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lunedì 9 novembre 2015

Egemonia o storytelling? Il populismo 2.0 di Pablo Iglesias





di Damiano Palano

All’indomani della comparsa del movimento spagnolo degli indignados, molti osservatori segnalarono le ingenuità e le debolezze politiche di un fenomeno che appariva solo come l’ulteriore manifestazione di un generale sentimento anti-politico e come l’ennesimo riflesso di un’ostilità nei confronti della «casta», in fondo priva di qualsiasi progettualità. Dopo quattro anni dalla data simbolica del 15 maggio 2011 - il giorno che gli spagnoli indicano con la sigla 15-M e in cui il movimento degli indignados prese possesso della Puerta del Sol madrilena – le cose sono naturalmente molto cambiate, sia negli assetti interni all’Unione europea, sia negli equilibri politici tra gli «europeisti» e quelle formazioni che, un po’ per pigrizia, continuano a essere catalogate sotto la voce «populismo» (o «neo-populismo»). E fra i nuovi e più originali protagonisti del nuovo scenario un posto di primo piano è naturalmente occupato da Podemos: un partito che – pur non essendone in senso proprio una filiazione – ha trovato nel 15-M le proprie radici e che, per molti versi, costituisce la variante più originale di un ‘populismo di sinistra’. A rendere particolarmente interessante la vicenda di Podemos è però la stessa genesi di questa formazione, che, per quanto possa essere intesa come uno sviluppo ‘politico’ degli indignados, può essere anche interpretata come il risultato di un esperimento – ancora in fase interlocutoria, ma per ora comunque riuscito – realizzato da un ristretto gruppo di intellettuali, alcuni dei quali giovani accademici dell’Università Complutense di Madrid, con alle spalle esperienze più o meno durature nella sinistra radicale.
Sull’onda delle proteste del 2011 e sulla scorta dei successi dei nuovi regimi ‘populisti’ latino-americani (ma, in realtà, anche in seguito alla riflessione autocritica seguita alla sconfitta elettorale patita nel 2011 dalla formazione Izquierda Anticapitalista, nata da una costola di Izquierda Unida), il nucleo fondatore di Podemos – ufficialmente formatosi nel novembre 2013 – iniziò a elaborare una strategia politica basata soprattutto sulla comunicazione. Ben presto tra i suoi esponenti prese a emergere la spiccata personalità di Pablo Iglesias Turrión, un giovane politologo della Facoltà di Scienze politiche della Complutense, la cui notorietà era legata in realtà – più che agli studi e all’attività accademica – alla carriera di opinionista televisivo, avviata già dal 2010, nella trasmissione online La Tuerka. E proprio la figura di Iglesias è diventata da allora il perno della comunicazione di Podemos, oltre che il pilastro di un successo che ha condotto il nuovo partito a ottenere nelle europee del 2014 – pochi mesi dopo la fondazione – una prima rilevante affermazione. «Ultra efficace nelle sue comparsate televisive», come lo descrivono Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena (in un istant-book non certo parco di toni celebrativi), «carismatico, una grande dialettica e doti da vero animale da palcoscenico, castigatore integerrimo dei politici e delle malefatte», «amato e anche odiato universalmente: nessuno ne ha mai messo in dubbio l’onestà personale: non poco in un paese piagato dalla corruzione e dai comportamenti eticamente discutibili di una gran parte dei personaggi pubblici» (Podemos. La sinistra spagnola oltre la sinistra, Alegre, Roma, 2014, p. 69). Anche grazie alle indiscutibili abilità comunicative del suo leader, Podemos si definisce così come un’operazione volta a rompere esplicitamente non solo con la sinistra spagnola (rappresentata dal Psoe e anche da Izquierda Unida), ma soprattutto con l’iconografia del movimento socialista novecentesco, nonostante lo stesso Iglesias non rinunci né a rivendicare il proprio passato nelle formazioni della sinistra radicale, né a indicare in Marx, Gramsci e in altri pensatori marxisti i propri riferimenti teorici. «Per i dirigenti di Podemos», ha scritto Renaud Lambert, «la sinistra si è data a lungo ad analisi astruse, riferimenti oscuri e un vocabolario in codice», e così il primo compito del nuovo partito «consiste nel ‘tradurre’ le posizioni tradizionali della sinistra in discorsi capaci di ottenere la più ampia adesione: le questioni della democrazia, della sovranità, dei diritti sociali» (Podemos, il partito che scuote la Spagna, in «Le Monde diplomatique», gennaio 2015, p. 20).
Azione comunicativa
In un dialogo recente con il politologo Fernando Vallespín, Iglesias è tornato sulle tappe della genesi di Podemos e, in particolare, sul ruolo giocato dal 15-M. «In gran parte», ammette Iglesias, «Podemos è il risultato delle preoccupazioni di un gruppo di politologi frustrati, qualcosa che si evince nella ricercatezza dei discorsi, nello stile di Podemos», «un gruppo di politologi provenienti dalla sinistra e che continuamente mescolano le loro aspirazioni di militanti di sinistra con, per dire, le proprie conoscenze teoriche che li portano al pessimismo dell’intelligenza» (La sfida di Podemos: teoria, prassi e comunicazione, in «Micromega», 7/2015, p. 24). Ma, a dispetto dello scetticismo iniziale nei confronti del 15-M, in seguito il gruppo dirigente di quello che diventerà Podemos coglie nell’insofferenza mostra dagli indignados uno spazio d’azione. Uno spazio che altrove viene sfruttato dal Fronte nazionale o dal Movimento 5 Stelle, e che invece in Spagna trova in Iglesias e nel nuovo partito che si forma attorno alla sua leadership un interlocutore. Ma ciò che contrassegna fin dall’inizio l’operazione di Podemos – e che lo distanza in modo netto dalla tradizione della sinistra novecentesca – è la scelta del piano della comunicazione come terreno su cui condurre la propria battaglia. Come riconosce nitidamente lo stesso Iglesias: «Dicevamo che i partiti politici sono mezzi di comunicazione. La gente non milita nei partiti. La gente milita nella radio che ascolta. Uno è della Cope, un altro è della Ser, o della Onda Cero. Uno vota El País, La Razón, El Mundo. Oppure vota la Secta, o Telecinco, e diciamo che tutti loro si avvicinavano a quello che Gramsci chiamava l’‘intellettuale organico’. O interveniamo lì, o siamo politicamente morti. E intuitivamente all’inizio abbiamo creato più che un partito politico propriamente detto uno stile di intervento mediatico, perché non avevamo nemmeno mezzi di comunicazione a nostra disposizione» (ibi, p. 25). In altre parole – e su questo è difficile non riconoscergli il merito di un’intuizione forse prima politica che puramente teorica – Iglesias rompe con una visione consolidatasi nel corso degli ultimi trent’anni, la quale sostiene che i partiti non sarebbero più in grado di svolgere una reale azione di rappresentanza delle istanze della società, e secondo cui dunque la ‘forma-partito’ sarebbe inevitabilmente destinata a essere superata dalle reti informali e dalle connessioni fluide dei movimenti. Contro questa lettura Iglesias invece ripropone, seppur rivisitandola, l’idea che il partito sia ancora uno strumento imprenscindibile per fare politica. Uno strumento che non può fare a meno di una leadership, di un’organizzazione. E che proprio per questo può riuscire a ottenere risultati politici, o meglio, «potere istituzionale». «Si è creata la menzogna secondo cui il mondo si cambierebbe a livello micro», nota per esempio Igleasias, «e sì, è vero, ma il fattore determinante a livello micro è tutto quell’insieme di strutture amministrative che riguardano le istituzioni. […] Non basta quella dinamica di militanza che conosciamo. C’è bisogno di potere istituzionale. […] I movimenti esprimono stati d’animo, esprimono ingredienti sociali, ma continua a essere data per scontata l’esistenza delle disposizioni amministrative. È vero che lo Stato conta sempre meno, e che esiste una serie di strutture amministrative sovrastatali alle quali non è possibile accedere per via democratica, come ha ben dimostrato il movimento no global. Ma è anche vero che le istituzioni e gli apparati statali continuano a essere i depositari del potere, e soltanto con quel potere si possono cambiare le cose» (ibi, p. 34).
Naturalmente è ancora molto prematuro valutare se l’operazione tentata da Podemos sia destinata a incontrare un duraturo successo oppure se la sua ascesa si rivelerà soltanto una fuggevole meteora. Ma è indubbio che – pur con tutte le sue ambiguità – l’esperimento di Podemos segna quantomeno l’esigenza di confrontarsi con quel «potere istituzionale» che i movimenti sociali negli ultimi trent’anni hanno per molti versi considerato come un terreno strutturalmente ‘nemico’, e persino con la parola «partito», divenuta persino impronunciabile per generazioni alfabetizzate alla koiné antipolitica del XXI secolo. In qualche misura, il riconoscimento cui giunge oggi Iglesias può essere considerato anche come l’esito di una probabilmente meditata riflessione autocritica. Iglesias proviene infatti da una lunga militanza – che certo non rinnega, e neppure nasconde – tra le fila di quella sinistra radicale ‘movimentista’ che, a cavallo tra i due secoli, dopo il crollo dell’Unione Sovietica il fallimento del socialismo di Stato, fece propria la formula di John Holloway, secondo cui era necessario, oltre che possibile, «cambiare il mondo senza prendere il potere». Quando oggi invoca invece la necessità di confrontarsi con il «potere istituzionale», e dunque di ‘conquistarlo’, Iglesias riconosce in qualche modo i limiti della sua militanza giovanile. E in questo mutamento politico non è peraltro difficile scorgere il riflesso di una sostanziale revisione condotta sul piano teorico.
Nell’itinerario di formazione di Iglesias, si possono riconoscere le forti presenze del pensiero radicale italiano, in particolare del post-operaismo fissato nelle opere di Michael Hardt e Antonio Negri. Iglesias si distacca però progressivamente da questo impianto originario. Un fattore che influisce sulla ridefinizione linguistica e simbolica compiuta da Podemos è probabilmente costituito dalle esperienze di Rafael Correa in Equador, di Evo Morales in Bolivia e di Hugo Chavez in Venezuela, e d’altronde, proprio attorno ai finanziamenti ricevuti da alcuni dei fondatori dell’organizzazione da parte del governo venezuelano sono nate alcune delle prime difficoltà(sul popuslimo di Correa, è da vedere per esempio il volume di C. Formenti, Magia bianca e magia nera. Ecuador: la guerra fra culture come guerra di classe, Jaca Book, Milano, 2014). Ma, in questa operazione (al tempo stesso teorica e politica), hanno giocato un ruolo di mediazione importante la teoria di Ernesto Laclau e la ridefinizione del populismo compiuta dallo studioso argentino. Così è quasi inevitabile riconoscere uno scarto fra le posizioni sostenute oggi da Iglesias, per esempio nel suo Democrazia anno zero. Il manifesto politico del leader di Podemos (Alegre, Roma, 2015, euro 15.00), e l’impostazione che emerge nel suo libro più importante, Disobbedienti. Dal Chiapas a Madrid (Bompiani, pp. 303, euro 18.00), frutto non solo dell’esperienza di militante, ma anche di un decennio di studi dedicati ai movimenti di critica alla globalizzazione neoliberista.
Laboratorio italiano

Disobbedienti – un libro uscito in Spagna nel 2011 – era la rielaborazione della tesi di dottorato di Iglesias, ma le sue pagine possono essere lette in filigrana anche come una sorta di autobiografia di Iglesias, che iniziò a frequentare l’Italia da studente universitario e che proprio allora iniziò a indagare (come osservatore partecipante) le modalità organizzative e comunicative della sinistra radicale italiana, e in particolare le pratiche di «disobbedienza» delle Tute bianche. Proprio per il debito maturato nei confronti di queste esperienze, l’edizione spagnola del volume (così come oggi quella italiana) era aperta da una prefazione di Luca Casarini, che di quel movimento fu a lungo il portavoce e l’esponente più noto. Al tempo stesso, nel libro Iglesias delineava una genealogia, che, partendo dall’Italia, giungeva sino a Madrid e al 15 maggio 2011, perché una delle tesi chiave del testo – una tesi peraltro al cuore di molti dei primi lavori pubblicati da Iglesias – era che ci fosse una filiazione diretta tra le sperimentazioni comunicative della «Disobbedienza italiana» e le forme di azione degli «indignados» madrileni. In altre parole, secondo Iglesias, quella generazione di giovani militanti che aveva conosciuto i movimenti italiani, ne aveva ‘importato’ in Spagna le modalità d’azione e i temi principali.
La prolungata frequentazione dell’Italia da parte di Iglesias trapelava d’altronde anche dai riferimenti teorici (in realtà piuttosto parchi) di Disobbedienti, tra cui non poteva mancare Empire di Michael Hardt e Antonio Negri. E non era così affatto sorprendente che il giovane ricercatore spagnolo utilizzasse l’espressione «potere costituente» per indicare il filo conduttore legava i movimenti italiani al 15M. Come scriveva lo stesso Iglesias nell’introduzione al volume, l’obiettivo che si proponeva consisteva nell’analizzare «l’impatto di una serie di tecniche di azione collettiva comunicativa nate in Italia e il tentativo, da parte di un gruppo di giovani militanti del Movimiento de Resistencia Global de Madrid, di adattarle alla propria realtà e di configurarle come strumento per l’azione politica e la comunicazione» (p. 19). L’indagine sui legami che stingevano queste due esperienze era però collocata nel quadro di una prospettiva più ambiziosa, che puntava a ricostruire la genesi di un movimento che superava la dimensione nazionale, ossia – come scriveva Iglesias - «di un attore politico postnazionale, molteplice ed eterogeneo, partendo dall’analisi delle forme di azione collettiva di alcuni collettivi disobbedienti italiani e madrileni, in scenari europei tra il 2000 e il 2004» (p. 23).
Se buona parte del volume era dedicata a un periodo compreso tra il 1999 e il 2004 – ossia, dalla contestazione del vertice di Seattle fino alle mobilitazioni madrilene del 2003 e alle dimostrazioni seguite agli attentati dell’11 marzo 2004 (dimostrazioni che accompagnarono la sconfitta clamorosa di Aznar alle elezioni di alcuni giorni dopo) – Iglesias concludeva però l’analisi di Disobbedienti guardando agli indignados comparsi sulla scena nel marzo 2011, e soprattutto rilevando una linea di continuità tra le proteste contro la guerra in Iraq e le nuove mobilitazioni: «Ciò che abbiamo visto negli ultimi mesi in Spagna con il movimento 15M è praticamente la creazione della politica costituente (come alternativa a quella rappresentativa), concretizzata nelle pratiche di disobbedienza. Per quella generazione di giovani attivisti era necessario reinventare le forme e i simboli della politica e la Disobbedienza italiana fu un esperimento in quel senso. […] I Disobbedienti scoprirono un meccanismo politico di produzione di un senso in accordo con questi tempi dominati dalle tecnologie della comunicazione. Furono capaci di creare simboli (cruciali nelle narrative di tutti i movimenti sociali che hanno dimostrato successo) e che, nel bene o nel male, si sono dimostrati storicamente indispensabili al successo dell’azione collettiva» (p. 276). In questa valutazione, è facile intravedere, seppur solo in filigrana, le tracce di un mutamento non secondario intervenuto nell’impianto teorico di Iglesias, che evidentemente oggi non è più – e che forse non era già più neppure nel momento in cui Disobbedienti usciva – quello ereditato dal ‘post-operaismo’ italiano. A ben guardare, infatti, anche termini come «moltitudine» o «potere costituente», che pure compaiono nelle pagine di Disobbedienti, possono essere considerati più come l’effetto della sedimentazione di una stagione politica per molti versi conclusa, che come il segnale di un’eredità teorica rivendicata.
Nonostante Iglesias abbia riconosciuto in più occasioni il debito maturato nei confronti del post-operaismo italiano e dello stesso Negri (cui peraltro Iglesias ha di recente dedicato una lunga intervista, all’interno di un suo programma televisivo), i suoi riferimenti sembrano oggi altri, e cioè teorici come Perry Anderson, Immanuel Wallerstein e soprattutto Gramsci, o, meglio, il pensiero di Gramsci riletto (e certo semplificato) da Ernesto Laclau. E un simile riorientamento non è affatto secondario, perché, per molti versi, viene a rovesciare una delle tesi cruciali della riflessione ‘post-operaista’. Da almeno quarant’anni (e cioè da quando era impegnato in una battaglia teorico-politica contro il Pci di Berlinguer e la sua ipotesi del «compresso storico»), Negri infatti sostiene che la «società civile» è scomparsa. E con questo intende dire che è scomparso quel terreno ‘relativamente autonomo’ di mediazione (politica e culturale) in cui Gramsci aveva situato la lotta per la conquista dell’«egemonia»: quello stesso terreno, dunque, in cui la social-democrazia aveva storicamente cercato i margini per un’azione riformatrice, e in cui il Pci degli anni Settanta aveva puntato a trovare le condizioni per una riforma generale della società italiana. «Nel nostro tempo», si legge d’altronde in Impero, «la società civile non è più un adeguato terreno di mediazione tra il capitale e la sovranità» (M. Hardt – A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002, p. 306). E proprio in questo senso Hardt e Negri scrivevano, ormai quindici anni fa: «Le rappresentazioni del politico come una sfera autonoma in grado di organizzare il consenso e come luogo di mediazione dei conflitti tra le forze sociali oggi non hanno più molto senso. Il consenso viene determinato assai più efficacemente da fattori economici, come gli equilibri delle bilance commerciali e la speculazione sui valori dei titoli. Il controllo su questi movimenti non è più nelle mani delle forze politiche a cui viene tradizionalmente attribuita la sovranità, e il consenso non è più il prodotto dei processi politici, bensì di altri mezzi. Il governo e la politica stanno per essere completamente integrati nel sistema del comando globale. I controlli vengono ormai articolati attraverso una serie di corpi e funzioni internazionali. E questo vale anche per le tecniche della mediazione politica, le quali operano applicando le categorie della mediazione burocratica e della sociologia manageriale e non agiscono più in base alle tradizionali coordinate politiche della mediazione dei conflitti e della composizione degli antagonismi di classe. Non è tanto la politica che scompare, quanto piuttosto qualsiasi nozione della sua autonomia» (ibi, p. 288).



Il discorso articolato da Iglesias – come, in generale, dagli intellettuali che hanno dato vita a Podemos – non si limita a discostarsi da quello che Hardt e Negri svolgevano in Impero, ma ne contesta proprio il punto fondamentale, ossia l’idea che il terreno della mediazione politica non sia più centrale. E proprio in questo senso Iglesias si volge oggi all’«egemonia» di Gramsci, rivisitata da Laclau. Sulla scorta di Laclau, Iglesias presenta infatti Podemos come una forma di «populismo» di sinistra, ossia come un’esperienza politica diretta a conquistare un’«egemonia» che si colloca prevalentemente sul piano simbolico e comunicativo. Nel suo Democrazia anno zero, Iglesias scrive per esempio che «Gramsci aveva compreso che il potere delle classi dominanti non solo viene esercitato tramite strumenti coercitivi, m anche tramite strumenti culturali come il controllo del sistema educativo, della religione e dei mezzi di comunicazione e che, quindi, la cultura, è un terreno cruciale della lotta politica» (Democrazia anno zero, cit., p. 60). E proprio in questo senso aggiunge: «Il grande dispositivo mediatico del nostro tempo […] è la televisione», perché proprio quest’ultima «modella la nostra sensibilità estetica, le nostre opinioni politiche, condiziona il nostro svago e intrattenimento, ci ‘insegna’ il significato delle parole, ci dice (quasi sempre in maniera più implicita che esplicita) che la parola antisistema ha una connotazione quasi ‘criminale’ e che la parola ‘mercato’ non ha niente a che fare con i colpi dello Stato» (pp. 60-61).



I segnali di questa svolta ‘comunicativa’ erano d’altronde già evidenti quando nel 2011 Iglesias licenziava Disobbedienti (e forse anche una stagione della propria militanza politica). Il merito che già allora Iglesias riconosceva alla «Disobbedienza italiana» era infatti solo un merito ‘estetico’, un merito che consisteva cioè nell’aver sviluppato tecniche comunicative efficaci. E in questo il ragionamento di Iglesias era già davvero ‘laclausiano’: le identità collettive (nazionali, etniche, popolari), osservava infatti, sono necessarie per l’azione politica, ma «buona parte dei fondamenti di tali identità sono miti» che non resisterebbero a un serio esame storico; e proprio in questa direzione, il vero merito della «Disobbedienza italiana» è di essere stata in grado «di ricreare e ridefinire miti per agire dove c’è il potere, al di là dello stato» (p. 277). «Pochi gruppi», prosegue Iglesias, «hanno compreso così bene le chiavi dell’azione nella società dello spettacolo come i Disobbedienti», e di questa esperienza vengono così valorizzati «il rinnovamento estetico e simbolico espresso nelle […] forme di azione e nei […] discorsi», oltre he «il rinnovamento nella produzione delle narrative», «una condizione di possibilità per i movimenti antagonisti del presente» (P. Iglesias Turrión, Disobbedienti, cit., p. 277).
In questo stesso senso, nell’epilogo al volume di Iglesias, Iñigo Errejón Galván – forse l’esponente di Podemos che più si è impegnato nella costruzione di una riflessione teorica – viene a configurare esplicitamente il movimento degli indignados come l’esempio di una lotta «egemonica», ossia di un conflitto che, recependo le indicazioni ‘stilistiche’ (e non teoriche) della «Disobbedienza italiana», ha puntato costruire nuove identità politiche e nuove linee di divisione:  «Il 15M deve gran parte della sua forza al fatto di avere generato un’identità politica nuova, che spariglia gli allineamenti esistenti e ha la capacità di articolare simpatie e solidarietà relativamente trasversali. […] A partire dall’identificazione di casi particolari che illustrano un problema collettivo, il movimento è in grado di politicizzare le carenze concrete e, fino a ora, vissute individualmente. Poi però traccia, a partire da quelle, una frontiera che è tanto più forte di quello che si pretende, e può presentarsi come non ideologica: la grande maggioranza, sempre più condannata alla precarietà e privata di cittadinanza politica da una piccola casta corrotta e inefficace che sacrifica i diritti collettivi e la sovranità popolare ai ricatti dei mercati» (Errejón Galván, La disobbedienza come gesto per una politica audace, ibi, p. 285). La logica che Errejón descrive è esattamente quella che, secondo Laclau, caratterizza la nascita di un «populismo», ossia di un movimento politico che nasce a partire dalla ‘costruzione’ simbolica di un «popolo» (contrapposto ai suoi nemici). E così il movimento degli indignados può essere raffigurato come un soggetto che prende forma nel momento in cui inizia a condurre la propria battaglia per la conquista dell’«egemonia»: «Il 15M», scrive infatti Errejón, «combatte così, fondamentalmente, una battaglia che Gramsci aveva denominato ‘guerra di posizione’: la disputa per rompere l’aura di naturalità che circonda l’ordine esistente, le sue istituzioni e i risultati, disarticolare l’ampio blocco che unisce governati e governatori [sic], e costruisce una ‘volontà di scissione’ di questi ultimi, un noi con capacità destituente e costituente, di nominarsi ed, eventualmente, governarsi» (p. 286).
Naturalmente il futuro prossimo di Podemos non dipenderà tanto dalla coerenza dei propri presupposti teorici, quanto dall’abilità comunicativa dei suoi leader, e da questo punto di vista è difficile non riconoscere lo straordinario talento di Pablo Iglesias, un leader davvero capace di ‘bucare lo schermo’, oltre che di cogliere i rischi che provengono dall’attaccamento alle identità settarie proprie di molti esponenti della nuova formazione politica (rischi che stanno affiorando soprattutto in relazione all’impegno amministrativo dei nuovi sindaci di Madrid e Barcellona, che non sono in realtà espressione di Podemos, ma di una coalizione più ampia). Ma forse non è improbabile che Iglesias debba tornare a riesaminare nuovamente – come politico, prima che come teorico – la vecchia questione della fine della «società civile» (e dell’autonomia della sfera della mediazione), una questione che, in seguito alla svolta ‘comunicativa’ dal ‘post-operaismo’ a Gramsci, è stata più ‘rimossa’ che realmente superata. Perché se Iglesias e Podemos hanno un merito, questo consiste nell’aver collocato nuovamente al centro la ricerca di un’«autonomia del politico», e cioè di una sfera di autonomia ‘simbolica’ della politica, nella quale si formano le identità collettive e in cui si condensa la ‘materia prima’ di ogni conflitto. L’aver riconosciuto questa «autonomia» - sulla scorta di Gramsci, ma soprattutto di Laclau – non può però autorizzare a ‘liquidare’ il nodo dell’«autonomia» dello Stato, e cioè il nodo dell’autonomia (reale o potenziale) delle istituzioni statali tanto dalle dinamiche ‘economiche’ del capitalismo contemporaneo, quanto dai meccanismi ‘politici’ sovranazionali ed europei. Ed è d’altronde proprio in relazione a queste due dimensioni che sarà possibile capire quali siano davvero le risorse che l’«egemonia» conquistata sul terreno simbolico potrà far pesare sulla realtà materiale dei rapporti di forza. Perché solo dinanzi alla prova del potere ‘materiale’ sarà possibile capire se la «guerra di posizione» di cui parlano Iglesias e Errejón rimarrà confinata al palcoscenico della politica spettacolo, o sarà invece capace di influire su quella trama di vincoli e poteri in cui è racchiusa la vita individuale di ogni singolo cittadino. E se l’«egemonia» che Podemos punta a conquistare non sia in realtà altro che uno storytelling radicale.

Damiano Palano

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