di Damiano
Palano
Sono
trascorsi poco più di trent’anni dalla pubblicazione del celebre articolo in
cui Norberto Bobbio, interrogandosi sul futuro dei nostri sistemi politici,
segnalava come le grandi promesse della teoria democratica non fossero state
mantenute, se non in minima parte. In quell’intervento il filosofo torinese si
soffermava in particolare su sei «promesse non mantenute», che coinvolgevano
l’azione dei gruppi, l’effettiva indipendenza dei rappresentanti, il ruolo
delle oligarchie, ma anche l’eliminazione del «potere invisibile», la
promozione delle condizioni democratiche al di fuori della sfera specificamente
politica e la costruzione di una cultura politica responsabile. Ed era proprio
riconoscendo il peso di alcune queste promesse, rimaste senza risposta, che
Bobbio prendeva atto della grande distanza che ancora esisteva «tra gli ideali
democratici e la democrazia reale» (N. Bobbio,
Il futuro della democrazia, Torino,
Einaudi, 1995, p. 8). Negli ultimi anni, e in particolare nel quarto di secolo
seguito alla fine della Guerra fredda, la discussione sulle «promesse non
mantenute» si è notevolmente infittita, perché molti studiosi hanno ravvisato
segnali di «crisi», di «disagio» o persino di «declino» nello stato attuale
delle istituzioni democratiche. E non è neppure mancato chi – come per esempio
Jacques Rancière o, in modo diverso, Colin Crouch – ha sostenuto che i nostri
sistemi politici sono già avviati ‘oltre’ la democrazia, e cioè verso un
assetto ‘post-democratico’ in cui di fatto il popolo viene spogliato di
qualsiasi potere reale, a tutto vantaggio di esigue minoranze. In questo
dibattito, affollato e in continua estensione, si era inserito alcuni anni fa
un volume di Emilio Raffaele Papa, L’altra
faccia della democrazia. Per una democrazia della sorveglianza (Piero
Lacaita, Manduria, 2012), nel quale – con lo stile raffinato di un libello
settecentesco e il ricorso a classici lontani e vicini del pensiero politico –
veniva proposta un’originale visione della «crisi» della democrazia, che
partiva delle origini della forma democratica per seguire poi i fili del suo
sviluppo storico fino ai giorni nostri.
Nelle ultime pagine di quel saggio,
Papa si interrogava su «una democrazia che renda ‘possibile il proprio
futuro’», e non casualmente tornava ad affrontare molti dei nodi evidenziati da
Bobbio. E, dopo avere considerato le insidie che provengono oggi dalle nuove
tecnologie, dall’uso (e dall’abuso) dei sondaggi di opinione, dall’antipolitica
e dalla seduzione esercitata dal potere dei capi carismatici, Papa scriveva:
«La democrazia potrà essere difesa nel XXI secolo, riaffermando il valore dei
suoi istituti strategici della sorveglianza; e conservando gli uomini nella
fruizione del valore della libera critica, nel coraggio delle loro opinioni.
“L’opinione”, scriveva Cesare Beccaria, “è forse il solo grande cemento della
società”. Vive della sua stessa libertà di esistere: nella difesa della
autonomia intellettuale, contro ogni tentativo di nullificarla in forme di
massificazione delle intelligenze ed in miti del benessere conseguibile al di
fuori della effettiva partecipazione di ognuno» (pp. 139-140).
A
qualche anno di distanza, nel suo recente Che
cos’è la democrazia? (Rubbettino, pp. 122, euro 12.00), Emilio Raffaele
Papa riprende e sviluppa questa convinzione, da un angolo visuale in parte
differente, ma sempre conservando la prospettiva dei tempi lunghi della storia
del pensiero e dell’evoluzione (problematica) delle istituzioni politiche. La
grande domanda che orienta il libro – prima ancora che l’interrogativo
sintetizzato nel titolo – riguarda proprio la «crisi» delle democrazie
contemporanee, o meglio l’incapacità dei nostri sistemi di realizzare pienamente
quegli ideali che appaiono cristallizzati nella parola «democrazia». E il
ragionamento di Papa parte da quanto due secoli e mezzo fa segnalava
Jean-Jacques Rousseau, quando scriveva che, «volendo prendere il termine nella
sua più rigorosa accezione, una vera democrazia non è mai esistita e non
esisterà mai», perché si tratta di un regime «adatto agli dei e non agli
uomini». In realtà, sottolinea Papa, l’obiezione di Rousseau riguardava la
democrazia véritable, ossia un’idea
assoluta della democrazia, ma non coinvolgeva quei metodi grazie ai quali era
possibile ‘tradurre’ l’idea, almeno in parte, in una pratica politica. Ed è
invece per questo che il pensiero del filosofo ginevrino riesce ancora a
fornire una chiave di lettura importante per comprendere come i «principi che
configurano le autentiche istituzioni democratiche, […] dopo la sua Roma
repubblicana, siano stati mutilati nel corso storico, o senz’altro ignorati, o
soltanto proclamati nella consapevolezza di non poterli o non volerli
realizzare» (p. 14). Le origini della «crisi» odierna della democrazia vanno
infatti ricondotte, secondo Papa, ai modi con cui, di fatto, i principi
democratici sono stati abbandonati, annullando «le forme di partecipazione
popolare nei loro contenuti autentici» e riducendo «il funzionamento degli
apparati istituzionali strategici del regime democratico, al di fuori di
un’adeguata sorveglianza e di un dovuto controllo nella loro azione operativa»
(p. 14). In sostanza, le istituzioni del controllo e della sorveglianza del potere
– istituzioni che Papa ritiene costitutive della democrazia, e che furono
elaborate prima nel mondo greco e in seguito ripensate nella Roma repubblicana
– invece di essere aggiornate e adeguate al progresso tecnico sono state di
fatto abbandonate, minando così la stessa efficacia della partecipazione
popolare.
Nella
sua ricostruzione, che è in questo senso davvero originale, Papa ritorna
infatti, come elemento chiave, proprio all’«altra faccia della democrazia»,
ossia al «potere negativo della sovranità popolare». La democrazia nacque
infatti, per un verso, con la riforma di Clistene, con l’ampliamento del
diritto di voto, ma, per un altro, soprattutto a Roma, con l’istituzione del
tribunato della plebe. E si trattava del «potere non di fare, ma di impedire»
(p. 17). Nel corso dei secoli, il potere negativo cadde nell’oblio, conoscendo
un’effimera fortuna solo alla fine del Settecento, nel corso della Rivoluzione
francese. Ma è proprio il potere negativo – che naturalmente affianca quello
positivo di decidere – a qualificare secondo Papa la dinamica democratica. Nei
sistemi politici contemporanei, del potere negativo esistono però solo labili
tracce. Naturalmente, qualcosa resta nel procedimento elettorale, ma Papa
sottolinea come la realtà spesso tenda a confermare la sarcastica formula di
Antoine de Rivarol, che alla fine del Settecento scriveva: «Ecco due verità che
non si devono mai separare in questo mondo: 1. che la sovranità risiede nel
popolo; 2. che il popolo non deve mai esercitarla». Gli istituti della
democrazia diretta – la petizione, il referendum, l’iniziativa legislativa
popolare, ma anche la difesa civica (che ha avuto in Italia una breve storia) –
non hanno mai ottenuto un reale rafforzamento, e spesso il loro peso effettivo
è quasi insignificante. E una simile carenza non può che risultare ancora più
rilevante in un quadro, come quello italiano, contrassegnato dall’adozione di
una legge elettorale (la legge Calderoli) che di fatto proponeva al cittadino
liste bloccate, senza possibilità di esprimere alcuna preferenza.
Nonostante
tutti i segnali negativi che presenta il ‘caso italiano’, Papa non è però del
tutto pessimista, e rileva anzi i segni di un mutamento nell’atteggiamento
degli italiani nei confronti della politica: «le critiche si fanno più
consapevoli e vengono motivate non soltanto dalla rabbia e dal nichilismo dell’antipolitica, ma altresì da un desiderio
di controllo, di intervento, di partecipazione crescente. La gente riprende ad
affollare le piazze, non soltanto per amore di spettacolo, garantito sui palchi
da… specialisti ad hoc. La gente sente la mancanza di una propria attendibile
rappresentanza ove le cose contano, avverte la frustrazione di essere fuori da
tutto un mondo che ignora e che la ignora, inizia a riconoscere di aver sempre
accettato risultati già decisi da un… non interloquibile
potere» (p. 107). Ma, al di là della valutazione fornita sulle vicende
italiane, la lettura fornita da Papa invita soprattutto a puntare lo sguardo su
un aspetto spesso trascurato nelle indagini sulla «crisi» della democrazia,
ossia proprio sul sostanziale venire meno di quella faccia meno visibile delle
dinamiche democratiche, ma altrettanto cruciale, che è il «potere negativo». La
tesi di Papa potrebbe sembrare sotto questo profilo in latente contrasto con
l’idea formulata per esempio da Pierre Rosanvallon, secondo cui una parte
rilevante delle difficoltà che vivono i nostri sistemi politici deve essere
attribuita alla dilatazione della «contro-democrazia», ossia alla progressiva
estensione di quei «contro-poteri» che sorvegliano l’operato di chi detiene le
cariche pubbliche, erodendo la fiducia nel loro operato e persino la
‘sacralità’ del loro ruolo. Probabilmente – ma la questione andrebbe meditata
con maggiore attenzione – tra le due posizioni non c’è però una vera
contraddizione: per molti versi, la «contro-democrazia» - che Rosanvallon trova
soprattutto nel ruolo esercitato dall’informazione e della magistratura – viene
di fatto a occupare uno spazio che è vuoto, dal momento che nelle nostre
democrazie non esistono istituzioni che davvero diano voce politica al «potere
negativo». Così la «contro-democrazia», almeno per come la intende Rosanvallon,
esercita un ruolo di controllo privo di sostanziali responsabilità politiche, e
anche per questo non può assumere realmente il profilo di una sorta di nuovo
«tribunato della plebe», né può contribuire a istituire una relazione
dialettica fra potere negativo e potere positivo.
Benché
insista sul ruolo centrale del potere negativo, Papa è ben lontano dal pensare
che possano esistere modelli istituzionali – più o meno realizzabili – capaci
di corrispondere finalmente alle tante promesse degli ideali democratici. Le
sue considerazioni muovono d’altronde dalla consapevolezza che il lavoro democratico
– e cioè il lavoro di adeguamento delle istituzioni agli ideali – sia una
fatica interminabile. Il compito stesso della democrazia è anzi, secondo le
parole di Papa, proprio quello di «continuare a spiegare le cose per quel che
sono e che sono divenute e scoprire ogni giorno le nuove facce dei diritti e
dei doveri in una realtà che cambia, rinnovando gli antichi rimedi nel contesto
di uno stesso valore della libertà» (p. 120). Ed è in fondo proprio alla luce
di una simile consapevolezza che Papa racchiude il significato della propria
indagine intorno al passato, al presente e al futuro della democrazia in una
preziosa formula di Cornelius Castoriadis, richiamata all’inizio del volume.
Una formula che in qualche modo costituisce la risposta alla domanda suggerita
nel titolo del volume, e che vale sempre la pena tenere a mente, per sottrarsi
alla ricorrente tentazione di ‘chiudere’ la democrazia nella gabbia di una
definizione ‘solo’ descrittiva: «La democrazia non appare in alcun suo momento
uno stato di cose, ma senz’altro un processo storico, in virtù del quale certe
comunità si autoistituiscono in modo più o meno esplicito come comunità di
cittadini liberi: soltanto questo processo interessa: il processo della
democrazia, il quale non è mai in alcun suo momento una costituzione data una
volta per tutte».
Damiano Palano