di Alberto Gasparetto
Qual è lo
stato di salute dei partiti nei regimi democratici? Che grado di legittimità
riscuotono all’interno della società? Che parabola hanno seguito e quale
bilancio è possibile tracciarne? Sono questi i quesiti di fondo a cui il nuovo
libro di Damiano Palano (Democrazia senza partiti, Edizioni Vita e
Pensiero, 2015) tenta di rispondere. Come ricorda Norberto Bobbio, fin dalla
loro nascita – databile fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo
scorso – i partiti sono concepiti come strutture fondamentali per
l’aggregazione delle domande provenienti dalla società, quei corpi intermedi la
cui funzione viene talmente magnificata al punto che per lungo tempo vengono
considerati indispensabili per la sopravvivenza stessa della democrazia.
Fotografati inizialmente come strutture oligarchiche – secondo la celebre
definizione di Robert Michels – i partiti si celano in realtà dietro ad una
facciata di apparente democrazia. Secondo Max Weber, che per primo osserva il
tramonto del «partito di notabili» e l’avvento del «partito di massa», grazie
alla loro progressiva «burocratizzazione», i partiti finiscono per esprimere un
ceto di veri e propri «professionisti della politica» e di leader carismatici
in grado di controllare sempre più il consenso grazie al cosiddetto «potere
della cricca», un preludio all’avvento della democrazia plebiscitaria.
In base alla
rigorosa ricostruzione di Palano, osserviamo che durante il Novecento i partiti
subiscono una vera e propria «metamorfosi». Negli anni Sessanta il politologo
tedesco Otto Kirchheimer è il primo a notare che a partire dal Secondo
dopoguerra i grandi partiti di massa, confessionali e di classe, sono investiti
dalla tendenza a trasformarsi in organizzazioni che puntano sul più vasto
consenso possibile, allo scopo di ingigantirsi all’interno della società. Le
principali caratteristiche del moderno catch-all party (il partito
«pigliatutto» o, come ama insistere Gianfranco Pasquino, «pigliatutti», a
sottolinearne la vocazione ad acciuffare il sostegno da parte di qualsiasi
cittadino-elettore) consistono nella drastica riduzione del bagaglio ideologico,
nella svalutazione del ruolo degli iscritti, nel rafforzamento degli elementi
di vertice. Queste trasformazioni producono una costante disaffezione dei
cittadini nei confronti dei partiti che finiscono per perdere iscritti. Se
negli anni Sessanta un cittadino su dieci è membro di un partito, negli anni
Novanta la cifra si dimezza per assestarsi al 3% della popolazione nello scorso
decennio. La progressiva perdita di identità dei vecchi partiti di massa,
dovuta anche ai perfezionamenti nel campo della tecnologia e alla diffusione
dei nuovi mezzi di comunicazione (in primis, la televisione) porta altri due
studiosi, Richard Katz e Peter Mair, a mettere in luce una nuova evoluzione. Si
tratta dei partiti-cartello (cartel-party), soggetti che, come le
imprese in economia, si mettono d’accordo per la spartizione delle risorse.
Queste ultime, non potendo più essere reperite in maniera copiosa nella
società, vengono ricercate all’interno delle istituzioni. I partiti, la cui
attenzione prima veniva rivolta agli iscritti mentre ora si sposta sempre più
verso gli elettori, si allontanano progressivamente dalla società avvicinandosi
sempre più allo Stato e divenendone parte integrante.
A questa
crescente divaricazione dei partiti dalla società corrisponde la definitiva
trasformazione dei partiti in agenzie clientelari che hanno ormai perso quella
funzione originaria di «ponte» fra società e Stato destinato, di fatto, a dare
rappresentanza ai diversi segmenti in cui è strutturata la società stessa. Il
cittadino-elettore, in sostanza, diviene un attore passivo che, come il
pubblico che assiste ad uno spettacolo teatrale, si limita a reagire offrendo
la propria approvazione o il proprio dissenso: è la «democrazia del pubblico»
ben descritta da Bernard Manin, ovvero la nuova forma della «democrazia
plebiscitaria» che costituisce uno di quegli aspetti di quella che Colin Crouch
ha battezzato «postdemocrazia». Quel rapporto di fiducia che un tempo legava le
grandi masse ai capi non esiste più, lasciando spazio ad una crisi della
leadership senza precedenti. Ma, avverte Palano, tutto ciò non deve far pensare
al tramonto definitivo dei partiti. Al contrario, i partiti sono vivi e vegeti,
dispongono di risorse sempre maggiori con le quali sono ormai riusciti ad
incastonarsi nelle strutture statali; non è per i partiti, bensì per la loro
democrazia interna che viene intonato il «requiem».
Ad
esacerbare in maniera irreversibile la crisi di legittimazione dei partiti vi
sono due fenomeni fra loro strettamente connessi, le cui radici risalgono
almeno alle difficoltà economico-sociali degli anni Settanta: la crisi fiscale
e la crisi di governabilità. In particolare, quanto alla prima, nota Palano, va
osservato che la crescita della pressione tributaria ed il conseguente mancato
contenimento della spesa pubblica, unito al generale rallentamento della
crescita economica non ha fatto altro che contribuire all’aumento della
sfiducia nei confronti della politica. La perdita di centralità della sezione –
riflesso del consenso degli iscritti ed emblema della reale forza del vecchio
partito di massa – e la progressiva affermazione di forme di democrazia diretta
che entrano in concorrenza con quelle della democrazia rappresentativa
costituiscono a tutti gli effetti la cifra della crisi che le democrazie
occidentali (e quindi non soltanto quella italiana) da lungo tempo
sperimentano.
La
ricostruzione della parabola dei partiti offerta da Palano potrebbe apparire
piuttosto sconfortante. Occorre, è vero, prendere atto che la stagione dei
grandi partiti di massa si è chiusa da tempo per effetto del trionfo del
«partito liquido», un soggetto che rispetto ai partiti tradizionali presenta un
carattere fluido della propria identità, tanto forte a guisa di una merce
ricercata dai consumatori quanto effimera nella sua capacità di durare nel
tempo. I partiti, urge constatarlo, risultano vittime di un vero e proprio
«deficit simbolico», incapaci anche solo lontanamente di rappresentare
politicamente la società, di plasmarla, di veicolare le immagini collettive, di
alimentare le passioni, di strutturare i conflitti. Ma benché ne tracci un
bilancio sostanzialmente negativo, Palano sembra lasciare adito a qualche
timido spiraglio. La speranza dell’autore è riposta nel «superamento del
deficit culturale e simbolico dei partiti contemporanei» tale per cui possa
emergere «una sorta di “Principe postmoderno” in grado di riconquistare una
cultura politica capace di incarnare la vocazione incisa nella stessa parola
“partito”: la vocazione di dare voce alla “parte”, di dare forma alla società,
di costruire identificazioni in grado di durare nel tempo, di alimentare
l’immaginario democratico modificando i confini del “tutto”».
Alberto Gasparetto
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