All’indomani della comparsa del movimento spagnolo
degli indignados, molti osservatori
segnalarono le ingenuità e le debolezze politiche di un fenomeno che appariva
solo come l’ulteriore manifestazione di un generale sentimento anti-politico e
come l’ennesimo riflesso di un’ostilità nei confronti della «casta», in fondo
priva di qualsiasi progettualità. Dopo quattro anni dalla data simbolica del 15
maggio 2011 - il giorno che gli spagnoli indicano con la sigla 15-M e in cui il
movimento degli indignados prese
possesso della Puerta del Sol madrilena – le cose sono naturalmente molto
cambiate, sia negli assetti interni all’Unione europea, sia negli equilibri
politici tra gli «europeisti» e quelle formazioni che, un po’ per pigrizia,
continuano a essere catalogate sotto la voce «populismo» (o «neo-populismo»). E
fra i nuovi e più originali protagonisti del nuovo scenario un posto di primo
piano è naturalmente occupato da Podemos: un partito che – pur non essendone in
senso proprio una filiazione – ha trovato nel 15-M le proprie radici e che, per
molti versi, costituisce la variante più originale di un ‘populismo di
sinistra’. A rendere particolarmente interessante la vicenda di Podemos è però
la stessa genesi di questa formazione, che, per quanto possa essere intesa come
uno sviluppo ‘politico’ degli indignados,
può essere anche interpretata come il risultato di un esperimento – ancora in
fase interlocutoria, ma per ora comunque riuscito – realizzato da un ristretto
gruppo di intellettuali, alcuni dei quali giovani accademici dell’Università
Complutense di Madrid, con alle spalle esperienze più o meno durature nella
sinistra radicale.
Sull’onda delle proteste del
2011 e sulla scorta dei successi dei nuovi regimi ‘populisti’ latino-americani
(ma, in realtà, anche in seguito alla riflessione autocritica seguita alla
sconfitta elettorale patita nel 2011 dalla formazione Izquierda
Anticapitalista, nata da una costola di Izquierda Unida), il nucleo fondatore
di Podemos – ufficialmente formatosi nel novembre 2013 – iniziò a elaborare una
strategia politica basata soprattutto sulla comunicazione. Ben presto tra i
suoi esponenti prese a emergere la spiccata personalità di Pablo Iglesias
Turrión, un giovane politologo della Facoltà di Scienze politiche della
Complutense, la cui notorietà era legata in realtà – più che agli studi e
all’attività accademica – alla carriera di opinionista televisivo, avviata già
dal 2010, nella trasmissione online La
Tuerka. E proprio la figura di Iglesias è diventata da allora il perno
della comunicazione di Podemos, oltre che il pilastro di un successo che ha
condotto il nuovo partito a ottenere nelle europee del 2014 – pochi mesi dopo
la fondazione – una prima rilevante affermazione. «Ultra efficace nelle sue
comparsate televisive», come lo descrivono Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo
Spena (in un istant-book non certo parco di toni celebrativi), «carismatico,
una grande dialettica e doti da vero animale da palcoscenico, castigatore integerrimo
dei politici e delle malefatte», «amato e anche odiato universalmente: nessuno
ne ha mai messo in dubbio l’onestà personale: non poco in un paese piagato
dalla corruzione e dai comportamenti eticamente discutibili di una gran parte
dei personaggi pubblici» (Podemos. La
sinistra spagnola oltre la sinistra, Alegre, Roma, 2014, p. 69). Anche
grazie alle indiscutibili abilità comunicative del suo leader, Podemos si
definisce così come un’operazione volta a rompere esplicitamente non solo con
la sinistra spagnola (rappresentata dal Psoe e anche da Izquierda Unida), ma
soprattutto con l’iconografia del movimento socialista novecentesco, nonostante
lo stesso Iglesias non rinunci né a rivendicare il proprio passato nelle
formazioni della sinistra radicale, né a indicare in Marx, Gramsci e in altri
pensatori marxisti i propri riferimenti teorici. «Per i dirigenti di Podemos»,
ha scritto Renaud Lambert, «la sinistra si è data a lungo ad analisi astruse,
riferimenti oscuri e un vocabolario in codice», e così il primo compito del
nuovo partito «consiste nel ‘tradurre’ le posizioni tradizionali della sinistra
in discorsi capaci di ottenere la più ampia adesione: le questioni della
democrazia, della sovranità, dei diritti sociali» (Podemos, il partito che scuote la Spagna, in «Le Monde
diplomatique», gennaio 2015, p. 20).
Azione comunicativa
In un dialogo recente con il
politologo Fernando Vallespín, Iglesias è tornato sulle tappe della genesi di
Podemos e, in particolare, sul ruolo giocato dal 15-M. «In gran parte», ammette
Iglesias, «Podemos è il risultato delle preoccupazioni di un gruppo di
politologi frustrati, qualcosa che si evince nella ricercatezza dei discorsi,
nello stile di Podemos», «un gruppo di politologi provenienti dalla sinistra e
che continuamente mescolano le loro aspirazioni di militanti di sinistra con,
per dire, le proprie conoscenze teoriche che li portano al pessimismo
dell’intelligenza» (La sfida di Podemos:
teoria, prassi e comunicazione, in «Micromega», 7/2015, p. 24). Ma, a
dispetto dello scetticismo iniziale nei confronti del 15-M, in seguito il
gruppo dirigente di quello che diventerà Podemos coglie nell’insofferenza
mostra dagli indignados uno spazio
d’azione. Uno spazio che altrove viene sfruttato dal Fronte nazionale o dal
Movimento 5 Stelle, e che invece in Spagna trova in Iglesias e nel nuovo
partito che si forma attorno alla sua leadership un interlocutore. Ma ciò che
contrassegna fin dall’inizio l’operazione di Podemos – e che lo distanza in
modo netto dalla tradizione della sinistra novecentesca – è la scelta del piano
della comunicazione come terreno su cui condurre la propria battaglia. Come
riconosce nitidamente lo stesso Iglesias: «Dicevamo che i partiti politici sono
mezzi di comunicazione. La gente non milita nei partiti. La gente milita nella
radio che ascolta. Uno è della Cope, un altro è della Ser, o della Onda Cero.
Uno vota El País, La Razón, El Mundo. Oppure vota la Secta, o Telecinco, e diciamo che tutti
loro si avvicinavano a quello che Gramsci chiamava l’‘intellettuale organico’.
O interveniamo lì, o siamo politicamente morti. E intuitivamente all’inizio
abbiamo creato più che un partito politico propriamente detto uno stile di
intervento mediatico, perché non avevamo nemmeno mezzi di comunicazione a
nostra disposizione» (ibi, p. 25). In
altre parole – e su questo è difficile non riconoscergli il merito di
un’intuizione forse prima politica che puramente teorica – Iglesias rompe con
una visione consolidatasi nel corso degli ultimi trent’anni, la quale sostiene
che i partiti non sarebbero più in grado di svolgere una reale azione di
rappresentanza delle istanze della società, e secondo cui dunque la
‘forma-partito’ sarebbe inevitabilmente destinata a essere superata dalle reti
informali e dalle connessioni fluide dei movimenti. Contro questa lettura Iglesias
invece ripropone, seppur rivisitandola, l’idea che il partito sia ancora uno
strumento imprenscindibile per fare politica. Uno strumento che non può fare a
meno di una leadership, di un’organizzazione. E che proprio per questo può
riuscire a ottenere risultati politici, o meglio, «potere istituzionale». «Si è
creata la menzogna secondo cui il mondo si cambierebbe a livello micro», nota
per esempio Igleasias, «e sì, è vero, ma il fattore determinante a livello
micro è tutto quell’insieme di strutture amministrative che riguardano le
istituzioni. […] Non basta quella dinamica di militanza che conosciamo. C’è
bisogno di potere istituzionale. […] I movimenti esprimono stati d’animo,
esprimono ingredienti sociali, ma continua a essere data per scontata l’esistenza
delle disposizioni amministrative. È vero che lo Stato conta sempre meno, e che
esiste una serie di strutture amministrative sovrastatali alle quali non è
possibile accedere per via democratica, come ha ben dimostrato il movimento no
global. Ma è anche vero che le istituzioni e gli apparati statali continuano a
essere i depositari del potere, e soltanto con quel potere si possono cambiare
le cose» (ibi, p. 34).
Naturalmente è ancora molto
prematuro valutare se l’operazione tentata da Podemos sia destinata a
incontrare un duraturo successo oppure se la sua ascesa si rivelerà soltanto
una fuggevole meteora. Ma è indubbio che – pur con tutte le sue ambiguità –
l’esperimento di Podemos segna quantomeno l’esigenza di confrontarsi con quel
«potere istituzionale» che i movimenti sociali negli ultimi trent’anni hanno
per molti versi considerato come un terreno strutturalmente ‘nemico’, e persino
con la parola «partito», divenuta persino impronunciabile per generazioni
alfabetizzate alla koiné antipolitica
del XXI secolo. In qualche misura, il riconoscimento cui giunge oggi Iglesias
può essere considerato anche come l’esito di una probabilmente meditata
riflessione autocritica. Iglesias proviene infatti da una lunga militanza – che
certo non rinnega, e neppure nasconde – tra le fila di quella sinistra radicale
‘movimentista’ che, a cavallo tra i due secoli, dopo il crollo dell’Unione
Sovietica il fallimento del socialismo di Stato, fece propria la formula di
John Holloway, secondo cui era necessario, oltre che possibile, «cambiare il
mondo senza prendere il potere». Quando oggi invoca invece la necessità di
confrontarsi con il «potere istituzionale», e dunque di ‘conquistarlo’,
Iglesias riconosce in qualche modo i limiti della sua militanza giovanile. E in
questo mutamento politico non è peraltro difficile scorgere il riflesso di una
sostanziale revisione condotta sul piano teorico.
Nell’itinerario di
formazione di Iglesias, si possono riconoscere le forti presenze del pensiero
radicale italiano, in particolare del post-operaismo fissato nelle opere di
Michael Hardt e Antonio Negri. Iglesias si distacca però progressivamente da
questo impianto originario. Un fattore che influisce sulla ridefinizione
linguistica e simbolica compiuta da Podemos è probabilmente costituito dalle
esperienze di Rafael Correa in Equador, di Evo Morales in Bolivia e di Hugo
Chavez in Venezuela, e d’altronde, proprio attorno ai finanziamenti ricevuti da
alcuni dei fondatori dell’organizzazione da parte del governo venezuelano sono
nate alcune delle prime difficoltà(sul popuslimo di Correa, è da vedere per
esempio il volume di C. Formenti, Magia bianca e magia nera. Ecuador: la guerra fra
culture come guerra di classe, Jaca Book, Milano, 2014). Ma, in questa operazione
(al tempo stesso teorica e politica), hanno giocato un ruolo di mediazione
importante la teoria di Ernesto Laclau e la ridefinizione del populismo
compiuta dallo studioso argentino. Così è quasi inevitabile riconoscere uno
scarto fra le posizioni sostenute oggi da Iglesias, per esempio nel suo Democrazia anno zero. Il manifesto politico del leader di Podemos
(Alegre, Roma, 2015, euro 15.00), e l’impostazione che emerge nel suo libro più
importante, Disobbedienti. Dal Chiapas a
Madrid (Bompiani, pp. 303, euro 18.00), frutto non solo dell’esperienza di
militante, ma anche di un decennio di studi dedicati ai movimenti di critica
alla globalizzazione neoliberista.
Laboratorio italiano
Disobbedienti – un libro uscito in Spagna nel 2011 – era la rielaborazione della
tesi di dottorato di Iglesias, ma le sue pagine possono essere lette in
filigrana anche come una sorta di autobiografia di Iglesias, che iniziò a
frequentare l’Italia da studente universitario e che proprio allora iniziò a
indagare (come osservatore partecipante) le modalità organizzative e
comunicative della sinistra radicale italiana, e in particolare le pratiche di
«disobbedienza» delle Tute bianche. Proprio per il debito maturato nei
confronti di queste esperienze, l’edizione spagnola del volume (così come oggi
quella italiana) era aperta da una prefazione di Luca Casarini, che di quel
movimento fu a lungo il portavoce e l’esponente più noto. Al tempo stesso, nel
libro Iglesias delineava una genealogia, che, partendo dall’Italia, giungeva
sino a Madrid e al 15 maggio 2011, perché una delle tesi chiave del testo – una
tesi peraltro al cuore di molti dei primi lavori pubblicati da Iglesias – era
che ci fosse una filiazione diretta tra le sperimentazioni comunicative della
«Disobbedienza italiana» e le forme di azione degli «indignados» madrileni. In
altre parole, secondo Iglesias, quella generazione di giovani militanti che
aveva conosciuto i movimenti italiani, ne aveva ‘importato’ in Spagna le
modalità d’azione e i temi principali.
La prolungata frequentazione
dell’Italia da parte di Iglesias trapelava d’altronde anche dai riferimenti
teorici (in realtà piuttosto parchi) di Disobbedienti,
tra cui non poteva mancare Empire di
Michael Hardt e Antonio Negri. E non era così affatto sorprendente che il
giovane ricercatore spagnolo utilizzasse l’espressione «potere costituente» per
indicare il filo conduttore legava i movimenti italiani al 15M. Come scriveva
lo stesso Iglesias nell’introduzione al volume, l’obiettivo che si proponeva
consisteva nell’analizzare «l’impatto di una serie di tecniche di azione
collettiva comunicativa nate in Italia e il tentativo, da parte di un gruppo di
giovani militanti del Movimiento de Resistencia Global de Madrid, di adattarle
alla propria realtà e di configurarle come strumento per l’azione politica e la
comunicazione» (p. 19). L’indagine sui legami che stingevano queste due
esperienze era però collocata nel quadro di una prospettiva più ambiziosa, che
puntava a ricostruire la genesi di un movimento che superava la dimensione
nazionale, ossia – come scriveva Iglesias - «di un attore politico
postnazionale, molteplice ed eterogeneo, partendo dall’analisi delle forme di
azione collettiva di alcuni collettivi disobbedienti italiani e madrileni, in
scenari europei tra il 2000 e il 2004» (p. 23).
Se buona parte del volume
era dedicata a un periodo compreso tra il 1999 e il 2004 – ossia, dalla
contestazione del vertice di Seattle fino alle mobilitazioni madrilene del 2003
e alle dimostrazioni seguite agli attentati dell’11 marzo 2004 (dimostrazioni
che accompagnarono la sconfitta clamorosa di Aznar alle elezioni di alcuni
giorni dopo) – Iglesias concludeva però l’analisi di Disobbedienti guardando agli indignados
comparsi sulla scena nel marzo 2011, e soprattutto rilevando una linea di
continuità tra le proteste contro la guerra in Iraq e le nuove mobilitazioni:
«Ciò che abbiamo visto negli ultimi mesi in Spagna con il movimento 15M è
praticamente la creazione della politica costituente (come alternativa a quella
rappresentativa), concretizzata nelle pratiche di disobbedienza. Per quella
generazione di giovani attivisti era necessario reinventare le forme e i
simboli della politica e la Disobbedienza italiana fu un esperimento in quel
senso. […] I Disobbedienti scoprirono un meccanismo politico di produzione di
un senso in accordo con questi tempi dominati dalle tecnologie della
comunicazione. Furono capaci di creare simboli (cruciali nelle narrative di
tutti i movimenti sociali che hanno dimostrato successo) e che, nel bene o nel
male, si sono dimostrati storicamente indispensabili al successo dell’azione
collettiva» (p. 276). In questa valutazione, è facile intravedere, seppur solo
in filigrana, le tracce di un mutamento non secondario intervenuto
nell’impianto teorico di Iglesias, che evidentemente oggi non è più – e che
forse non era già più neppure nel momento in cui Disobbedienti usciva – quello ereditato dal ‘post-operaismo’
italiano. A ben guardare, infatti, anche termini come «moltitudine» o «potere
costituente», che pure compaiono nelle pagine di Disobbedienti, possono essere considerati più come l’effetto della
sedimentazione di una stagione politica per molti versi conclusa, che come il
segnale di un’eredità teorica rivendicata.
Nonostante Iglesias abbia
riconosciuto in più occasioni il debito maturato nei confronti del
post-operaismo italiano e dello stesso Negri (cui peraltro Iglesias ha di
recente dedicato una lunga intervista, all’interno di un suo programma
televisivo), i suoi riferimenti sembrano oggi altri, e cioè teorici come Perry
Anderson, Immanuel Wallerstein e soprattutto Gramsci, o, meglio, il pensiero di
Gramsci riletto (e certo semplificato) da Ernesto Laclau. E un simile
riorientamento non è affatto secondario, perché, per molti versi, viene a
rovesciare una delle tesi cruciali della riflessione ‘post-operaista’. Da
almeno quarant’anni (e cioè da quando era impegnato in una battaglia
teorico-politica contro il Pci di Berlinguer e la sua ipotesi del «compresso
storico»), Negri infatti sostiene che la «società civile» è scomparsa. E con
questo intende dire che è scomparso quel terreno ‘relativamente autonomo’ di
mediazione (politica e culturale) in cui Gramsci aveva situato la lotta per la
conquista dell’«egemonia»: quello stesso terreno, dunque, in cui la social-democrazia
aveva storicamente cercato i margini per un’azione riformatrice, e in cui il
Pci degli anni Settanta aveva puntato a trovare le condizioni per una riforma
generale della società italiana. «Nel nostro tempo», si legge d’altronde in Impero, «la società civile non è più un
adeguato terreno di mediazione tra il capitale e la sovranità» (M. Hardt – A.
Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002,
p. 306). E proprio in questo senso Hardt e Negri scrivevano, ormai quindici
anni fa: «Le rappresentazioni del politico come una sfera autonoma in grado di
organizzare il consenso e come luogo di mediazione dei conflitti tra le forze
sociali oggi non hanno più molto senso. Il consenso viene determinato assai più
efficacemente da fattori economici, come gli equilibri delle bilance
commerciali e la speculazione sui valori dei titoli. Il controllo su questi
movimenti non è più nelle mani delle forze politiche a cui viene
tradizionalmente attribuita la sovranità, e il consenso non è più il prodotto
dei processi politici, bensì di altri mezzi. Il governo e la politica stanno
per essere completamente integrati nel sistema del comando globale. I controlli
vengono ormai articolati attraverso una serie di corpi e funzioni
internazionali. E questo vale anche per le tecniche della mediazione politica,
le quali operano applicando le categorie della mediazione burocratica e della
sociologia manageriale e non agiscono più in base alle tradizionali coordinate
politiche della mediazione dei conflitti e della composizione degli antagonismi
di classe. Non è tanto la politica che scompare, quanto piuttosto qualsiasi
nozione della sua autonomia» (ibi, p.
288).
Il discorso articolato da
Iglesias – come, in generale, dagli intellettuali che hanno dato vita a Podemos
– non si limita a discostarsi da quello che Hardt e Negri svolgevano in Impero, ma ne contesta proprio il punto
fondamentale, ossia l’idea che il terreno della mediazione politica non sia più
centrale. E proprio in questo senso Iglesias si volge oggi all’«egemonia» di
Gramsci, rivisitata da Laclau. Sulla scorta di Laclau, Iglesias presenta
infatti Podemos come una forma di «populismo» di sinistra, ossia come
un’esperienza politica diretta a conquistare un’«egemonia» che si colloca
prevalentemente sul piano simbolico e comunicativo. Nel suo Democrazia anno zero, Iglesias scrive
per esempio che «Gramsci aveva compreso che il potere delle classi dominanti
non solo viene esercitato tramite strumenti coercitivi, m anche tramite
strumenti culturali come il controllo del sistema educativo, della religione e
dei mezzi di comunicazione e che, quindi, la cultura, è un terreno cruciale
della lotta politica» (Democrazia anno
zero, cit., p. 60). E proprio in questo senso aggiunge: «Il grande
dispositivo mediatico del nostro tempo […] è la televisione», perché proprio
quest’ultima «modella la nostra sensibilità estetica, le nostre opinioni
politiche, condiziona il nostro svago e intrattenimento, ci ‘insegna’ il
significato delle parole, ci dice (quasi sempre in maniera più implicita che
esplicita) che la parola antisistema ha una connotazione quasi ‘criminale’ e
che la parola ‘mercato’ non ha niente a che fare con i colpi dello Stato» (pp. 60-61).
I segnali di questa svolta
‘comunicativa’ erano d’altronde già evidenti quando nel 2011 Iglesias
licenziava Disobbedienti (e forse
anche una stagione della propria militanza politica). Il merito che già allora
Iglesias riconosceva alla «Disobbedienza italiana» era infatti solo un merito
‘estetico’, un merito che consisteva cioè nell’aver sviluppato tecniche
comunicative efficaci. E in questo il ragionamento di Iglesias era già davvero
‘laclausiano’: le identità collettive (nazionali, etniche, popolari), osservava
infatti, sono necessarie per l’azione politica, ma «buona parte dei fondamenti
di tali identità sono miti» che non resisterebbero a un serio esame storico; e
proprio in questa direzione, il vero merito della «Disobbedienza italiana» è di
essere stata in grado «di ricreare e ridefinire miti per agire dove c’è il
potere, al di là dello stato» (p. 277). «Pochi gruppi», prosegue Iglesias, «hanno
compreso così bene le chiavi dell’azione nella società dello spettacolo come i
Disobbedienti», e di questa esperienza vengono così valorizzati «il
rinnovamento estetico e simbolico espresso nelle […] forme di azione e nei […]
discorsi», oltre he «il rinnovamento nella produzione delle narrative», «una
condizione di possibilità per i movimenti antagonisti del presente» (P.
Iglesias Turrión, Disobbedienti,
cit., p. 277).
In questo stesso senso,
nell’epilogo al volume di Iglesias, Iñigo Errejón Galván – forse l’esponente di
Podemos che più si è impegnato nella costruzione di una riflessione teorica –
viene a configurare esplicitamente il movimento degli indignados come l’esempio di una lotta «egemonica», ossia di un
conflitto che, recependo le indicazioni ‘stilistiche’ (e non teoriche) della
«Disobbedienza italiana», ha puntato costruire nuove identità politiche e nuove
linee di divisione: «Il 15M deve gran
parte della sua forza al fatto di avere generato un’identità politica nuova,
che spariglia gli allineamenti esistenti e ha la capacità di articolare
simpatie e solidarietà relativamente trasversali. […] A partire
dall’identificazione di casi particolari che illustrano un problema collettivo,
il movimento è in grado di politicizzare le carenze concrete e, fino a ora,
vissute individualmente. Poi però traccia, a partire da quelle, una frontiera
che è tanto più forte di quello che si pretende, e può presentarsi come non
ideologica: la grande maggioranza, sempre più condannata alla precarietà e
privata di cittadinanza politica da una piccola casta corrotta e inefficace che
sacrifica i diritti collettivi e la sovranità popolare ai ricatti dei mercati»
(Errejón Galván, La disobbedienza come
gesto per una politica audace, ibi,
p. 285). La logica che Errejón descrive è esattamente quella che, secondo
Laclau, caratterizza la nascita di un «populismo», ossia di un movimento
politico che nasce a partire dalla ‘costruzione’ simbolica di un «popolo»
(contrapposto ai suoi nemici). E così il movimento degli indignados può essere raffigurato come un soggetto che prende forma
nel momento in cui inizia a condurre la propria battaglia per la conquista
dell’«egemonia»: «Il 15M», scrive infatti Errejón, «combatte così,
fondamentalmente, una battaglia che Gramsci aveva denominato ‘guerra di posizione’:
la disputa per rompere l’aura di naturalità che circonda l’ordine esistente, le
sue istituzioni e i risultati, disarticolare l’ampio blocco che unisce
governati e governatori [sic], e
costruisce una ‘volontà di scissione’ di questi ultimi, un noi con capacità destituente e costituente, di nominarsi ed,
eventualmente, governarsi» (p. 286).
Naturalmente il futuro
prossimo di Podemos non dipenderà tanto dalla coerenza dei propri presupposti
teorici, quanto dall’abilità comunicativa dei suoi leader, e da questo punto di
vista è difficile non riconoscere lo straordinario talento di Pablo Iglesias,
un leader davvero capace di ‘bucare lo schermo’, oltre che di cogliere i rischi
che provengono dall’attaccamento alle identità settarie proprie di molti esponenti
della nuova formazione politica (rischi che stanno affiorando soprattutto in
relazione all’impegno amministrativo dei nuovi sindaci di Madrid e Barcellona,
che non sono in realtà espressione di Podemos, ma di una coalizione più ampia).
Ma forse non è improbabile che Iglesias debba tornare a riesaminare nuovamente
– come politico, prima che come teorico – la vecchia questione della fine della
«società civile» (e dell’autonomia della sfera della mediazione), una questione
che, in seguito alla svolta ‘comunicativa’ dal ‘post-operaismo’ a Gramsci, è
stata più ‘rimossa’ che realmente superata. Perché se Iglesias e Podemos hanno
un merito, questo consiste nell’aver collocato nuovamente al centro la ricerca
di un’«autonomia del politico», e cioè di una sfera di autonomia ‘simbolica’
della politica, nella quale si formano le identità collettive e in cui si
condensa la ‘materia prima’ di ogni conflitto. L’aver riconosciuto questa
«autonomia» - sulla scorta di Gramsci, ma soprattutto di Laclau – non può però
autorizzare a ‘liquidare’ il nodo dell’«autonomia» dello Stato, e cioè il nodo
dell’autonomia (reale o potenziale) delle istituzioni statali tanto dalle
dinamiche ‘economiche’ del capitalismo contemporaneo, quanto dai meccanismi
‘politici’ sovranazionali ed europei. Ed è d’altronde proprio in relazione a
queste due dimensioni che sarà possibile capire quali siano davvero le risorse
che l’«egemonia» conquistata sul terreno simbolico potrà far pesare sulla
realtà materiale dei rapporti di forza. Perché solo dinanzi alla prova del
potere ‘materiale’ sarà possibile capire se la «guerra di posizione» di cui
parlano Iglesias e Errejón rimarrà confinata al palcoscenico della politica
spettacolo, o sarà invece capace di influire su quella trama di vincoli e
poteri in cui è racchiusa la vita individuale di ogni singolo cittadino. E se
l’«egemonia» che Podemos punta a conquistare non sia in realtà altro che uno storytelling radicale.
Damiano Palano