di Velania
La Mendola
«Non
stupiamoci, i partiti nella storia occidentale hanno sempre avuto una pessima
fama. Solo nel dopoguerra il partito è stato percepito come qualcosa di
positivo». È lo sguardo realistico e disincantato dello studioso quello che
Damiano Palano tiene di fronte a una materia sempre incandescente come quella
della politica nella veste dei partiti.
Docente di
Scienza politica e Storia del pensiero politico all’Università Cattolica, in
questi giorni Palano ha dato alle stampe per Vita e Pensiero il suo ultimo
volume, La democrazia senza partiti. Un libro in cui ci invita a non
stupirci di fronte a quello che succede alle formazioni politiche, associate da
molti a parole negative.
«La loro
fama negativa è atavica, legata al portare disordini, alle guerre e ai
conflitti - afferma -. Ma la retorica antipolitica tende a semplificare la
realtà, anche se questo non impedisce di notare che una degenerazione c’è e
tocca tutto il mondo occidentale perché il distacco dai partiti riguarda tutte
le democrazie occidentali».
Quali sono
le cause di questa disaffezione? «Le possiamo trovare nei vari fenomeni culturali che
hanno annullato le identità dei partiti, così come nella disillusione sui
grandi leader. Certo, la corruzione percepita dipende anche dalla esposizione
mediatica di alcuni scandali. La vicenda italiana degli ultimi 25 anni racconta
una metamorfosi ideologica in cui la rete organizzativa si è indebolita. Non
c'è più un vertice, esiste l’idea del partito in franchising in cui il
centro, fortemente personalizzato, controlla la comunicazione del “marchio” a
livello nazionale, mentre il personale politico locale gode di ampia autonomia
e di specifiche forme di clientelismo. Il caso romano ne è una dimostrazione».
Nel libro
scrive che l’ideologia non c’è più ma serve ancora, però è diventata liquida,
come l’identità dei partiti. Significa che si stanno dissolvendo? «I partiti hanno cambiato struttura
ma forse il cambiamento è d'identità, non più ideologico. Di fatto devono
ancora convincere gli elettori ad andare a votare dimostrando che esistono
differenze tra l’uno e l’altro. Se portano progetti diversi dovrebbero avere
identità diverse».
E cosa fanno
per differenziarsi? «Cercano di
costruire un legame emotivo basato non su una passione duratura, ma su grandi
eventi mediatici, sfruttando le crisi del momento e l'onda emotiva. Per questo
si parla tanto di storytelling: raccontare una storia affascinante che
però vale solo per un certo momento e per un certo candidato. Parlo di partito
liquido per questo: non si squagliano e non si alleggeriscono, ma sono in
costante mutamento. Come vuole il marketing contemporaneo non possono non
farlo, ma l’identità così diventa fluida».
In questo
gioca un ruolo ancora fortissimo il sistema dei media. Sposta opinioni o è solo
un circuito chiuso che parla a se stesso? «Il dibattito politico in Tv probabilmente non
riguarda più le grandi masse, ma in realtà funziona ancora per consolidare le
opinioni comuni. È un dato di fatto, per esempio, che il dibattito sull'euro e
sulla Grecia si è costruito su due-tre frame che hanno condizionato tutta la
discussione. Inoltre negli ultimi quattro anni i fenomeni politici sono nati
dai media. Il Movimento 5 Stelle ha beneficiato della propaganda in negativo,
dell’assenza messa in evidenza; Renzi vince per la presenza comunicativa e
grazie a questa ha scalato il Pd; Salvini ha ricostruito un partito con le
apparizioni in Tv».
I partiti, a
dispetto della loro scarsa popolarità, «sono oggi più forti e ricchi che mai,
grazie al fatto che si sono trasformati in agenzie dello Stato». Cosa vuol
dire? «Hanno meno
iscritti e una reputazione pessima ma selezionano il personale politico, che è
sempre meno radicato nella società ma sempre più dentro lo Stato. Chi faceva
parte di un partito era un funzionario di partito fino agli anni ’80. Oggi
essere segretario di sezione o segretario di partito vuol dire occupare una
posizione amministrativa (sindaco, consigliere ecc.). Non è sparita la classe
politica ma da funzionari stipendiati dai partiti oggi sono incardinati
direttamente nelle istituzioni pubbliche.
In pratica,
cosa succede? «Per
esempio, un piccolo leader locale non combatte la propria battaglia per
ascendere alle gerarchie più alte nel congresso del partito, ma si costruisce
una squadra con i collaboratori che ha scelto come dipendenti
dell'amministrazione locale. Un leader ha così una squadra indipendente dal
partito che permette di raggiungere obiettivi di visibilità e intessere
relazioni con gruppi rilevanti per costruire una carriera politica. Il tutto
grazie alle risorse dello Stato».
Possiamo
ipotizzare un futuro senza partiti, come sembra presupporre il titolo del suo
libro? «Anche fra
venti anni parleremo di partiti così come se ne parla ancora negli Stati Uniti.
Etichetteremo però con quella parola qualcosa che con il partito novecentesco
non c’entra più. Saranno dei comitati che selezioneranno un candidato in vista
di un’elezione. Ci sarà ancora una visione che permetta di differenziare gli
uni dagli altri, ma nelle modalità liquide che abbiamo visto».
Velania La Mendola
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