capitali e persone, e altri ancora biasimano il ruolo preponderante che hanno, nell’assunzione delle principali decisioni politiche, alcune istituzioni sovranazionali, le élite economico-finanziarie, o persino la «casta» dei professionisti della politica.
Anche in un quadro generale in cui persino i critici della democrazia tendono a brandire le insegne della democrazia, non mancano però autori che sfidano il conformismo e che, in qualche misura, raccolgono il testimone dell’ignoto oligarca ateniese. È questo il caso, per esempio, del pamphlet di Raffaele Simone, Come la democrazia fallisce (Garzanti, pp. 219, euro 17.00), un pamphlet che – pur senza adottare un profilo anti-democratico – sostiene che i grandi pilastri che hanno sostenuto la democrazia siano anche gli stessi che ne decreteranno la probabile fine. Naturalmente il testo di Simone – che è un linguista affermato e noto a livello internazionale – non si dilunga in un esame delle complicate, e talvolta persino bizantine, ricostruzioni dedicate al tema da scienziati politici, storici delle istituzioni e del pensiero politico. E proprio per questo il suo testo ha la freschezza che hanno talvolta i libri dei ‘dilettanti di talento’, che – superando con un balzo tutti i nodi irrisolti di discussioni specialistiche – riescono a cogliere alcuni aspetti cruciali. In sintesi, Simone sostiene che la democrazia, oltre che da un insieme di istituzioni, sia costituita da una «mentalità» e da una mitologia democratiche. «Questi pilastri, in parte immateriali in parte materiali», scrive Simone, «sorreggono ancor oggi l’architettura dei regimi democratici e hanno dinamiche coordinate, anche se non coincidenti» (p. 22). Ma si tratta di pilastri che rischiano di rendere sempre più fragile l’intera architettura.
Benché riconosca l’importanza delle istituzioni, in realtà Simone si concentra soprattutto sulla «mentalità democratica», perché è proprio qui che si trovano i problemi principali. Più in particolare, però, per Simone sono importanti alcune «finzioni costitutive», che garantiscono sia la vitalità delle istituzioni, sia la conservazione della mentalità democratica. Secondo Simone queste «finzioni» operano come idee regolative, nonostante siano irrealizzabili (perché in sostanza si propongono di realizzare l’irrealizzabile). Si tratta, cioè, di «massime di somma generalità che indicano traguardi verso cui tendere illimitatamente, senza alcuna speranza di raggiungerli» (p. 57), di proposizioni «logicamente false», eppure «ideologicamente vere», perché «guidano le convinzioni e il comportamento politico, anche se a volte sono molto ostiche ad accettarsi» (p. 58). Tra queste finzioni Simone colloca la libertà, l’uguaglianza, la sovranità popolare, la rappresentanza, il potere della legge, la competenza dell’elettore, l’inesistenza dei capi, o l’inclusione illimitata di chiunque entri nei propri confini. Tutti questi «principi-finzione», dice Simone, «si sono radicati in profondità nella coscienza occidentale dando corpo alla mentalità democratica, un ramificato sistema di credenze, opinioni, aspettative e perfino pretese, quale poteva svilupparsi solo in un ambiente speciale» (p. 103). E così, «con l’aiuto di un sistema scolastico particolarmente generoso e di una cultura diffusa orientata all’edonismo e al divertimento, si è impiantata l’idea che alla democrazia si possa chiedere tutto» (p. 103). Ciò significa, in sostanza, che la mentalità democratica non solo è diventata egemone, ma si è addirittura estesa anche ad aree estranee a quelle originarie, con conseguenze che per Simone sono ovviamente estremamente negative: «la democrazia è percepita come una Fata protettiva, munita di un’ampia cappa capace di coprire ogni aspetto e fase della vita e sotto cui chiunque, da qualunque parte provenga, può trovare rifugio nel momento del bisogno. La Fata ha tutte le doti immaginabili: è buona, comprensiva, generosa, tollerante, accogliente, affettuosa e non bada a spese. Questa percezione ha prodotto un generale riassestamento delle massime ingenue che guidano i comportamenti collettivi: al posto della millenaria regola ‘càvatela da solo’ ce n’è ora un’altra che dice: ‘qualcuno dovrà pur tirarti fuori da qui’, dando per scontato che a farlo debba essere proprio lei, la Fata Democratica, in una delle sue mille vesti (come Stato, come governo ecc.)» (pp. 104-105). I riflessi dell’estensione della mentalità democratica, tanto per esemplificare rapidamente, sono le aspettative crescenti su «un welfare erogato quasi gratuitamente», le richieste di assistenza da parte dei migranti, le diverse richieste di diritti culturali, le rivendicazioni sulla parità di genere, le ossessioni per il ‘politicamente corretto’. Ma naturalmente Simone non manca di evocare i danni che derivano dall’«abusare dell’uguaglianza», e cioè quei danni che derivano dal «prendere impropriamente sul serio la finzione in cui quella si esprime», trattandola «come una cosa salda», tanto da «trarne l’illusione di una libertà assoluta» (p. 112). 
A fronte del successo della mentalità democratica, la democrazia incontra però una serie di difficoltà non congiunturali (il declino dello Stato sovrano, i flussi migratori che investono i paesi occidentali, la trasformazione economica), che inducono Simone a prefigurare quantomeno il rischio di un crollo democratico. In realtà gli scenari che individua sono due: una «democrazia a bassa intensità», in cui l’astensione e la partecipazione continueranno a calare, o una «democrazia volatile», in cui la volatilità delle alleanze impedirebbe qualsiasi misura di cambiamento. La prognosi rimane comunque infausta: «In entrambi i casi la democrazia andrebbe in bancarotta, un disastro con esiti fatali anche sulla vita quotidiana, perché comporterebbe – esattamente come nella previsione di Montesquieu – una crisi delle poche residue virtù sopravvissute nei cittadini» (p. 176).
Nella discussione di Simone ci sono evidentemente molti nodi sospetti. Per esempio, appare piuttosto singolare che, circoscrivendo le proprie considerazioni all’Occidente, il linguista precisi che si riferisce solo «all’Europa occidentale» (p. 103), e che escluda così dal novero gli Stati Uniti, ossia la potenza globale che nel corso del Novecento ha inalberato la bandiera della democrazia e che nel corso degli ultimi settant’anni ha per molti versi riplasmato gli ideali democratici rompendo anche in modo netto con la vecchia tradizione democratica. E può anche lasciare piuttosto perplessi l’accento così marcato posto sulla «mentalità», senza che venga chiarito non solo – come direbbe qualche studioso ossessionato dall’«operazionalizzazione» dei concetti – ‘come si misuri’ questa mentalità, ma anche quali siano i suoi elementi ‘riconoscibili’, in quali tradizioni politiche essa possa essere ravvisata, quando storicamente prenda forma, e se in Italia se ne facessero alfieri, per esempio, il Pci di Palmiro Togliatti, la Democrazia Cristiana di Giulio Andreotti, o il Partito Socialista di Bettino Craxi. Infine, la scelta piuttosto infelice di definire «finzioni» quelle credenze su cui si fonderebbe la mentalità democratica non può che destare più di qualche perplessità, dettata più che altro dalla considerazione che – per molti versi – tutta la politica non è altro che un regno popolato di «finzioni», perché, a ben guardare, sono «finzioni», lo Stato, la nazione, la razza, il popolo, la classe e l’«Occidente». Tutte queste finzioni, che pure si riferiscono a qualcosa che non esiste materialmente, ci dicono però quale significato gli esseri umani danno alla loro vita comune, perché nel ‘politico’ si nasconde anche una dimensione simbolica irriducibile, nella quale si esplica la natura di «animale simbolico» dell’essere umano. E sebbene la fragilità mostrata dalle «finzioni» sia un problema reale dei nostri sistemi politici, su cui varrebbe la pena riflettere, Simone, quando – con una scelta terminologica forse fuorviante, ma comunque del tutto legittima – parla di «finzioni», tende invece a rivolgersi a qualcosa di diverso, che non sono le ‘persone collettive’ che popolano l’orizzonte simbolico della politica, bensì le ‘pretese’ eccessive nutrite dall’homo democraticus. In questo senso, a essere coinvolti sono, a ben guardare, quegli stessi ideali che nutrono più o meno tutte le ideologie moderne (e che dunque non sono certo esclusivi della ideologia democratica, sempre che una simile ideologia davvero esista).
Ma simili obiezioni naturalmente lasciano il tempo che trovano. Il pamphlet di Simone va preso infatti come un pamphlet, come una provocazione rivolta all’opinione pubblica, agli intellettuali e forse al mondo politico. Al di là delle argomentazioni, al cuore del libro di Simone – come al cuore di ogni pamphlet che si rispetti – c’è d’altronde la difesa energica di alcuni valori. Valori che si possono condividere oppure no. Valori che possono accendere gli entusiasmi di alcuni, specie nel momento in cui Simone si diffonde sugli effetti distruttivi che hanno sulla convivenza democratica i flussi migratori, o persino risultare irritanti per altri, magari quando il discorso tocca la critica dell’autorità. Il piano comunque non è più, in questo caso, quello di una discussione sulla «crisi», sul «disagio» e sul «malessere» della democrazia, ma quello di una discussione politica sui valori che una società deve perseguire, preservare e difendere. Ed è cioè anche il piano di una discussione sul significato che dobbiamo attribuire alla vecchia parola «democrazia».

Damiano Palano

sabato 12 dicembre 2015

La democrazia indignata di Juan Carlos Monedero. Sul "Corso urgente di politica per gente decente"





di Damiano Palano

Nel novembre 1917, mentre in Europa infuriava la guerra e aveva già iniziato a soffiare il vento della rivoluzione, Max Weber fissò nella celebre conferenza Wissenschaft als Beruf alcune delle riflessioni maturate nel corso di una intensa carriera scientifica, destinata a concludersi prematuramente di lì a pochi mesi. Ai giovani del Freistudentischer Bund di Monaco, che aveva invitato lo studioso al ciclo di conferenze, Weber, mentre illustrava la propria visione del metodo «scientifico», giungeva a toccare lo spinoso tema dei rapporto fra politica e ricerca nel campo delle scienze sociali. E da questo punto di vista ammoniva tanto gli studenti quanti i suoi colleghi a tenere ben distinto il piano della riflessione scientifica da quello della battaglia politica: «la polemica non si addice all’aula di lezione. Non vi si addice da parte degli studenti. […] Ma non vi si addice neppure da parte del docente: non si addice proprio quando questi si occupa di politica dal punto di vista scientifico, e allora meno che mai. Infatti la presa di posizione politica pratica e l’analisi scientifica di formazioni politiche e di partiti sono due cose differenti. Quando uno parla della democrazia in una riunione popolare, non fa alcun mistero della propria posizione personale: anzi, prendere partito in modo chiaramente riconoscibile è il suo dannato dovere, ciò a cui è tenuto. Le parole di cui si serve non sono allora strumenti di analisi scientifica, bensì strumenti di competizione politica nei confronti della presa di posizione altrui. Esse non sono un vomere per dissodare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, mezzi di lotta. Ma in una lezione o in un’aula sarebbe sacrilegio usare la parola in questa maniera» (M. Weber, La scienza come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006, p. 31).
Distinguere il piano dell’analisi scientifica da quello della battaglia politica non è in realtà sempre così semplice come Weber sembrava pensare. E d’altronde proprio nelle riflessioni dei più convinti alfieri dell’«avalutatività» delle scienze sociali si celano spesso distorsioni ideologiche macroscopiche. Ma naturalmente non è alla concezione della ricerca scientifica delineata da Weber che tende a guardare Juan Carlos Monedero, politologo dell’Università Complutense di Madrid e tra i fondatori di Podemos (dal quale si è dimesso per il dissenso su una linea politica eccessivamente ‘verticistica’ e ‘mediatica’). Il suo libro Corso urgente di politica per gente decente (Feltrinelli, pp. 222, euro 16.00) è infatti una sorta di ‘manuale’ di introduzione alla politica, da cui però l’impegno politico – e in particolare l’impegno a difendere una parte politica specifica – viene rivendicato quasi in ogni pagina. Se una simile compenetrazione tra i due piani che Weber richiedeva rimanessero rigorosamente distinti, rende per molti quasi ‘sacrilega’ l’operazione di Monedero, in realtà il libro merita invece di essere letto, anche per apprezzare l’abilità – anche retorica – con cui il politologo spagnolo si confronta con tutti i temi chiave che di solito sono al centro dei corsi introduttivi di scienza politica e teoria politica, e che però sono connessi alle concrete problematiche della società contemporanea. 
A dispetto del ruolo che Monedero ha assunto negli ultimi anni, sarebbe però sbagliato considerare il Corso urgente come un ‘manifesto teorico’, o come l’enunciazione della visione politica di Podemos, e non solo per la precoce fuoriuscita dello studioso madrileno da questa formazione. Il libro è infatti apparso nella sua prima edizione nel 2013, e la sua stesura è dunque precedente alla fondazione di quello che è diventato nel breve spazio di due anni uno dei protagonisti della politica spagnola. Inoltre, anche se il Corso urgente certo riflette in modo evidente il clima creatosi dopo il 15 marzo 2011 (il giorno in cui gli indignados spagnoli si accamparono alla Puerta del Sol di Madrid), questa sorta di manuale - o di «antimanuale», come lo definisce l’autore – condensa una serie di studi, considerazioni e anche battute di spirito che Monedero deve aver sperimentato e collaudato in un ventennio di insegnamento. E, anzi, l’effetto di questa sedimentazione talvolta rischia persino di inficiare la stessa logica delle argomentazioni (perché le citazioni da film, romanzi, canzoni tendono a essere persino compulsivamente affastellate l’una accanto all’altra).
Il nodo da cui prende le mosse Monedero, e che chiarisce il senso stesso del Corso urgente, è chiarito fin dalle prime pagine, e riguarda lo stato delle nostre democrazie: «Oggi la democrazia sembra universale, ma in realtà è stata svuotata di ogni contenuto. Si riduce al voto, e la politica sembra un gioco di attori ingaggiati per recitare male una parte e sorbirsi le nostre critiche. Crediamo che la democrazia si giochi tutta nelle leggi elettorali, nel diritto di voto, nel contenuto delle costituzioni, nella stesura di una normativa. Ma non è così. La migliore legge elettorale, la migliore costituzione, l’inclusione politica assoluta di tutte le persone che vivono in un territorio non valgono niente, se non c’è la volontà di ripartire equamente i diritti e i dover della vita condivisa. La migliore delle leggi non  serve a niente, se i cittadini accettano di governare se stessi con i principi dell’efficienza e della concorrenza. Confondiamo la democrazia con lo spettacolo della democrazia. Di fatto l’unica cosa reale è proprio lo spettacolo. Se non hai una parte nel programma non esisti. Per esistere nella democrazia, dei interpretare un ruolo e pronunciare qualche battuta. E comparire in televisione. È l’unica cosa che conta» (p. 22). Un simile quadro della democrazia occidentale costituisce in qualche modo il presupposto di una discussione in cui Monedero tocca tutti i punti chiave di un’introduzione alla politica, dalle classiche domande su cosa sia la politica, se quest’ultima abbia un’«essenza», e se la politica scaturisca dalle caratteristiche (immutabili) degli esseri umani. Nel libro, insieme a tutto ciò che ci si può aspettare da un «anti-manuale» scritto da un politologo di estrema sinistra (comprese le battute vagamente fruste e l’anti-clericalismo di maniera), si trova una variante della vecchia teoria della democrazia partecipativa, e cioè una visione della democrazia che assegna ai movimenti e alla partecipazione un ruolo essenziale, se non centrale, per conservare la vitalità di partiti e istituzioni. Ma nel testo ci sono comunque alcuni punti interessanti, che denotano comunque lo sforzo di confrontarsi con i grandi temi della teoria politica.
Forse l’elemento più interessante del libro di Monedero è costituito dall’impegno a discutere del nodo della natura umana. Anzi, a questo proposito Monedero scrive che riflettere sulla natura umana è addirittura necessario per pensare la politica, e per contrastare una specifica immagine della politica. «Abbiamo smesso di interrogarci sulla natura umana solo nel momento in cui si è imposta l’idea che l’uomo è lupo per l’altro uomo, come affermò Hobbes riprendendo Plauto» (p. 51), nota per esempio. E, in effetti, l’obiettivo del suo ragionamento è, da questo punto di vista, portare alla luce l’ambivalenza della «natura umana», ossia contrastare l’idea secondo cui l’essere umano sarebbe ‘naturalmente’ egoista e non predisposto alla cooperazione. Monedero tenta così di mostrare, anche attingendo alle ricerche etologiche, che l’essere umano ha una «fibra morale» innata, che è cioè portato all’altruismo, alla solidarietà e all’empatia, e non, dunque, solo all’egoismo, alla sfiducia, all’indifferenza. E questo conduce dunque a riconoscere l’ambivalenza dell’essere umano: «anche la dualità fa parte della nostra evoluzione. L’angelo (auspicato da Rousseau) e il demone (evocato da Hobbes) fanno parte della nostra natura. Tuttavia l’attuale diffusione di Homo sapiens sapiens sul pianeta non è merito di chi si è limitato a sopravvivere, ma di chi ha cooperato. L’empatia, la reciprocità e la solidarietà sono le chiavi della vita di quell’animale particolare che è l’uomo, capace di riflettere su se stesso. Fanno parte della nostra natura. Tocca alle istituzioni trasformarle in modelli si comportamento» (p. 53). Ma, se «l’uomo è incline alla cooperazione», in realtà – sostiene Monedero – esistono ambiti sociali che incoraggiano il depredatore che abita dentro di noi», e in particolare «il modello neoliberalista, senza spingerci tanto lontano, trasforma la società in un campo di battaglia di tutti contro tutti» (pp. 61-62). 
Il tentativo di ancorare l’analisi sulla politica a solide basi antropologiche naturalmente non prelude a un determinismo che riduca lo spazio della dimensione culturale. Anche Monedero subisce anzi il fascino di quella svolta ‘estetica’ della riflessione sul ‘politico’ che – grazie soprattutto alla mediazione di Ernesto Laclau – ha esercitato un influsso determinante sull’elaborazione dottrinaria dei dirigenti di Podemos (in particolare sul leader carismatico Pablo Iglesias Turrión e su Iñigo Errejón Galván). E proprio in questa direzione riconosce il peso che hanno le «narrazioni» e i concetti, non solo nell’indurre all’azione o all’obbedienza, ma anche a incorniciare la realtà dentro schemi interpretativi tutt’altro che neutrali. «Nominare è tradire», ricorda infatti Monedero, nel senso che, «quando nomina, l’uomo lascia necessariamente alcune cose fuori cal verbo, pone l’accento su altre, si concentra su un aspetto specifico e non su un altro, con il tempo gli si incollano addosso sfumature, contesti, significati, usi e abusi», tanto che così «interpreta la realtà e poi la fissa in habitus che ostacolano l’emancipazione» (pp. 76-77). «I nomi sono argine ma anche prigione», scrive dunque Monedero, riprendendo in fondo la stessa logica che informava la vecchia frase con cui Carl Schmitt invitava a riconoscere che tutti i concetti politici sono sempre concetti polemici. D’altronde il politologo madrileno non sfugge alla necessità di confrontarsi con il pensiero del giurista tedesco, e anzi sostiene che sia necessario distinguere le sue convinzioni politiche dal «realismo delle sue analisi» (p. 92). Monedero non può infatti non essere affascinato dall’idea che la politica nasca dall’esperienza del conflitto, e che essa sia in fondo ineliminabile proprio perché il conflitto è una componente irriducibile dell’esperienza umana. «Ciò che definisce la politica», scrive infatti Monedero, «è il conflitto potenziale (e le deviazioni dell’obbedienza)», e riconoscere questo dato «non significa mirare al disordine costante, ma comprendere che, finché ci saranno disuguaglianze, la tensione politica sarà sempre viva nei gruppi umani» (p. 92). 
Il fatto che Monedero evochi la disuguaglianza come fattore che determina il conflitto è senza dubbio la spia di un pensiero che tende a imputare la politica, più che alle caratteristiche della «natura umana», alle condizioni economico-sociali. E, d’altro canto, Monedero si spinge a definire il conflitto (che deve essere riconosciuto e non negato) come la base del progresso sociale: «L’essenza della politica», scrive per esempio, «è la probabilità dell’obbedienza, l’assunto per cui il conflitto è sempre presente perché la società è in perenne evoluzione. Non si può mai considerare finita la politica. Di conseguenza, non si potrebbe mai considerare finita la democrazia, e lo stesso vale per il socialismo. È il conflitto a mettere in moto le società. Il conflitto è un equilibrio instabile di essere umani che vivono nel tempo, e quindi invecchiano e perdono le energie a mano a mano che si avvicinano alla morte. Il conflitto esisterà finché esisteranno esseri umani che pensano di meritare certe cose ma ancora non le possiedono. Il conflitto è qui per restare, con la sua minaccia e la sua promessa di redenzione. I due volti del Giano politico» (pp. 95-96).
La concezione conflittualista articolata da Monedero è ovviamente finalizzata a una celebrazione della «politicizzazione» (e a una critica contestuale della «spoliticizzazione»), perché lo studioso spagnolo considera «una società politicizzata» come una società attenta, e invece una società «spoliticizzata» come una società in cui gli individui sono ripiegati sulla dimensione privata. Perché, nonostante sia ben consapevole che non si può schiacciare interamente la dimensione individuale su quella collettiva, per Monedero la politica è però soprattutto appartenenza a un gruppo, con tutto ciò che l’appartenenza a un gruppo implica. «Siamo individui, ma sopravviviamo solo in gruppo», così «la politica può essere descritta come l’ambito sociale legato alla definizione e all’articolazione di traguardi collettivi che è obbligatorio raggiungere», e dunque «è politico ciò che colpisce la collettività in modo imperativo» (p. 98).
La celebrazione della dimensione conflittuale della politica è finalizzata a un’analisi della condizione delle democrazie occidentali contemporanee. Monedero non dimentica di muovere una severa critica alla «scienza politica egemonica», che ha proceduto a ‘svuotare’ la democrazia della sua sostanza: «in altre parole, esistendo modi diversi di intendere la democrazia – mero processo decisionale, forma di livellamento sociale, assunzione di corresponsabilità, accordo fra le élite –, si è preferito adottare la definizione minima», una definizione «per cui la democrazia non è più un campo di battaglia e il suo obiettivo non è più ridurre le disuguaglianze» (p. 99). Monedero si riferisce ovviamente a quel filone della riflessione politologica che Peter Bachrach definì, negli anni Sessanta, come «elitismo democratico», ossia quel filone che riduce la democrazia a una procedura elettorale, dimenticando la dimensione partecipativa e l’impegno a garantire un’effettiva uguaglianza. «In realtà gli studiosi, dall’accademia, contribuivano solo a cancellare il dibattito sulla qualità della democrazia» (p. 102), scrive Monedero, ma naturalmente la sua attenzione non può non rivolgersi alla revisione ‘neo-liberale’ della teoria democratica, che trova un vero e proprio pilastro nel rapporto alla Trilateral della metà degli anni Settanta sulla Crisi della democrazia. A questo proposito, Monedero trova inadeguata e persino fuorviante la formula «postdemocrazia», proposta fra l’altro da Colin Crouch. «In genere», osserva per esempio, «la critica alla ‘postdemocrazia’ si limita alla richiesta di un capitalismo dal volto umano, un altro ossimoro della nostra epoca», mentre, «al di là dello sguardo nostalgico verso un passato idealizzato, la manifestazione più autentica e cruda del vuoto della democrazia si ha nella persistenza o nell’aumento delle disuguaglianze, nell’aggravarsi della frattura tra Nord e Sud, nella devastazione ambientale, nella disoccupazione e nella precarietà del lavoro, nel permanere di ‘zone brune’ dove lo stato non interviene e dove la violenza urbana e contro le donne è la regola, nell’oligopolio dei mezzi di comunicazione, nell’assenza di riforme agrarie, nell’esclusione, nella femminilizzazione della povertà, nell’aumento delle risorse destinate alla repressione e nella scelta della guerra per la risoluzione dei conflitti» (p. 191). Mentre la riflessione sulla «postdemocrazia» tende dunque a guardare nostalgicamente al passato, Monedero – indossando naturalmente gli abiti dell’intellettuale impegnato politicamente, e accantonando quelli dell’analista – indica nella «democrazia indignata», e cioè nella spinta dei movimenti, la strada principale che può consentire di «reinventare la democrazia e lo stato» (p. 192). «Non c’è errore più grande che pretendere di tornare a un passato abbellito solo dalla prospettiva dell’attuale indigenza delle nostre democrazie» (p. 192). Ma, se Monedero esalta i movimenti (e in particolare le diverse forme assunte a livello globale dagli indignados), non trascura di considerare i rischi di un’azione che si limiti alla dimensione del movimento. «Per il movimento indignato il rischio principale», nota anzi, «è quello di farsi prendere dalla malinconia» (p. 196). E soprattutto (ma non bisogna dimenticare che sono parole del 2013), osserva: «per non essere solo fumo purificatore, il movimento deve affrontare anche l’ora della verità del potere politico», perché «senza leader, senza programma, senza ossatura, il rischio di scomparire nel riflusso c’è sempre» (p. 206). D’altronde, non manca  neppure di notare che «nessuno sa quando l’indignazione riuscirà a trasformarsi in un nuovo senso comune per costruire una politica decente» (p. 211).
In un passaggio del libro Monedero ricorda un episodio della sua carriera di docente. «Qualche anno fa», scrive, «chiesi ai miei studenti di scienze politiche qual era l’ultimo libro di politica che avevano letto, e una ragazza disse: Il piccolo principe di Machiavelli» (p. 197). La gaffe della studentessa diventa del discorso di Monedero una formula per descrivere – combinando Saint’Exupéry con Machiavelli – la miscela di ingenuità e buon senso propria del movimento degli indignados. Ma forse questa miscela può anche essere riconosciuta nell’«anti-manuale» di Monedero, in cui – accanto a molte considerazioni acute e tutt’altro che banali – si trovano alcune ingenuità che finiscono con l’indebolire il discorso sulla politica. Forse l’ingenuità più evidente riguarda proprio l’esame delle ideologie politiche e la discussione su ciò che caratterizzerebbe, rispettivamente, la destra, la sinistra e il centro. Inserendosi nello sterminato dibattito sulla distinzione tra destra e sinistra, Monedero propone una soluzione piuttosto semplicistica. Se vent’anni fa (con un’operazione per molti versi discutibile) Bobbio riconduceva la dicotomia destra-sinistra a quella tra libertà e uguaglianza, Monedero compie una forzatura ulteriore, e quantomeno grossolana. Perché, se per un verso riconosce la difficoltà di attribuire alla «sinistra» un preciso patrimonio ideologico, dall’altro scrive che «una persona si colloca a destra quando il suo modo di vivere è egoista» (p. 106). Evidentemente le cose sono invece più complicate. Innanzitutto, perché – nonostante possa essere confortante per un cittadino di «sinistra» collocarsi su un versante eticamente virtuoso – la prospettiva ‘egoista’ che Monedero attribuisce alla «destra» in realtà è specifica solo di una componente del liberalismo (e neppure di tutto il liberalismo): ed è sufficiente pensare, sotto questo profilo, a tutte le diverse forme di nazionalismo, che spesso possono essere collocate a destra, ma che non si fanno certo portatrici di un ‘egoismo’ individualistico, se non altro perché possono chiedere ai cittadini di andare in guerra e di rischiare la vita per difendere la patria. Ma il ragionamento di Monedero appare su questo punto discutibile per un motivo più generale, che ha a che vedere con un carattere per molti versi addirittura costitutivo delle identità politiche. Proprio perché la politica – come lo stesso Monedero riconosce – ha a che vedere non tanto con gli individui, quanto con i gruppi di individui, è indispensabile riconoscere che ciascun gruppo ha sempre, nella propria struttura, una componente ‘egoistica’ e una ‘altruistica’. Detto molto semplicemente, ciascun gruppo, per potere esistere come tale, deve sempre mettere in atto qualche forma di ‘egoismo’, nel senso che deve fissare una barriera (anche solo identitaria) fra i suoi membri e tutti quanti invece stanno fuori. Ma, al tempo stesso, ogni gruppo presenta sempre una componente ‘altruistica’, anche se l’altruismo tende a valere solo tra i membri. Una simile ambivalenza sta d’altronde alla base del rapporto costantemente problematico tra la morale privata e la morale politica, ossia di quel rapporto in virtù del quale determinate azioni, che giudicheremmo immorali se commesse da individui, diventano invece legittime, e anzi encomiabili, se commesse da gruppi politici o da Stati. È forse proprio per la consapevolezza di questa insolubile ambivalenza – un’ambivalenza che è peraltro strettamente connessa alla relazione originaria, misteriosa e inquietante fra politica e violenza – che Max Weber invitava gli scienziati sociali ad astenersi dal tentare qualsiasi valutazione ‘scientifica’ dei valori. Ed era in fondo per questo stesso motivo che, concludendo la celebre conferenza sulla Politica come professione, con parole che in questo caso non hanno perso dopo un secolo nulla del loro prezioso valore, metteva in guardia gli aspiranti politici dalle insidie che li attendevano in un mondo di demoni: «Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. […] egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. […] Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile» (M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, cit., pp. 129-130).

venerdì 4 dicembre 2015

Crisi dei partiti, fine della democrazia? Una recensione di Ritanna Armeni a "La democrazia senza partiti"



Di Ritanna Armeni

Questo testo dedicato a La democraziasenza partiti (Vita e Pensiero, euro 12.00) è apparsa sul “Messaggero di Sant’Antonio” del dicembre 2015.

La crisi dei partiti è sotto gli occhi di tutti. Ma quasi nessuno si chiede quali possano essere le sue conseguenze per la democrazia. Essa nasce dall’esaurirsi del ruolo dei partiti così come lo abbiamo conosciuto nel Novecento. Non sono più i rappresentanti di interessi collettivi, seppure ‘di parte’, non sono più portatori di un’identità e, quindi, di importanti valori. La loro crisi si è manifestata con la fine delle ideologie e del rapporto sociale “di massa” che ha tanto contato nelle loro origini e nella loro esistenza. Oggi quelli che restano sono davvero molto diversi dalle robuste macchine che producevano idee e programmi e coinvolgevano milioni di uomini e di donne; si sono trasformati: sono “liquidi” o di “plastica”, fondati quasi esclusivamente sulla figura di un leader che tutto può. Nessuna nostalgia, sia chiaro: anche le vecchie organizzazioni erano piene di difetti, vizi e insufficienze, anche loro usavano spregiudicatamente il potere. E comunque non hanno saputo rispondere alle nuove domande dei cittadini e alle esigenze di una società moderna. Ma grazie a loro la democrazia ed europea è nata e fino a un certo punto si è rafforzata. E ora? 
Damiano Palano nel suo bel libro La democrazia senza partiti (ed. Vita e Pensiero), pone la domanda senza mezzi termini.  Possibile mantenere un assetto democratico senza quei soggetti (i partiti) che, come ha detto il filosofo Norberto Bobbio, sono “gli organi motori dello stato democratico”?. Oppure dobbiamo pensare che la loro fine corrisponda a quella della democrazia così come si è intesa in Europa almeno dal dopoguerra? Non è una domanda astratta. I nuovi partiti, quelli liquidi, mantengono una presenza forte nelle istituzioni. Questa presenza, privata del legame ideologico e sociale, è sicuramente tra le cause che determinano la loro trasformazione in gruppi d’interesse, corporazioni e alleanze di potere, che provocano scandali e malcostume e possono (c’è chi dice che il processo è già iniziato) limitare fortemente la democrazia. Per questo sarebbe necessario costruire moderne organizzazioni democratiche che aiutino la formazione di una volontà popolare, nuovi luoghi in cui i cittadini contino, anche fuori dai canoni novecenteschi.
Nella lunga agonia dei vecchi partiti e nella moderna società “liquida” nessuno si è ancora misurato con questa possibilità. I tentativi di usare a questo fine i social network si sono rivelati spesso astratti. Il problema è quindi tutto aperto. “Non è impossibile, anche se solo per via ipotetica – scrive nel suo saggio Palano – immaginare il profilo di una sorta di ‘Principe postmoderno’ che, pur aderendo per isomorfismo ad una società liquida, sia in grado di riconquistare una cultura politica capace di incarnare la vocazione incisa nella stessa parola ‘partito’: la vocazione di dare voce alla ‘parte’, di dare forma alla società, di costruire identificazione in grado di durare nel tempo, di alimentare l’immaginario democratico modificando i confini del ‘tutto’”. Non è impossibile, è vero, ma ancora non ce n’è traccia. E nel frattempo la democrazia s’indebolisce o si trasforma.

Ritanna Armeni