martedì 16 giugno 2015

Un aristocratico nel regno della paura. Le "Lettere dalla Russia" di Astolphe de Custine

di Damiano Palano
 
Questa recensione al volume di Astolphe de Custine, Lettere dalla Russia (Adeplhi, pp. 364, euro 20.00), è apparsa su "Avvenire" del 12 giugno 2015 (con il titolo Custine: la Russia del 1839, così simile all'Urss di Stalin. E a quella di oggi).

Nel 1835, al termine della Democrazia in America, Alexis de Tocqueville si spingeva a prevedere la futura ascesa globale della nuova potenza statunitense. Ma in quelle stesse pagine lo scrittore francese chiamava in causa anche la Russia. Entrambi quei popoli, scriveva Tocqueville, “sembrano chiamati da un disegno segreto della Provvidenza a tenere un giorno nelle loro mani i destini della metà del mondo”. Benché perseguissero un obiettivo comune, c’era però una differenza notevole fra il popolo americano e quello russo, perché il primo aveva “per mezzo di azione principale la libertà”, il secondo “la servitù”. Probabilmente proprio il grande successo conosciuto dal libro di Tocqueville indusse il raffinato aristocratico Astolphe de Custine (1790-1857) a rivolgere l’attenzione verso la Russia. Custine visitò infatti le terre dello Zar alcuni anni dopo e trasse dal viaggio La Russie en 1839, un volume apparso per la prima volta nel 1843 e proposto ora in traduzione italiana con il titolo Lettere dalla Russia (Adelphi, pp. 363, euro 20.00).
Come Tocqueville, anche Custine proveniva da un’antica famiglia aristocratica duramente colpita dalla rivoluzione. Inizialmente si era d’altronde rivolto alla Russia con lo sguardo del legittimista in polemica con la monarchia borghese. Presto i propositi iniziali si scontrarono però con una realtà piuttosto deludente. “Recatomi in Russia per cercarvi argomenti contro il governo rappresentativo”, confessava, “ne ritorno partigiano delle costituzioni”. A ben vedere, la disillusione cominciò già sul bastimento, poco dopo la partenza. Perché già qui – secondo il racconto (rielaborato) di Custine – il principe K*** gli presentò la Russia come un paese dominato dai costumi barbari e in ritardo di almeno quattro secoli sull’Europa. E, soprattutto, come un paese che non aveva subito né l’influsso cattolico né quello cavalleresco, nel quale invece la ferocia delle tribù asiatiche si era combinata con il culto bizantino dei rituali. La monarchia zarista appariva allora come l’opposto speculare dell’America di Tocqueville: “un’autocrazia idolatrica”, capace di produrre un livellamento fra i sudditi basato non sull’uguaglianza ma sulla completa sottomissione al sovrano, sulla dissimulazione, sull’inganno reciproco. Nel corso del proprio viaggio Custine non fece altro che trovare costanti conferme al quadro dipinto dal principe K***. E alla fine la vita dei russi gli appariva così “più triste della vita di qualsiasi altro popolo europeo”.
Osteggiato dalla critica e tenuto a distanza persino dai salotti parigini, un po’ come il proustiano barone di Charlus, Custine ottenne il successo letterario ormai cinquantenne proprio con La Russie en 1839. Ma il suo libro doveva essere riscoperto anche molto più tardi. Durante la Guerra fredda si doveva infatti riconoscere nel regno in cui dominava “il silenzio della paura” descritto da Custine un’anticipazione quasi profetica del terrore staliniano. E alla metà degli anni Settanta – quando Pierre Nora curò in Francia l’edizione ora riproposta da Adelphi – le vecchie pagine dal dandy aristocratico andarono ad alimentare la critica alla “nuova barbarie” totalitaria, che ravvisava una sostanziale linea di continuità tra l’autocrazia zarista e i gulag sovietici. Per motivi simili, a più di centosettant’anni dalla loro pubblicazione, è forte la tentazione di trovare nelle pagine di Custine una fotografia della Russia di oggi. Ma, a dispetto di tutti i meriti dello scrittore francese, è bene non dimenticare che La Russie en 1839 era soprattutto la conferma di un pregiudizio. Il viaggio durò d’altronde solo tre mesi, in cui Custine si limitò a visitare San Pietroburgo e Mosca, rifiutando di proseguire oltre. Il suo ritratto doveva però imprimersi nell’immaginario, consolidando l’idea di un regime dispotico fondato sulla paura e sul servilismo. E dal momento in cui apparvero le sue lettere, nessuno in Francia guardò più alla Russia come aveva fatto in precedenza.


Damiano Palano

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