di Luca Miele
Questa recensione di Luca Miele a Damiano Palano, La democrazia senza partiti (Vita e
Pensiero), è apparsa su “Avvenire” del 2 ottobre 2015.
Un fantasma si aggira nelle democrazie occidentali: è ciò
che resta del partito di massa. Dove una volta si ergeva una sorta di Leviatano
capace di nutrire l’ambizione di farsi esso stesso nazione, oggi si incontra il
suo doppio esangue. Il tragitto di questo protagonista indiscusso del Novecento
è innanzitutto tipologico: da struttura elefantiaca, burocratizzata, il partito
di massa è caratterizzato da una ‘veste’ leggera, volatile , liquida,
emozionale, personale. Ma qual è oggi il ruolo dei partiti nelle democrazie
occidentali? Andiamo verso una
democrazia senza partiti? La retorica dell’anti-politica ne decreterà per
sempre la fine (ingloriosa)? O, al contrario, già oggi essi si trasformano,
reggono all’urto dei cambiamenti, tentano nuove strade, resistono, si procurano
nuove identità? Damiano Palano ricostruisce con grande finezza interpretativa
la parabola del partito di massa, ricostruendo “le sequenze di un lungo
processo che ha condotto le macchine politiche novecentesche a modificarsi
notevolmente per tentare di intercettare elettori sempre più sfuggenti,
volubili e insoddisfatti ma anche per garantirsi una sopravvivenza e un ruolo
in una società profondamente diversa da quella che li aveva visti nascere e
crescere” (D. Palano, La democrazia senza partiti, Vita e Pensiero, euro 12.00). Perché, nonostante il de
profundis intonato da più parti, i partiti – pur congedatisi dalle vecchie
forme organizzative – continuano a prosperare grazie al ‘salto’ che li ha
trasformati in “agenzie specializzate dello Stato”. Ma se questo è lo scenario,
qual è la causa che ha portato all’erosione della base dei partiti di massa, e
al progressivo esaurirsi di quelle spinte ideali, aggreganti, emozionali che ne
facevano dei catalizzatori della scena politica? Per Palano “Il vero deficit di
cui soffrono i partiti – non solo in Italia – non è relativo tanto alla
funzione di rappresentanza degli interessi, quanto alle capacità di ‘plasmare’
politicamente la società”. Una perdita legata indissolubilmente a una mutazione
storico-antropologica che lo studioso giudica ormai come definitiva,
irreversibile. È lo svuotarsi dell’“immaginario
progressista che ha segnato – pur con tutte le sue tragedie – il Novecento, e
al quale nel ‘secolo breve’ si sono alimentati tutti i grandi partiti di massa”.
Ebbene questo orizzonte era dischiuso dalla convinzione che vi fosse “nel
futuro prossimo o più lontano, qualcosa di meglio rispetto al passato e al
presente, un miglioramento al tempo stesso individuale e collettivo”. Tutto
questo, oggi, non c’è più. La grande passione, la chiamata al cambiamento, al
capovolgimento, alla palingenesi si è spenta. Con essa si è modificata anche la
democrazia stessa: essa “non identifica più un progetto di trasformazione
sociale e politica, ma solo un progetto (o un vago desiderio) di
conservazione). Anche il progresso, verso cui tendevano idealmente i partiti, “può
essere concepito solo nei termini di una dilatazione delle condizioni di
benessere presenti, come un’estensione delle potenzialità di consumo e come un
allungamento della durata media della vita”. In questo panorama, è la
conclusione di Palano, i partiti hanno smarrito la capacità “di dare forma alla
società”.
Luca Miele
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