di Lola Sermonti
“Maelstrom” ospita una recensione di Lola Sermonti al recente volume di Giovanni Sartori, La corsa verso il nulla (Mondadori, euro 15.00). Con un’ironia dissacrante, seppur mai davvero irrispettosa, lo scritto di Lola Sermonti, apparso originariamente sulla newsletter di “Mompracem”, tocca alcuni nervi scoperti della riflessione del novantunenne politologo italiano che già in diverse occasioni sono stati al centro dell’attenzione di “Maelstrom”.
Nei pomeriggi delle afose giornate estive, quando la canicola diventa soffocante, capita spesso di imbattersi in sagome malinconiche che di solito – forse perché si confondono nella calca, forse per altri motivi – si sottraggono ai nostri sguardi. Sono le sagome di anziani che vagano senza meta per le strade delle nostre città, con ai piedi le ciabatte da camera e addosso solo il pigiama o la vestaglia. Non si tratta di poveri o di senzatetto, perché l’abbigliamento e la pulizia fanno sospettare piuttosto che siano riusciti a sfuggire per qualche ora all’abituale vigilanza familiare. Ma da qualunque luogo provengano, procedono arrancando, con lo sguardo puntato verso un obiettivo immaginario nascosto dietro l’orizzonte. E senza rivolgersi a nessuno in particolare, urlano – o sussurrano con la voce che rimane loro – improperi talvolta irripetibili. I loro bersagli quasi sempre si confondono, accomunati in una trama di complicità per loro inoppugnabili. Si tratta talvolta dello Stato, talvolta di ben precisi leader politici del passato (su cui si concentrano con particolare accanimento), quasi sempre di qualche loro familiare. Ma a ognuno di questi nemici, con un livore rassegnato ma implacabile, vengono imputati delitti infamanti, tanto più gravi perché, almeno da ciò che ci pare di decifrare da alcune frasi sconnesse, si tratta di colpe destinate a precipitarci tutti nel baratro.
È molto difficile per il lettore del nuovo volumetto di Giovanni Sartori, La corsa verso il nulla. Dieci lezioni sulla nostra società in pericolo (Mondadori, pp. 105, euro 15.00), sottrarsi allo stesso disagio che ci coglie nel momento in cui ci imbattiamo in questi malinconici abitatori delle nostre estati cittadine. Perché è davvero difficile non ritrovare nelle righe dell’ormai novantunenne politologo italiano quelle stesse fissazioni, che – ingigantite dalla paranoia senile fino a diventare mostruose – ci inducono a sorridere di quei poveri anziani che vagano senza meta, talvolta trascinando con sé pesanti valige o qualche altro improbabile fardello.
Nel volume non si trova nulla di nuovo rispetto alla precedente riflessione dello studioso italiano, perché le «dieci lezioni» per molti versi si limitano a riepilogare i motivi polemici indirizzati contro alcuni dei nemici storici di Sartori, e cioè la Chiesa cattolica, il marxismo, l’Islam, l’immigrazione (spesso legati fra loro da un’intima fratellanza). Il lettore più disponibile può naturalmente anche trovare alcune intuizioni interessanti nel centinaio di pagine della Corsa verso il nulla, ma una certa sguaiataggine nelle argomentazioni non può che far affiorare quella stessa sensazione di disagio che ci coglie quando iniziamo a sospettare che lo sguardo fisso del nostro interlocutore sia in realtà diretto verso un invisibile nemico immaginario. E forse questo sentore si avverte già dalla nota che Sartori pone a sigillo del suo lavoro: «Questo piccolo libro è uno zibaldone ispirato dal mio atavico spirito di contraddizione. Tutti mi dicono: in estate nessuno più legge cose serie, guardano seni e donne nude, e sono travolti da valanghe di cure di bellezza (oltre che di terapie per mali che i più non hanno mai sentito nominare). Io, a giugno, mi ero già seccato di queste cose e allora mi sono chiesto: ma è proprio vero che in estate il libro serio non lo vuole nessuno? Per saperlo bisogna provare. Alla peggio, resterò invenduto» (p. 103). Ma anche nel resto del volume non mancano passi in cui l’argomentazione appare quantomeno poco lucida. Per esempio, nella ‘lezione’ principale, Sartori afferma che la politica «è stata una forza a discrezione del più potente (del momento) finché non è stata inventata la liberal-democrazia» (p. 13), che la liberal-democrazia è un prodotto del pensiero astratto e che la televisione, proprio perché distrugge il pensiero astratto, rischia di distruggere anche la liberal-democrazia (dimenticando per lo meno di notare, fra le tante cose, che più o meno tutta la civiltà occidentale è figlia del pensiero astratto, e che dunque sono figli del pensiero astratto tanto la liberal-democrazia, quanto il regime nazionalsocialista tedesco e l’Unione Sovietica). In altri casi la polemica sembra sfociare nell’ossessione paranoica, come quando osserva: «Crollato il mito comunista e, con esso, il mondo sovietico, la sinistra si è buttata sul ‘globalismo’. Così (in allegra compagna con la truffa dei derivati e di un’economia produttiva) si è data alla spesa sfrenata. Oggi una buona metà degli Stati europei non ha più un soldo ed è indebitata oltre il lecito. Per restare all’Italia – che, dopo la Grecia, è lo Stato europeo più indebitato e con una terrificante disoccupazione giovanile – chi paga, chi può pagare? Secondo me, il ‘grande ricco’ che più ci fa spendere, visto che caldeggia un’immigrazione pressoché illimitata, è la Chiesa cattolica» (p. 86). Non mancano neppure intuizioni che Cesare Lombroso avrebbe considerato come tratti distintivi del ‘mattoide’, come quando per esempio Sartori, fornendo indicazioni decisive per la gestione dell’ordine pubblico, scrive: «in occasione dell’apertura dell’Expo di Milano, il 1° maggio 2015, i black bloc hanno devastato pressoché a piacimento. Tirando le somme, all’ospedale sono finiti più agenti di polizia che dimostranti. Angelino Alfano, ministro degli Interni, era contento: ‘Abbiamo evitato’ ha esclamato trionfante ‘il morto di Genova’. Bravo. Eppure, per ridurre al minimo la violenza basterebbe un semplicissimo provvedimento: i caschi sono consentiti solo a chi ha con sé la motocicletta. Altrimenti no. Altrimenti i nostri eroi dello sfascio devono essere subito fermati e schedati. Non importa se il giorno dopo vengono rilasciati. Ormai sarà facile neutralizzarli. E se ci saranno bernoccoli sulle teste di qualcuno, saranno degli ‘sfasciatutto’» (p. 73). Infine, il lettore si trova anche a vivere una sorta di amarcord quando Sartori – nel capitolo più strutturato (probabilmente tenuto nel cassetto per decenni e rispolverato per rimpinzare il magro volumetto) – si impegna in una tirata contro il marxismo, arrivando persino a inveire, con un inevitabile effetto di spiazzante, contro i «nostri gruppuscoli rivoluzionari»: gruppuscoli che – scrive il politologo parlando al presente, ma rivolgendosi evidentemente alla formazioni che popolavano l’Italia mezzo secolo fa – «hanno in mente una sola idea, che non è altro che una fissazione sbagliata: l’idea che un mondo nuovo purificato dal male zampillerà, misteriosamente e miracolosamente, dalla creatività della violenza» (p. 31).
Anche solo sfogliando il volumetto di Sartori (o magari imbattendosi nella fotografia riportata sulla quarta di copertina, che ritrae il Nostro intento a scrutare una palla di cristallo), non si può non essere sfiorati dal sospetto che tutta l’operazione sia volta sfruttare l’immagine dello studioso, anche a rischio di trasformarlo in una caricatura. E questo stesso sospetto ritorna ogni volta che il professore viene interrogato da qualche giornalista sui fatti del mondo, come è avvenuto alcuni giorni fa, quando un cronista del «Fatto quotidiano» ha raccolto alcune sue esternazioni. Esternazioni in cui, per esempio, Sartori definisce Obama come un politico da quattro soldi perché non frequentò i suoi corsi alla Columbia, Renzi come una sorta di manigoldo perché qualche anno fa estorse una fotografia insieme al politologo senza però presentarsi, e Papa Bergoglio come un furbacchione affetto dalla tara genetica di essere figlio di italiani emigrati in Argentina.
Dinanzi a espressioni del genere è inevitabile sorridere malignamente, proprio come quando si sorride di fronte al vecchietto che, in ciabatte e canottiera, inveisce contro le malefatte del Papa, o di Palmiro Togliatti, o di Luca Cordero di Montezemolo, o della nuora che vuole rubargli i risparmi di una vita. Ma un attimo dopo, non possiamo commiserare le sventure di quel povero vecchietto, immaginando con un certo sgomento che un giorno – un giorno in fondo neppure troppo lontano – al posto di quel vecchio farneticante che impreca contro la nuora, il Papa e il declino della civiltà, potremmo esserci proprio noi.
Dopo aver voltato l’ultima pagina della Corsa verso il nulla, a chi ricorda il vecchio polemista – certo spesso sgradevole, ma sempre ammirevole per la propria foga – fatalmente rimane in bocca un gusto amarognolo. E il lettore, già soffocato nella morsa della canicola, non può evitare di pensare alla caducità delle cose umane con un velo di tristezza e più di un’ombra di malinconia. Almeno fino a quando un altro giornalista, in una calda giornata d’estate, non si avvicinerà al professore col microfono accesso, e gli chiederà, per l’ennesima volta: «Allora, professore, ce la racconta ancora quella di Obama? E quella del Papa argentino? Oppure, ancora meglio, com’è che cominciava quella storia della democrazia?»
Lola Sermonti
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