Questo testo è apparso su "Dialoghi carmelitani" nel marzo 2015.
di Damiano Palano
Alla conclusione dei propri lavori, nel 2003, la Convenzione istituita per predisporre il progetto di una Costituzione per l’Europa decise di anteporre al testo definitivo una breve epigrafe, in cui veniva citato un passo della Guerra del Peloponneso di Tucidide. Quel frammento, tratto dalla famosa orazione in cui Pericle celebrava i primi ateniesi caduti in battaglia, recitava: «La nostra Costituzione […] si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani dei pochi, ma dei più». Benché la citazione riflettesse l’ambizione della Convenzione di ritrovare nella storia europea un filo lungo più di duemila e quattrocento anni – che dalla democrazia di Atene giungeva fino all’esperimento politico dell’Unione europea – quella scelta doveva scontarsi con una consistente serie di obiezioni. Dal punto di vista filologico, qualcuno ricordò l’abissale distanza che separava la politeia greca dalla «costituzione» degli Stati di diritto contemporanei, mentre altri sottolinearono l’ambiguità del riferimento ai «più», cui ad Atene era affidato il potere. Ma soprattutto, applicato all’Unione europea, il riferimento al discorso in cui Tucidide celebrava la democrazia ateniese doveva suonare solo come un auspicio ottimistico.
Negli ultimi anni, le critiche di scarsa democraticità indirizzate alle istituzioni europee si sono diffuse presso le opinioni pubbliche di quasi tutti i paesi membri, e gli attacchi indirizzati contro la «tecnocrazia» di Bruxelles sono diventati quasi un luogo comune, non solo tra le forze politiche più chiaramente ‘euroscettiche’. In realtà non si tratta di accuse nuove, perché è ormai da più di vent’anni che il nodo del cosiddetto «deficit democratico» è al centro delle discussioni accademiche. Ma la crisi degli ultimi anni – una crisi in cui si sovrappongono processi non solo europei, ma che è strettamente connessa alla gestione delle conseguenze dell’unificazione monetaria – ha portato alla luce una serie di elementi critici nel funzionamento del processo decisionale dell’Ue. E anche se certo non si può ritenere che l’«eurocrazia» non abbia alcuna responsabilità nelle modalità in cui è maturata ed esplosa la crisi, è comunque necessario riconoscere che molte delle difficoltà che oggi sperimenta l’Ue – sul versante del ‘deficit democratico’ e su quello del ‘deficit di capacità di governo’ – sono una conseguenza del modo con cui l’Unione europea si realizzata.
I primi passi del processo di integrazione risalgono ai primi anni Cinquanta del secolo scorso, con l’istituzione della Ceca, nel 1951, e in seguito con i Trattati di Parigi, che nel 1958 istituiscono la Cee e l’Euratom. L’obiettivo degli accordi conclusi dai paesi fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) è soprattutto eliminare – grazie allo strumento economico – le basi più profonde delle rivalità che avevano condotto alla tragedia dei due conflitti mondiali. Un ulteriore passo, che si allinea a questa filosofia, è anche l’avvio della Politica agricola comune, ma la Comunità inizia anche gradualmente a estendersi, accogliendo dal 1973 la Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito, dal 1981 la Grecia e dal 1986 il Portogallo e la Spagna. Proprio allora viene avviato l’ambizioso Atto Unico Europeo, che prelude all’ingresso in una nuova fase del processo di integrazione e che culmina, nel 1993, nell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e nella trasformazione della Cee in Unione Europea. In seguito al crollo del Muro di Berlino, il numero dei membri si accresce notevolmente (fino ad arrivare agli attuali 28 membri). Ma forse ancora più rilevante – per le implicazioni sulla vita dei cittadini europei – è l’introduzione della moneta unica, nel 2002.
Nel corso di questo lungo processo, anche le istituzioni dell’Ue si sono accresciute e hanno acquistato alcune delle caratteristiche proprie di uno Stato democratico (come in particolare un Parlamento eletto direttamente dai cittadini). Ciò nonostante, anche dopo le riforme introdotte dal Trattato di Lisbona (entrato in vigore nel 2009), la struttura dell’Unione può essere considerata come un ‘ibrido’, un assetto che presenta caratteristiche proprie tanto di un’organizzazione internazionale, quanto di una vera e propria unione federale. Il potere esecutivo è condiviso infatti dalla Commissione europea, formata da membri provenienti dai diversi Stati, e dal Consiglio dell’Unione, composto dai ministri dei governi nazionali. Il potere legislativo è suddiviso tra lo stesso Consiglio e il Parlamento (che però, per alcune materie, deve essere solo consultato). Ma a rendere ancora più complessa la struttura dell’Ue, e a determinare i principali problemi di efficacia, sono anche i criteri decisionali. Il Consiglio, e cioè la componente ‘intergovenativa’ dell’Ue, è stato a lungo – e in parte rimane anche oggi – simile a una conferenza diplomatica, nella quale ogni decisione viene raggiunta all’unanimità e in cui ogni Stato conserva un decisivo potere di veto. Da questo punto di vista, il Trattato di Lisbona ha esteso il principio di una maggioranza ‘rafforzata’ per un numero consistente di materie. Ma i criteri della maggioranza qualificata, che peraltro entreranno pienamente in vigore solo nel 2017, sono complessi e difficilmente decifrabili da parte dell’opinione pubblica. E per questo nell’assetto dell’Ue convivono ancora due diverse logiche di legittimazione: per un verso, ci sono tracce di una legittimazione ‘verticale’ di alcune istituzioni (soprattutto del Parlamento); per l’altro, rimane ben visibile una legittimazione ‘orizzontale’, per cui sono i governi degli Stati membri a legittimarsi reciprocamente (come avviene nelle conferenze diplomatiche).
Un’architettura così complessa non è semplicemente un risultato della scarsa democraticità dell’«eurocrazia», ma è il risultato della difficoltà di costruire una democrazia europea, in presenza di quasi trenta Stati membri (fra loro molto diversi quanto a peso demografico). Ed è paradossalmente questo stesso ‘intreccio democratico’ a rendere tanto difficile imboccare quella via della ‘solidarietà’ che il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha negli ultimi anni raccomandato, rivolgendosi in particolare ai propri concittadini. Come ha scritto in questo senso il sociologo Claus Offe, «ciò che si dovrebbe fare, e su cui tutti sono d’accordo ‘in linea di principio’ (ossia una mutualizzazione del debito su larga scala e a lungo termine, che porterebbe a massicce misure redistributive sia tra gli stati membri sia tra le classi sociali), non può essere ‘venduto’ agli elettori degli stati membri che finora sono stati meno colpiti dalla crisi rispetto a quelli della periferia». Allo stesso tempo, «occorrerebbe una spinta rapida e sostenuta alla competitività dei paesi periferici, un adeguamento del loro costo del lavoro (inteso come rapporto tra salari reali e produttività del lavoro) che porterebbe al raggiungimento di un relativo equilibrio commerciale e a livelli sostenibili dei deficit di bilancio», ma ciò è «impossibile da realizzare senza compromettere irreparabilmente i sistemi politici democratici di questi paesi». In sostanza, dunque, le misure ‘solidaristiche’, che potrebbero consentire di superare le difficoltà economiche odierne, sono impraticabili dal punto di vista politico, perché sono destinate a scontrarsi sia al Nord sia al Sud con opposizioni invalicabili. Un simile stallo è per molti versi la conseguenza dell’assenza di un demos europeo, di un un’identità condivisa europea, perché solo un «noi» capace di dare un reale sostegno politico a decisioni inevitabilmente difficili potrebbe di consentire di superare le paure e le diffidenze nutrite dagli elettorati nazionali. Ma è proprio per l’assenza di un simile sostegno politico che l’Ue rischia di rimanere bloccata. Ed è soprattutto per questo motivo che la via d’uscita dalla ‘trappola’ in cui si trova il Vecchio continente sembra destinata a diventare sempre più stretta.
Damiano Palano
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