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martedì 29 settembre 2015

L’altro Illuminismo di Mario Sina. Raccolti in volume gli "Studi su Locke e altri pensatori cristiani agli albori del secolo dei lumi"



di Damiano Palano

Questa segnalazione del volume di Mario Sina, Studi su John Locke e su altri pensatori cristiani agli albori del secolo dei lumi (Vita e Pensiero, pp. 778, euro 50.00), è apparsa su "Avvenire" del 13 agosto 2015.

Come molti protagonisti dell’Illuminismo Voltaire non negò mai il proprio debito intellettuale nei confronti di John Locke. In alcune pagine autobiografiche scrisse addirittura di essere tornato, «dopo tanto vagabondare, stanco, estenuato e vergognoso» , all’opera del filosofo britannico. E, soprattutto, di aver trovato tra le braccia dell’autore del Saggio sull’intelletto umano «le braccia di un uomo modesto, che non finge mai di sapere quel che non sa, che non possiede, a dire il vero, immense ricchezze, ma i cui fondi sono sicuri, e che gode senza ostentazione dei più solidi beni». Proprio simili dichiarazioni hanno spesso indotto a intravedere nella riflessione di Locke una sorta di anticipazione della difesa della tolleranza che Voltaire avrebbe trasformato nel vessillo della propria battaglia. E hanno spesso invitato a riconoscere (o a presupporre) anche nelle pagine di Locke il precursore di quello scetticismo teologico di cui il filosofo francese sarebbe diventato il portabandiera. In questa operazione si è però finito col dimenticare il contesto storico e politico in cui Locke maturò la propria difesa della tolleranza. E, soprattutto, si sono in larga parte recise le radici di un pensiero che affondava invece nel dibattito teologico su fede e ragione del XVII secolo. Col risultato di fornire un’immagine distorta o incompleta non solo di Locke, ma di un’intera stagione intellettuale.
Per molti versi l’indagine meticolosamente condotta da Mario Sina nel corso di mezzo secolo può essere invece considerata come un’impresa volta a restituire la complessità dell’Illuminismo. E in particolare a portarne in superficie le matrici cristiane. Ora che alcuni dei suoi scritti sono raccolti nel volume Studi su John Locke e su altri pensatori cristiani agli albori del secolo dei lumi (Vita e Pensiero, pp. 778, euro 50.00), il lettore può cogliere per intero la coerenza della ricerca di Sina, laureatosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore alla metà degli anni Sessanta e poi, a partire dal 1984, docente di Storia della filosofia nello stesso Ateneo. 
Partito dallo studio di Francois-Marie Arouet, detto Voltaire, Sina non ha mai cessato di indagare quella cruciale fase del pensiero occidentale compresa tra la seconda metà del Seicento e gli albori del Secolo dei lumi. Si è così dedicato alle personalità di Jean Le Clerc, Pierre Bayle, Isaac Papin, Claude Pajon, concentrandosi però proprio su Locke e sulle dimensioni teologiche del suo pensiero.
Ancora studente al Christ Church College di Oxford, fra il 1660 e il 1662, il giovane Locke aveva sostenuto che la sfera religiosa non dovesse essere separata da quella politica. Per questo aveva dunque riconosciuto al monarca un ruolo di conservator pacis anche per le questioni religiose. In seguito, nel Saggio sulla tolleranza, avrebbe invece sostenuto una posizione molto diversa. Perché avrebbe affermato il diritto inalienabile all’autodeterminazione del singolo anche nel campo dell’espressione della fede, negando dunque qualsiasi competenza in materia religiosa da parte dei magistrati. Una simile argomentazione – come mostrano con grande rigore gli scritti di Sina – giungeva a Locke dalla Theologia christiana di Filippo di Limbroch, e più in generale dai Rimostranti e dai teologi latitudinari inglesi, che sostenevano la separazione del dominio politico da quello religioso. Le radici teologiche di Locke risultavano d’altronde ancora più evidenti nel Saggio sull’intelletto umano, in cui davvero lo sguardo del filosofo britannico appariva molto distante dallo scetticismo di Voltaire. Ed è proprio per la capacità di fare luce su queste differenti matrici che ognuna delle preziose indagini di Sina rimane un tassello fondamentale per ricostruire la complessità e le ambivalenze della filosofia dei lumi.

Damiano Palano

venerdì 25 settembre 2015

"La democrazia senza partiti" di Damiano Palano. Ora disponibile nelle migliori librerie!



Damiano Palano
La democrazia senza partiti
Vita e Pensiero
Collana «Le nuove bussole»
pp. 136, euro 12.00

Travolti dall'onda della personalizzazione della politica e dai ritmi della società dello spettacolo, i partiti hanno ormai modificato il loro volto e sono irrimediabilmente distanti dalle macchine politiche novecentesche. Oggi i partiti sembrano a molti soltanto maschere che celano, maldestramente, interessi di piccole e grandi consorterie, presenze fantasmatiche senza più consistenza, destinate a rimanere tra le memorie di un mondo definitivamente perduto. Ci sarà, dunque, una democrazia senza partiti? Saranno direttamente i cittadini a incidere sulle scelte politiche senza l'intermediazione di strutture organizzate? O, piuttosto, dovremo fare i conti con una nuova modalità di partito, più leggera e fluida, in grado di intercettare i mutamenti nelle domande della società e dei suoi settori? Sono gli interrogativi che muovono le riflessioni di Damiano Palano. La sua ricostruzione del processo di trasformazione delle 'gabbie d'acciaio' del XX secolo verso i partiti 'liquidi' odierni e futuri porta in primo piano il cuore del problema: dare sostanza reale a quell'oggetto misterioso e inafferrabile che siamo soliti chiamare 'democrazia europea'.


Indice

Introduzione

I. La macchina del Novecento

1. Gabbie d’acciaio
2. Metamorfosi
3. Dentro lo Stato


II. Al tramonto

1. Un secolo breve
2. La democrazia dello spettacolo
3. Requiem


III. Piccoli principi

1. Macchine senza passione
2. Nella crisi
3. Un deficit simbolico


Conclusione
Un partito liquido?

Bibliografia

martedì 22 settembre 2015

Quanto costa la «grande illusione» della guerra? Un volume di Renata Allio su "Gli economisti e la guerra"



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Renata Allìo, Gli economisti e la guerra (Rubbettino, euro 19.00), è apparsa su "Avvenire" il giorno 1 agosto 2015.

Nel 1910 il giornalista britannico Norman Angell dava alle stampe La grande illusione, un libro oggi dimenticato, eppure destinato allora a vendere milioni di copie in tutta Europa. In quel saggio Angell intendeva gettare le basi per uno studio della politica internazionale fondato sull’analisi dei mutamenti economici intervenuti nell’Ottocento. La tesi di Angell – semplice quanto fulminante – era che la guerra fosse ormai solo una “grande illusione”. Se infatti nel passato il ricorso alle armi aveva rappresentato uno strumento per migliorare la posizione di uno Stato, la situazione era ormai radicalmente mutata. La crescita del commercio internazionale e l’interdipendenza economica avevano reso la guerra del tutto anacronistica. In un quadro segnato da un’elevata interdipendenza, la devastazione dell’economia di un Paese nemico avrebbe avuto effetti disastrosi anche sulla stabilità finanziaria della stessa potenza conquistatrice. E proprio per questo il giornalista invitava i propri concittadini ad accantonare il timore che la Germania potesse muovere guerra alla Gran Bretagna.
Probabilmente non è un caso che il libro di Angell sia oggi quasi del tutto dimenticato. E non è sorprendente che La grande illusione sia per molti solo il titolo del grande film in cui Jean Renoir fissò magistralmente l’insensatezza della guerra. Solo quattro anni dopo l’uscita del saggio, lo scoppio del primo conflitto mondiale dimostrò infatti che l’ottimismo di Angell – il quale ottenne comunque nel 1933 il Nobel per la Pace – era stato quantomeno eccessivo. Proprio la tragedia della Grande guerra rafforzò però i tentativi di dare avvio a uno studio ‘scientifico’ della politica internazionale. A questi tentativi, come mostra Renata Allìo nel suo recente Gli economisti e la guerra (Rubbettino, pp. 297, euro 19.00), hanno dato un contributo significativo anche gli studi economici. Non è forse casuale, comunque, che nel volume di Allìo buona parte dell’attenzione sia riservata alle classiche posizioni del mercantilismo e alla discussione sull’imperialismo condotta nei primi decenni del XX secolo.
Come scrive infatti Allìo, ancora oggi «i neoclassici, tuttora il mainstream della disciplina, soprattutto a livello accademico, continuano a ignorare puramente e semplicemente la guerra». Certo – come segnala opportunamente Allìo – anche di recente autorevoli studiosi, come per esempio Gordon Tullock e Thomas Shelling, si sono interessati a dimensioni specifiche della guerra, e non manca neppure un campo di studi dedicato esplicitamente all’«economia della pace». Eppure il grande nodo della guerra continua a rimanere marginale nelle riflessioni economiche. Senza dubbio si può in parte spiegare un simile disinteresse ricorrendo alla specificità disciplinare e alla parcellizzazione del lavoro che opera anche nel campo delle scienze umane. Ma probabilmente anche oggi per molti economisti, come un secolo fa per Angell, la guerra è un fenomeno reso obsoleto dall’integrazione economica. Purtroppo non è così. La cronaca ci conferma anzi che per molte aree del pianeta si tratta di una realtà drammatica. Una realtà di cui per questo è più che mai necessario indagare le cause (anche economiche). E che sarebbe quantomeno ingenuo relegare frettolosamente tra i cascami della storia.

mercoledì 16 settembre 2015

La politica tra brand, franchising e storytelling. “La democrazia senza partiti”. Il 17 settembre in libreria


di Velania La Mendola
 
«Non stupiamoci, i partiti nella storia occidentale hanno sempre avuto una pessima fama. Solo nel dopoguerra il partito è stato percepito come qualcosa di positivo». È lo sguardo realistico e disincantato dello studioso quello che Damiano Palano tiene di fronte a una materia sempre incandescente come quella della politica nella veste dei partiti.
Docente di Scienza politica e Storia del pensiero politico all’Università Cattolica, in questi giorni Palano ha dato alle stampe per Vita e Pensiero il suo ultimo volume, La democrazia senza partiti. Un libro in cui ci invita a non stupirci di fronte a quello che succede alle formazioni politiche, associate da molti a parole negative.

«La loro fama negativa è atavica, legata al portare disordini, alle guerre e ai conflitti - afferma -. Ma la retorica antipolitica tende a semplificare la realtà, anche se questo non impedisce di notare che una degenerazione c’è e tocca tutto il mondo occidentale perché il distacco dai partiti riguarda tutte le democrazie occidentali».
Quali sono le cause di questa disaffezione? «Le possiamo trovare nei vari fenomeni culturali che hanno annullato le identità dei partiti, così come nella disillusione sui grandi leader. Certo, la corruzione percepita dipende anche dalla esposizione mediatica di alcuni scandali. La vicenda italiana degli ultimi 25 anni racconta una metamorfosi ideologica in cui la rete organizzativa si è indebolita. Non c'è più un vertice, esiste l’idea del partito in franchising in cui il centro, fortemente personalizzato, controlla la comunicazione del “marchio” a livello nazionale, mentre il personale politico locale gode di ampia autonomia e di specifiche forme di clientelismo. Il caso romano ne è una dimostrazione».
Nel libro scrive che l’ideologia non c’è più ma serve ancora, però è diventata liquida, come l’identità dei partiti. Significa che si stanno dissolvendo? «I partiti hanno cambiato struttura ma forse il cambiamento è d'identità, non più ideologico. Di fatto devono ancora convincere gli elettori ad andare a votare dimostrando che esistono differenze tra l’uno e l’altro. Se portano progetti diversi dovrebbero avere identità diverse».
E cosa fanno per differenziarsi? «Cercano di costruire un legame emotivo basato non su una passione duratura, ma su grandi eventi mediatici, sfruttando le crisi del momento e l'onda emotiva. Per questo si parla tanto di storytelling: raccontare una storia affascinante che però vale solo per un certo momento e per un certo candidato. Parlo di partito liquido per questo: non si squagliano e non si alleggeriscono, ma sono in costante mutamento. Come vuole il marketing contemporaneo non possono non farlo, ma l’identità così diventa fluida».
In questo gioca un ruolo ancora fortissimo il sistema dei media. Sposta opinioni o è solo un circuito chiuso che parla a se stesso? «Il dibattito politico in Tv probabilmente non riguarda più le grandi masse, ma in realtà funziona ancora per consolidare le opinioni comuni. È un dato di fatto, per esempio, che il dibattito sull'euro e sulla Grecia si è costruito su due-tre frame che hanno condizionato tutta la discussione. Inoltre negli ultimi quattro anni i fenomeni politici sono nati dai media. Il Movimento 5 Stelle ha beneficiato della propaganda in negativo, dell’assenza messa in evidenza; Renzi vince per la presenza comunicativa e grazie a questa ha scalato il Pd; Salvini ha ricostruito un partito con le apparizioni in Tv».
I partiti, a dispetto della loro scarsa popolarità, «sono oggi più forti e ricchi che mai, grazie al fatto che si sono trasformati in agenzie dello Stato». Cosa vuol dire? «Hanno meno iscritti e una reputazione pessima ma selezionano il personale politico, che è sempre meno radicato nella società ma sempre più dentro lo Stato. Chi faceva parte di un partito era un funzionario di partito fino agli anni ’80. Oggi essere segretario di sezione o segretario di partito vuol dire occupare una posizione amministrativa (sindaco, consigliere ecc.). Non è sparita la classe politica ma da funzionari stipendiati dai partiti oggi sono incardinati direttamente nelle istituzioni pubbliche.
In pratica, cosa succede? «Per esempio, un piccolo leader locale non combatte la propria battaglia per ascendere alle gerarchie più alte nel congresso del partito, ma si costruisce una squadra con i collaboratori che ha scelto come dipendenti dell'amministrazione locale. Un leader ha così una squadra indipendente dal partito che permette di raggiungere obiettivi di visibilità e intessere relazioni con gruppi rilevanti per costruire una carriera politica. Il tutto grazie alle risorse dello Stato».
Possiamo ipotizzare un futuro senza partiti, come sembra presupporre il titolo del suo libro? «Anche fra venti anni parleremo di partiti così come se ne parla ancora negli Stati Uniti. Etichetteremo però con quella parola qualcosa che con il partito novecentesco non c’entra più. Saranno dei comitati che selezioneranno un candidato in vista di un’elezione. Ci sarà ancora una visione che permetta di differenziare gli uni dagli altri, ma nelle modalità liquide che abbiamo visto».
Velania La Mendola

domenica 6 settembre 2015

L’ordine difficile in un mondo senza saggezza. "Ordine mondiale" di Henry Kissinger



di Damiano Palano


Nel 1954 l’allora ventisettenne Henry Kissinger discusse all’Università di Harvard la propria tesi di laurea, dal titolo quantomeno ambizioso The Meaning of History. Probabilmente fu Carl Joachim Friedrich, uno dei principali esponenti della scienza politica postbellica, a indirizzare l’allievo verso un tema così affascinante come il “significato della storia”. Alla base di quella scelta stava la convinzione che i meccanismi della trasformazione storica andassero ricercati nello scontro tra la necessità e la libertà, intesa come la spinta che induce l’essere umano a un costante miglioramento. Kissinger si sarebbe però rivelato molto più scettico del maestro. E forse per questo alla conclusione del proprio lavoro scrisse: “La generazione di Buchenwald e dei campi di lavoro siberiani non può parlare con lo stesso ottimismo dei padri”.
Nel suo ultimo lavoro, Ordine mondiale (Mondadori, pp. 405, euro 28.00), l’ormai ultranovantenne Kissinger torna con autoironia a quei giorni lontani, in cui era stato “tanto sconsiderato” da pronunciarsi sul “significato della storia”. “Oggi”, scrive, “so che il problema della storia è una cosa da scoprire, non da proclamare”. Il libro di Kissinger può d’altronde essere considerato come il risultato di un’intera vita di studio, ma anche della lunga attività di consulente, culminata con la nomina a Segretario di Stato durante l’amministrazione Nixon. In Ordine mondiale si possono infatti ritrovare le tracce del fascino che esercitarono sullo studente di Harvard gli scritti di Spengler e Toynbee, in particolare per l’idea che ciascuna civiltà esprima uno specifico sistema internazionale. Ma soprattutto si può ravvisare ancora una volta lo sguardo con cui Kissinger ha sempre considerato la costruzione di un ordine internazionale, frutto di un precario rapporto fra legittimità e potere. L’assetto che abbiamo conosciuto, ci ricorda l’ex Segretario di Stato di Nixon, è nato per molti versi nel 1648 in Vestfalia. Progressivamente si è esteso a tutto il pianeta, ma oggi le sue basi sono sempre più fragili. L’emergere di nuovi protagonisti cambia infatti radicalmente la distribuzione del potere, mettendo in crisi anche la consolidata logica dell’equilibrio. Ma, al tempo stesso, le nuove potenze hanno spesso visioni molto diverse della legittimità (e dunque dei valori da difendere). E per questo il compito principale delle leadership politiche di domani consisterà nel costruire un nuovo ordine, un ordine effettivamente “mondiale”, capace di trovare un bilanciamento nel sempre problematico rapporto tra legittimità e potere.
Nelle considerazioni di Kissinger si può sempre intravedere un velo di pessimismo ‘realista’. In questo caso i motivi di preoccupazione non giungono però dall’arena internazionale, ma dalla dimensione interna. Il novantenne analista scorge infatti una minaccia rilevante nelle conseguenze della rivoluzione digitale. E non si riferisce solo al fatto che il cyberspazio sarà sempre di più il terreno decisivo dei nuovi conflitti. Allude piuttosto alle implicazioni distruttive che l’accumulazione di dati può avere sulle capacità di valutazione dei leader. L’enorme quantità di informazioni di cui ciascuno può disporre e la stessa ‘personalizzazione’ dei flussi informativi rischiano di dissolvere la memoria storica e la capacità di giudizio. I politici tendono così a compiere le loro scelte guardando al consenso del brevissimo periodo, col risultato che la diplomazia si separa nettamente dalla strategia. Ed è allora per questo che Kissinger finisce col ritrovare la domanda forse più insidiosa sul nostro prossimo futuro nei vecchi versi di Thomas S. Eliot: “Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? / Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”

Damiano Palano

mercoledì 2 settembre 2015