di Damiano Palano
Questa recensione al volume di D. Runciman, Politica (Bollati Boringhieri, pp. 174, euro 11.00) è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica.
«Che cosa intendiamo per politica? Il concetto è estremamente ampio e comprende ogni genere di attività direttiva autonoma. Si parla della politica valutaria delle banche, della politica di sconto della Reichsbank, della politica di un sindacato in uno sciopero, si può parlare della politica scolastica di un comune cittadino o rurale, della politica della presidenza di un’associazione per ciò che riguarda la sua direzione, e infine della politica di una donna intelligente che si sforza di guidare il proprio marito. Naturalmente non ci occuperemo di un concetto così ampio nelle nostre riflessioni di questa sera. Con il termine ‘politica’ intendiamo piuttosto riferirci soltanto alla direzione o all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire – oggi – di uno Stato» (M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006, p. 52).
Le parole con cui, ormai quasi un secolo fa, Max
Weber si rivolgeva agli studenti dell’Università di Monaco nella sua celebre
conferenza sulla Politica come
professione, rimangono ancora oggi un punto di riferimento ineludibile per
chiunque voglia comprendere cosa sia la politica nel mondo contemporaneo, e
forse anche cosa sia la politica nella sua essenza. Ma le difficoltà che
segnalava Weber nel 1919, soffermandosi incidentalmente sull’inflazione del
termine «politica», oggi non sono certo superate, e rendono per questo forse
ancora più complicato fornire una risposta soddisfacente (se non certo
completa).
È invece proprio a questo insidioso compito che è dedicato il
volumetto Politica di David Runciman
(Bollati Boringhieri, pp. 174, euro 11.00), politologo dell’Università di
Cambridge, presso la quale dirige il Dipartimento di Politica e Studi
Internazionali. E benché il lettore più esigente possa ravvisare più di qualche
lacuna nel testo – nel quale, per esempio, non vengono neppure menzionati testi
cruciali della discussione novecentesca sulla politica, come il celebre Der Begriff des Politischen di Carl
Schmitt o The Human Condition di
Hannah Arendt – il risultato del lavoro di Runciman è comunque interessante (e
godibile), non solo per chi sia in cerca di una prima riposta alla domanda
«cosa è la politica?».
L’approccio di Runciman potrebbe essere definito
come una sorta di realismo ‘hobbesiano’ moderato. Per un verso, il politologo sottolinea
il ruolo che le istituzioni hanno nel controllare la violenza, mentre, per l’altro,
sottolinea come la politica non sia affatto riducibile alla semplice dimensione
istituzionale. Per esempio scrive: «All’origine di ogni accordo politico di
successo convivono due lati. C’è il lato della politica che è prodotta da
istituzioni stabili: tutti i contenziosi e i contrasti vengono in qualche modo
risolti prima che la guerra esploda. E c’è la politica che produce istituzioni
stabili: tutte le questioni e gli accordi che conducono una guerra ad essere
conclusa. La politica non può essere ridotta ad alcun particolare assetto
istituzionale. La politica precede gli assetti istituzionali e nello stesso
tempo viene prodotta da essi» (pp. 14-15). Anche se non cede al compiacimento
che talvolta contrassegna lo sguardo cinico dei realisti, Runciman avverte inoltre
che la «politica del bene» spesso non è altro che «la maschera che rende
possibili le orribili azioni che essa dovrebbe prevenire» (p. 23). E non
dimentica di affrontare il problema del modo in cui la politica – e anche il
terribile strumento della violenza, costitutivamente connesso alla dimensione
politica – può volgersi verso il ‘bene’. Proprio qui, peraltro, Runciman torna
a evocare le parole della vecchia conferenza in cui Weber diffidava i giovani
che volevano ‘salvarsi l’anima’ a non cercare nella politica la via per
raggiungere questo obiettivo. Ma la risposta che lo studioso britannico
fornisce è in questo caso differente, perché non è solo la decisione del
politico a decretare quale sia la soluzione al dilemma tragico relativo all’uso
della violenza (e a ciò che essa comporta). «Weber era innamorato pazzo
dell’eroe politico tragico e solitario di un tempo, in un’epoca in cui la
politica era spesso tragica e sembrava aver bisogno di eroi. Agli inizi del XXI
secolo il peso del rischio è cambiato. Il disordine civile non è sempre dato
dal numero di persone che si mettono in pericolo. Ci sono anche le minacce ai
principi condivisi del comportamento politico che una politica stabile ha reso
possibile. I politici non hanno responsabilità solo sui propri cittadini, ma
anche sulle proprietà costituzionali, sulla legge internazionale e
sull’opinione pubblica globale. Tutto ciò impone dei vincoli che essi ignorano,
mettendo loro e noi in pericolo. I politici non possono fare semplicemente i
conti con la propria coscienza. Ci vuole qualcuno o qualcos’altro a cui debbano
rendere conto» (p. 54). Ma il rischio è che i cittadini – cui nelle democrazie
i politici devono rendere conto – diventino sempre più apatici, distanti,
indifferenti e in fondo disinteressati a ciò che fanno i loro leader. Ed è
proprio questa l’insidia principale che Runciman individua nel futuro delle
democrazie occidentali. In sostanza, il successo di Hobbes – ossia un mondo in
cui le istituzioni sono riuscite a monopolizzare la violenza, consentendo così
lo sviluppo economico e uno stabile progresso tecnologico – priva le società
democratiche del XXI secolo della possibilità di prevedere, sulla scorta del
passato, quali sono i rischi di fallimento. «Non ci sono precedenti storici a
cui riferirsi: non abbiamo cioè esempi di società prospere, sicure e vincenti,
abituate ai livelli di comodità e di vantaggi di cui godono le odierne
democrazie occidentali, che abbiano subito un collasso. Il che non significa
che questo non possa accadere» (p. 65).
Naturalmente il monito di Runciman potrebbe
essere preso come un inutile allarmismo, ma in realtà il discorso è più
sottile. Ciò su cui il politologo intende attirare l’attenzione è piuttosto il
rischio che discende dalla convinzione che ci si possa liberare dallo Stato e
dalla politica (così come dai suoi costi): una convinzione che non solo nutre
l’immaginario ‘anti-casta’ di molti movimenti degli ultimi anni, ma che
costituisce una sorta di pilastro ideologico di molti cantori delle
potenzialità delle nuove tecnologie, così come dei sostenitori delle virtù
della «tecnocrazia». Un effetto di simili atteggiamenti è stato però il
deleterio restringimento della classe politica: «L’élite politica ha sfruttato
la nostra disattenzione per rafforzarsi. Non vorremmo chiedere conto della loro
temerarietà, ma non abbiamo strumenti per farlo: la loro maggiore conoscenza
del funzionamento della politica ci lascia con un sentimento di impotenza. La
gente pensa di potersi riprendere la politica quando vuole, spesso si trova a
non sapere dove individuarla quando ne ha effettivamente bisogno. I
professionisti sono in grado di aggirare queste dinamiche. Il solo modo per
imparare a fare politica è praticarla continuamente, sia quando le cose vanno
bene sia quando vanno male» (p. 111). Ma un effetto ulteriore – di portata ben
superiore – potrebbe essere proprio l’incapacità di prevedere i rischi reali
della catastrofe che pesa sul nostro futuro. Naturalmente – e Runciman lo
ricorda – le democrazie hanno oggi a disposizione risorse inimmaginabili nel
passato e sono dotate inoltre di una formidabile capacità di adattamento. Ciò
nondimeno, «le democrazie non sono padrone del loro destino» (p. 165), e le
scelte dei singoli governi potrebbero fare ben poco dinanzi a sfide
effettivamente globali. Inoltre, per affrontare le grandi sfide del XXI secolo
(prima fra tutte quella del mutamento climatico), le democrazie potrebbero non
avere a disposizione il tempo necessario per agire adeguatamente. Ma, soprattutto,
le democrazie occidentali potrebbero cadere vittima di una sorta di
«compiacimento democratico». Un compiacimento che è qualcosa di più insidioso
che la semplice soddisfazione di aver raggiunto un obiettivo mai conseguito nel
passato, perché coincide piuttosto con la convinzione che il processo di
miglioramento sia destinato a proseguire in modo interminabile nel futuro, e
che il passato e i suoi incubi non possano tornare. Come scrive Runciman: «La
democrazia è sopravvissuta alla Grande depressione, è uscita dal fascismo, ha
sopraffatto il comunismo. Ha reso libero praticamente tutti i suoi cittadini.
La violenza è stata allontanata. Il benessere si è diffuso. Le democrazie non
solo hanno sempre risposto alle minacce e alle ingiustizie, ma hanno sempre
vinto le loro sfide. Potremmo quindi credere che questo processo si ripeterà
per un tempo indefinito. Quando sarà necessario, sapremo prendere le nostre
decisioni insieme» (p. 168).
Non è molto difficile ritrovare le tracce del
«compiacimento» biasimato da Runciman in molte delle discussioni sullo stato
odierno della democrazia e sugli allarmi – più o meno fondati che siano –
intorno alla sua ‘crisi’ o al suo logoramento. Di recente, un osservatore
attento come Michele Ainis, a proposito di un libro del linguista Raffaele
Simone, ha scritto che probabilmente gli allarmi sulla «crisi della democrazia»
non sono per nulla fondati: «Può darsi», ha scritto, «che stia per affacciarsi
un modello iperdemocratico, una democrazia senza partiti, dove la decisione principale
spetta al delegante (il cittadino) anziché al suo delegato (il parlamentare)»
(M. Ainis, I paradossi della democrazia.
E i suoi (prematuri) funerali, in «Corriere della Sera», 27 ottobre 2015,
p. 39). Certo il discorso di Ainis può avere qualche fondamento, ma è davvero
difficile non riconoscere nella
previsione (o nell’auspicio) di una prossima «iperdemocrazia» l’ennesima
variante di quell’ottimismo da cui Runciman mette in guardia. Non perché non ci
siano motivi per essere ottimisti. Ma perché l’ottimismo che nasconde al nostro
sguardo i rischi reali non risulta in fondo molto diverso da un atteggiamento
suicida. Nel nostro futuro, scrive d’altronde Runciman nella conclusione, nulla
è predeterminato e sicuramente ci saranno scelte difficili: «Ma non potremo
affrontare queste sfide nascondendoci o incrociando le dita. Potremo farlo solo
attraverso la politica» (p. 170).
Damiano Palano
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