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domenica 29 novembre 2015

Cercando un altro populismo. Il realismo ‘romantico’ di Pablo Iglesias





di Damiano Palano

Come tutti i movimenti politici nella fase nascente, anche Podemos rimane oggi un fenomeno difficile da interpretare, soprattutto perché le sue coordinate ideologiche e la sua fisionomia organizzativa sono davvero molto complicate da classificare all’interno delle più familiari griglie concettuali. Per il bagaglio ideologico (più o meno esibito) dei suoi dirigenti, è infatti inevitabile accostare Podemos ad altre formazioni della ‘nuova’ sinistra radicale europea, e in particolare a Syriza e al suo leader Alexis Tsipras. Da molti altri punti vista, Podemos è invece più simile al Movimento 5 Stelle, non solo per centralità che ha assegnato al piano comunicativo (e alla leadership del suo leader), ma anche per il tentativo di andare ben oltre il perimetro dell’elettorato di sinistra, rinunciando persino alla stessa formula «sinistra» e a molti degli elementi identitari di questa tradizione politica. E d’altronde il perno fondamentale della sua comunicazione – la lotta alla «casta», alla classe politica corrotta del Ppe e del Psoe, ma più in generale all’intera classe dirigente della Spagna post-franchista – avvicina Podemos, molto più che alla sinistra radicale, alla retorica ‘anti-politica’ del M5S e alle diverse espressioni di disaffezione che, negli ultimi decenni, sono state etichettate con la formula impressionistica di «populismo».
Nel suo primo anno di vita, Podemos (fondato ufficialmente nell’autunno 2013) sembrava destinato a una cavalcata trionfale, di cui il successo ottenuto nelle elezioni europee del 2014 era solo la prima tappa. Ora l’avanzata sembra incontrare le prime difficoltà, e la campagna per le prossime elezioni costituirà una cartina di tornasole, non solo per valutare se l’obiettivo di superare in termini di voti il Partito socialista verrà raggiunto, ma anche per capire quali saranno le prospettive di una formazione ancora ben lontana da un consolidamento organizzativo e identitario. È però quasi inevitabile cercare una risposta a tutte le domande su questo nuovo protagonista della politica spagnola nelle parole del suo leader, Pablo Iglesias Turrión, giovane politologo della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Complutense di Madrid, e in particolare nel suo Disputar la democracia. Politica para tiempos de crisis (Akal, Madrid, 2014), oggi tradotto in italiano, in un’edizione curata da Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena, con il titolo Democrazia anno zero. Il manifesto politico del leader di Podemos (Alegre, Roma, 2015, euro 15.00). Anche se – occorre avvertire – molte delle domande sul futuro (e persino sul futuro prossimo) di Podemos sono destinate a rimanere senza risposta dopo la lettura del libro di Iglesias. Non solo perché la stesura del testo risale all’estate 2013 (e dunque a una fase in cui Podemos era ancora solo un progetto), o perché l’autore dichiara di non avere avuto il tempo necessario per portare a compimento il piano che si era proposto. Ma probabilmente anche perché – e il caso di Iglesias lo conferma – i tempi dell’azione politica non si accordano mai con quelli della riflessione teorica, che rischia quasi sempre di arrivare tardi, proprio come la vecchia nottola di Minerva (e d’altronde nessuno, per capire davvero il «berlusconismo» o il «renzismo», si potrebbe accontentare della lettura di testi, non certo memorabili, come L’Italia che ho in mente o Tra De Gasperi e gli U2). 
Nonostante tutte queste cautele, il libro di Iglesias rischia davvero di risultare deludente persino per i suoi lettori meglio disposti. Nelle pagine di Democrazia anno zero si trova infatti davvero poco – per non dire nulla – dei progetti con cui Podemos mira a conquistare un ruolo di primo piano nella politica spagnola. Ma inoltre – tolti i riferimenti (per lo più rituali) a intellettuali marxisti come Perry Anderson, David Harvey e Immanuel Wallerstein, oltre che a un Gramsci un po’ caricaturalizzato – la base teorica principale di Iglesias sembra essere il best-seller La casta di Stella e Rizzo. E non solo perché il libro dei due giornalisti del «Corriere della Sera» viene effettivamente citato da Iglesias, ma perché la parte ‘programmatica’ del libro finisce col risultare una sorta di requisitoria contro la «casta» corrotta che governa la Spagna. In un passaggio importante del libro Inglesias scrive, per esempio: «A questa casta politica che prende le decisioni e mantiene uno scandaloso tenore di vita non interessano le sofferenze che colpiscono la maggior parte dei cittadini. I membri di questa casta hanno l’assistenza sanitaria privata, mandano i loro figli in esclusive scuole private, hanno salari e condizioni di lavoro privilegiate (quando lavorano) e i loro figli entrano nelle grandi imprese grazie alle raccomandazioni. La distanza tra i rappresentanti e i rappresentati cresce ogni volta che un privilegiato che chiede dei sacrifici ai cittadini è scoperto a guadagnare denaro in forma illegale o socialmente illegittima» (p. 168). Naturalmente il punto non sta nella veridicità della descrizione della situazione compiuta da Iglesias, perché – al netto dei toni retorici – è facile riconoscere nel quadro delineato dal leader di Podemos un ritratto molto familiare al lettore italiano, persino rassegnato dinanzi alla capacità della «casta» di riprodursi sotto ogni bandiera politica. Il punto sta piuttosto nel fatto che dietro la retorica di Iglesias sembra mancare un’analisi realistica della trasformazione che ha investito i paesi dell’Unione europea a partire dal 2011, e nella quale – come sempre nei momenti di crisi – sono emerse con nettezza tendenze che in realtà maturavano da molto più tempo. E proprio per questo il discorso di Iglesias non sembra distanziarsi molto dalla più superficiale retorica anti-casta degli ultimi anni, ossia da quella retorica che imputa tutti i guasti a una minoranza corrotta, privilegiata e vorace che si annida nei centri di potere della società. Una retorica cui ci hanno abituato negli ultimi anni un po’ tutti gli alfieri del ‘neo-populismo’, ma di cui forse si poteva trovare una declinazione non molto diversa anche nelle vecchie pagine di Guglielmo Giannini. Ma l’assenza di un’analisi realistica del contesto in cui Podemos deve muoversi, se da un lato può essere spiegata anche con le finalità propagandistiche e divulgative del pamphlet, dall’altro non può non sorprendere, perché stride proprio l’enfasi con cui Iglesias evoca la necessità del ‘realismo’. Un’enfasi che non affiora solo quando Iglesias, nelle pagine finali, mette in guardia contro gli eccessivi entusiasmi («È essenziale […] avere la capacità necessaria a costruire alleanze con gruppi politici e sociali che vogliono un cambiamento o che sono disposti a farne parte. In politica raramente ci si può permettere di ritenersi autosufficienti, l’arroganza e la superbia si pagano care. Vincere le elezioni non vuol dire prendere il potere», p. 185). Ma che emerge soprattutto nella parte più teorica del libro, per esempio nel momento in cui Iglesias ricorda la necessità di guardare alla politica con gli occhi del vecchio realismo: «la politica non risolve i conflitti né sul piano del Diritto né su quello delle idee, ma mediando e confrontando il potere di ogni attore. Per questo noi democratici non ci dobbiamo mai dimenticare che le ragioni senza la forza non sono niente. Come ci hanno insegnato molto bene i padri fondatori della nazione americana, per far sì che ci sia democrazia non basta un faldone di leggi da votare o una serie infinita di interventi regolamentati per parlare in parlamento, serve che ci sia una reale divisione del potere. […] Per avere uguaglianza di diritti bisogna avere anche uguaglianza di poteri» (p. 55). O anche quando, riabilitando la ragion di Stato e pensatori come Sun Tzu, Machiavelli, Richelieu, Bismarck e Carl Schmitt, scrive: «Se qualcosa hanno in comune queste figure tanto diverse tra loro è aver chiamato le cose con il loro nome e aver compreso e detto (ognuno nel suo contesto) che la politica (o la guerra) è, essenzialmente, l’arte del potere, che studia come mantenerlo e conquistarlo» (p. 56). 
Per la verità, Iglesias sposta l’impianto del realismo – e l’enfasi sulla forza – solo sul terreno della battaglia culturale, adottando la nozione gramsciana di «egemonia». «Per questo», osserva, «non si deve mai assumere il linguaggio dell’avversario politico senza contestarlo o analizzarlo. Quando i nostri avversari politici fanno propri termini come casta, porte scorrevoli, ‘berlusconizzazione’ della politica, sfratti, precarietà ecc., spostano di fatto il campo di battaglia su un terreno che ci favorisce. Ottenere questi spostamenti di campo è l’obiettivo dell’azione politica sul terreno ideologico» (p. 61). In realtà, però, quando riprende l’idea gramsciana dell’«egemonia», finisce con l’impoverirla non poco, perché in fondo la battaglia per l’egemonia culturale diventa una battaglia che si combatte ‘solo’ sul terreno simbolico. E per questo finisce con lo smarrire il riferimento ‘realistico’ ai rapporti di potere (di cui pure Iglesias segnala l’importanza sul versante della politica internazionale).
Alla base di questa ‘traduzione’ del realismo politico di Gramsci nel linguaggio ‘anti-casta’ (si potrebbe persino dire ‘anti-politico’) di Iglesias è facile ritrovare la mediazione cruciale di Ernesto Laclau. Ma è anche quasi scontato ravvisare nell’utilizzo concreto della teoria del populismo dello studioso argentino più di qualche limite, che riguarda il fatto che l’«egemonia» di Podemos – più che poggiare le radici nelle relazioni di potere – sembra poggiare sullo stesso livello in cui si svolge lo spettacolo della «democrazia del pubblico». Come è stato d’altronde osservato: «Podemos, facendo proprie e intrecciando le teorie di Laclau e Gramsci, punta a unire tutti i soggetti colpiti dalle ‘caste’, cioè dall’alto. Giocandosi la carta del pragmatismo: se il mercato della politica è diventato uno scaffale di un centro commerciale, dove la scelta del prodotto da parte dei consumatori (elettori) avviene più per sensazione o per l’immagine della confezione, allora tanto vale inserire i contenuti in un contenitore attraente. Nuovo. Pulito. Dinamico. Accessibile a tutti. […] La forma data a Podemos è un misto buono per tutte le esigenze. Per i consumatori meno esigenti del prodotto Podemos, basta internet, il colpo di clic, basta lo smartphone a portata di mano; per i più critici, resta lo spazio classico fatto di assemblee, comitato, riunioni, circoli che si richiamano alle forme della lotta di classe. E poi, ancora e soprattutto, la televisione» (M. Pucciarelli – G. Russo Spena, Podemos. La sinistra spagnola oltre la sinistra, Alegre, Roma, 2014, pp. 86-87). E se l’identità ‘liquida’ di Podemos è all’origine delle sue fortune – in modo sostanzialmente analogo a quanto è avvenuto nel 2013 per il Movimento 5 Stelle in Italia – è però piuttosto chiaro che i suoi successi hanno ben poco a che vedere, almeno per ora, con i reali processi di potere e con i rapporti di forza. 
Forse l’assenza di un’analisi dei rapporti di forza nel libro di Iglesias è soltanto uno degli aspetti in cui Disputar la democracia mostra di essere un lavoro incompiuto, a causa degli impegni politici che hanno travolto il suo autore a partire dall’autunno 2013. Ma se i successi elettorali ottenuti finora da Podemos possono essere considerati come un argomento sufficiente per ritenere del tutto secondarie le lacune analitiche del discorso di Iglesias, è comunque più che legittimo ritrovare in quelle stesse lacune la spia di difficoltà con cui – prima o poi – il leader spagnolo e il movimento politico di cui è a capo si troveranno alle prese. Nel discorso di Iglesias, affiora infatti lo stesso disinteresse che Laclau in fondo nutriva (o sembrava nutrire) per le risorse ‘materiali’ del potere. La teoria di Laclau tende infatti a dare per scontato che il confronto tra identità collettive avvenga sul terreno delle istituzioni statali: in primo luogo, dunque, tende a presupporre che il conflitto agonistico tra parti si svolga invariabilmente dentro il perimetro dello Stato nazionale; inoltre, almeno in modo implicito, pare sempre assumere che le istituzioni statali siano dotate delle risorse necessarie per agire nella società, e che ciò che avviene sul terreno del conflitto simbolico si traduca dunque ‘a cascata’ sui reali rapporti di potere in cui i singoli individui sono inseriti (per un’argomentazione più compiuta, rinvio a Il principe populista, in Populismo e democrazia radicale, a cura di Marco Baldassari e Diego Melegari, Ombre corte, Verona, 2012, ma anche a Egemonia o storytelling? Il populismo 2.0 di Pablo Iglesias). Ma proprio per questo Laclau non può che ‘presupporre’ uno spazio economico ‘nazionale’ di fatto impermeabile agli attori esterni: deve cioè ipotizzare una ‘sovranità’ economica (se non autarchica) quantomeno irrealistica, e al tempo stesso sopravvalutare la facoltà dello Stato di agire sul terreno ‘materiale’ dell’economia. Molti regimi latino-americani che hanno utilizzato Laclau come strumento per ‘legittimare’ un nuovo populismo hanno concretamente sperimentato le ambiguità di questo discorso. Ma è evidente che queste difficoltà non possono che risultare ulteriormente amplificate in una situazione come quella spagnola, in cui – non diversamente da quanto accade nel resto dell’Ue – l’«autonomia» di manovra dei governi nazionali è quantomeno ‘imbrigliata’ dall’infrastruttura istituzionale dell’Ue. E da questo punto di vista le vicende di Syriza e di Tsipras dovrebbero insegnare qualcosa a Iglesias. Perché un populismo che si nutre solo di retorica, ma che rifiuta di confrontarsi con i nodi del potere, rischia di rivelarsi soltanto uno tanti, fuggevoli protagonisti della contemporanea politica spettacolo. E il realismo, di cui pure Igleasias si dichiara convinto alfiere, rischia di apparire solo un realismo ‘romantico’, destinato a rincorrere le occasioni alla superficie della politica spettacolo, senza poter davvero incidere sui rapporti di potere.

Damiano Palano

Vedi anche Egemonia o storytelling? Il populismo 2.0 di Pablo Iglesias

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