di Damiano Palano
Il ritorno del
«popolo»
«I
poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa! Non si
accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure
aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni
che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella
direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso.
Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si
organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella
solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che
la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di
dimenticare. Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune
volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una
parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in
termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei
beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della
povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la
negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti
distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni
dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle
realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La
solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed
è questo che fanno i movimenti popolari. […] I movimenti popolari esprimono la
necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate
da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società
senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo
protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La
prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare
l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di
partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di
governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale
che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino
comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore».
Nelle parole rivolte da Papa Francesco agli esponenti dei «movimenti
popolari» guidati dal Presidente della Bolivia Evo Morales, nell’incontro in
Vaticano del 28 ottobre 2014, molti dei più critici osservatori del nuovo
pontificato hanno ravvisato i segni di una cultura ostile al mercato e ai
principi del liberalismo, se non addirittura le tracce di quelle concessioni al
marxismo che tanto peso ebbero nella vicenda della Teologia della Liberazione,
fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Un vaticanista come Sandro
Magister ha persino ravvisato delle singolari analogie tra le formule di Papa
Francesco e la visione dell’ordine mondiale che emerge da Empire di Michael Hardt e Antonio Negri, perché tanto il pontefice
quanto i due autori radicali «individuano la sovranità mondiale in un dominio
transnazionale del denaro, che alimenta le guerre per ingrossare i profitti,
contro il quale solo la moltitudine dei ‘movimenti popolari’ può portare a una
‘riappropriazione della democrazia’ non formale ma sostanziale» (S. Magister, Il pendolo di Bergoglio, tra capitalismo e
rivoluzione, in «L’Espresso», 19 dicembre 2014). Ovviamente un simile
accostamento è solo una provocazione, di cui peraltro non è difficile trovare
ulteriori (e ben più violente) espressioni nelle critiche al pontificato di
Bergoglio che giungono da molti ambienti conservatori. Forse, più che sulle
presunte affinità col marxismo del nuovo pontefice, sarebbe da ricordare come
molti autori ‘post-marxisti’ – e tra questi naturalmente proprio Hardt e Negri
– abbiano negli ultimi anni attinto a piene mani al linguaggio della
spiritualità cristiana, ritrovando in Francesco d’Assisi il paradigma per una
politica radicale adeguata al XX secolo. Ma non è neppure da dimenticare come
altri interpreti del magistero di papa Bergoglio abbiano enfatizzato ben diverse
componenti, quali per esempio l’influenza del peronismo, un tutt’altro che
ostile atteggiamento nei confronti dell’economia di mercato, o infine – un
aspetto su cui forse si dovrebbe riflettere con maggiore attenzione – il ruolo
della cosiddetta «Teologia del Popolo».
Se la discussione sulle matrici dottrinarie di papa Francesco è
destinata a continuare a lungo, è piuttosto evidente che molti dei riferimenti
ai «movimenti popolari» e alle componenti distruttive del mercato rischiano di
essere in larga parte fraintesi se non vengono collocati nel quadro delle
esperienze che l’America Latina ha vissuto nell’ultimo quindicennio, e in
particolare all’interno di quella tendenza che è stata spesso interpretata come
una sorta di «ritorno del popolo» (sia sotto il profilo dottrinario, sia sotto
il profilo politico dell’affermazione di nuovi regimi ‘populisti’). A partire
dall’inizio del nuovo secolo, i paesi latino-americani sono stati infatti un
formidabile laboratorio di sperimentazione politica, nel quale hanno visto la
luce formule politiche nuove, di segno spesso molto differente e peraltro
difficilmente interpretabili con le categorie più consolidate della politica
europea. I movimenti e gli esperimenti nati in Argentina dopo la grande crisi
dell’inizio del secolo, la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chavez, il Brasile
di Lula, la Bolivia di Morales non hanno infatti solo dato inizio a stagioni
politiche che hanno rotto con la storia precedente di questi Paesi, ma sono
spesso andate a coincidere anche con la sperimentazione di nuove formule di
organizzazione politica e di partecipazione popolare. Ovviamente solo una forma
di acritico ‘esotismo’ può indurre a trascurare le ambiguità e i fallimenti di
queste esperienze. E solo con uno sguardo attento si possono invece ritrovare
le contraddizioni all’interno delle quali si muovono, problematicamente, molti
dei nuovi esperimenti politici.
È proprio con uno sguardo disposto a cogliere la
novità, ma senza subirne il fascino, che Carlo Formenti nel suo libro più recente
– Magia bianca magia nera. Equador: la
guerra fra culture come guerra di classe (Jaca Book, pp. 116, euro 12.00) –
si rivolge alla «Revolución Ciudadana» di Rafel Correa e al nuovo corso
politico dell’Equador. Noto soprattutto per i suoi studi critici sulla
«rivoluzione digitale», e in particolare per lavori come Incantati dalla Rete (Cortina, Milano, 2000), Mercanti di futuro (Einaudi, Torino, 2002) e Cybersoviet (Cortina, Milano, 2008), Formenti in questo caso
propone innanzitutto una sorta di reportage su una realtà in trasformazione
come quella equadoriana, raccogliendo le testimonianze di osservatori e
protagonisti dei cambiamenti politici del Paese. E quello che emerge
dall’analisi di Formenti è il costante, tutt’altro che sopito conflitto tra «magia
bianca» e «magia nera»: un conflitto che non è solo fissato plasticamente nei
due piani in cui si divide il Museo Nazionale di Quito, ma che rivive
quotidianamente nel contrasto tra la cultura dei colonizzatori di origine
europea e le culture indigene, nella contrapposizione tra le istanze di
modernizzazione (economica e culturale) della società equadoriana e le
rivendicazioni di autonomia provenienti dal mondo contadino, nella lotta per la
stessa definizione del concetto di buen
vivir. E Formenti giunge così a mettere in seria discussione la stessa
formula del «socialismo del XXI secolo» che spesso viene utilizzata per
interpretare (e celebrare) – insieme al Venezuela e alla Bolivia – il caso
dell’Equador.
Genealogia di
un esperimento politico
La ricostruzione di Formenti prende le mosse
innanzitutto dal contesto in cui nasce l’avventura politica di Correa, e in
particolare dal fallimento della Confederazione delle Nazionalità Indigene
dell’Equador (Conaie): dopo essere stata fondata nel 1986 e aver conquistato un
notevole peso politico, la Conaie nel 1995 decide di dar vita al partito
Pachakutik, che si presenta alle elezioni presidenziali ma viene sconfitto al
primo turno. In questo fallimento emergono i limiti della Conaie, capace di
costringere i governi al dialogo mediante i levantamientos
(grandi marce che conducono nelle strade di Quito centinaia di migliaia di
persone e che bloccano le vie di comunicazione), ma incapace di incidere sul
piano della competizione elettorale. La decisione di trasformarsi in partito
segna, paradossalmente, la fine dell’egemonia della Conaie sui movimenti. Il
Pachakutik nel 2003 appoggia inoltre il golpe del colonnello Gutiérrez,
conquistando in cambio quattro ministeri. Anche il nuovo governo è però oggetto
di radicali contestazioni popolari, tanto che nel 2005, a seguito di proteste
cui partecipano anche ampi settori dei ceti medi urbani, Gutiérrez è costretto
ad abbandonare il potere.
La personalità di Correa emerge proprio dal composito movimento del
2005, in cui si mischiano giovani studenti ed élite professionali, notabili e
Ong. Cattolico di sinistra, laureato in economia e perfezionatosi in Europa e
Stati Uniti, Correa diventa infatti ministro nel governo Palacio, dopo l’uscita
di scena di Gutiérrez, ma si dimette dall’incarico per divergenze sulla linea
di politica economica dell’esecutivo. In vista delle elezioni presidenziali,
Correa decide di candidarsi, senza però il sostegno di un partito, bensì con il
supporto del nuovo movimento Alianza Pais. Alla base del programma di Correa
sono la «rivoluzione costituzionale», la lotta alla corruzione, il cambiamento
nelle linee di politica economica e la riforma dell’istruzione e della sanità.
Come sottolinea Formenti, il vero filo conduttore della campagna elettorale è
«la lotta contro la partitocrazia, una piaga che, in ossequio al sentimento
popolare che ha alimentato la sollevazione del 2005, viene presentata come la
causa prima di tutti i mali che affliggono il Paese» (pp. 20-21). Alianza Pais,
cui viene assegnato il compito di svolgere da macchina elettorale, è un
movimento formato da ex dirigenti della sinistra tradizionale, da attivisti
della nuova sinistra sociale, ma anche elementi del mondo cattolico: dunque,
«una forza eterogenea amalgamata dall’antipartitismo, dal rifiuto del
neoliberismo e dall’impegno a costruire ‘a tavolino’, sfruttando sofisticati
strumenti comunicativi, una inedita figura di leader carismatico» (p. 21). La
strategia si rivela vincente, e Correa riesce nel ballottaggio ad avere la
meglio sull’imprenditore Alvaro Noboa. Giunto alla presidenza, Correa indice le
elezioni per un’Assemblea Costituente, nella quale Ap ottiene ottanta
rappresentanti su centrotrenta. I lavori
confluiscono nella cosiddetta «Costituzione di Montecristi», nella quale
si confrontano (e scontrano) la visione ‘modernizzatrice’ di Correa e quella
‘ambientalista’ e ‘indigenista’ di Alberto Acosta, il presidente dell’Assemblea
(e in origine tra i fondatori di Ap), il quale si batte per il riconoscimento
del principio del buen vivir mutuato
dalle culture indigene.
Anche se l’esperimento di Correa è ancora in una
fase interlocutoria, le interviste raccolte da Formenti segnalano le ambiguità
e le contraddizioni del regime di Correa, nel quale sono indubbiamente
ravvisabili i segnali di una svolta autoritaria, di un precoce ‘tradimento’ dei
principi di Montecristi e di una rottura del rapporto con i movimenti popolari
(o quantomeno con alcune loro componenti rilevanti). Oltre agli elementi che
sembrano preludere a una deriva autoritaria da parte di Correa, c’è anche
un’altra enorme questione su cui le promesse del nuovo corso sembrano
arrestarsi, e cioè il cambiamento del profilo economico del Paese, che in
realtà – come nel passato – non sembra aver minimamente intaccato la propria
dipendenza dall’estrazione di risorse energetiche. E in questo senso la voce
forse più significativa raccolta da Formenti è quella dello stesso Costa, nel
frattempo diventato uno dei principali esponenti dell’opposizione di sinistra,
il quale stila un bilancio fortemente negativo dell’esperienza di Correa: «Qui
non c’è stata nessuna rivoluzione, né, tantomeno, si sta costruendo qualcosa
che possa essere definito socialismo del XXI secolo; nella migliore delle
ipotesi, lo possiamo definire un regime post neoliberale, certamente non post
capitalista. Agli occhi degli europei può sembrare un paradiso, se confrontato
allo smantellamento del welfare in atto nel Vecchio Continente, ma la realtà è
che vigono gli stessi modelli estrattivisti dell’era coloniale e, se è vero che
i poveri stanno meno peggio, è altrettanto vero che i ricchi stanno molto
meglio, per cui le diseguaglianze sono aumentate e non diminuite» (pp. 50-51).
La valutazione che fornisce Formenti della
«Rivoluzione» di Correa è fortemente critica, anche se l’esperimento va
comunque considerato come un’innovazione degna di attenzione. Il successo di
Correa, il suo carisma mediatico, la polemica antipartitocratica, il suo
rifiuto di ricondurre la «Revolución Ciudadana» nell’alveo del conflitto di classe
sono infatti elementi che il regime equadoriano condivide con il nuovo
populismo del XXI secolo, oltre che con forme politiche che anche l’Europa, con
qualche anno di ritardo rispetto all’America Latina, ha cominciato a conoscere.
Una prima di linea di riflessione critica articolata da Formenti non riguarda
però in senso stretto il regime di Correa, quanto l’immagine del buen vivir che ha accompagnato almeno
nella prima fase il nuovo corso dell’Equador e che ora viene rivendicata
soprattutto dall’opposizione di sinistra, contro la ‘modernizzazione’ sostenuta
dal governo. Il concetto di buen vivir
è infatti declinato in modi molti diversi, soprattutto perché è stato riletto
dalle élite bianche in una chiave che, armonizzandolo con i temi ambientalisti
coltivati nel mondo intellettuale nord-americano, ne hanno snaturato per molti
versi il significato originario, rendendo difficile capire se si tratti di
un’operazione di assimilazione o della conquista di un’egemonia da parte dei
movimenti ‘indigenisti’: «dove passa il confine fra egemonia rivoluzionaria di
un movimento indigeno che si vuole, ad un tempo, identitario e di classe (con
l’inevitabile tensione fra locale e universale) e assimilazione da parte di
soggetti sociali e culture politiche che vanno in altre direzioni? È la magia
bianca che celebra la propria rivincita sulla magia nera coloniale, oppure
rischia di smarrire la propria energia vitale nell’abbraccio con falsi amici
(anche quando costoro sfoggiano credenziali ‘postcoloniali’?» (p. 95). La tensione
che si può riconoscere dentro il concetto di buen vivir è d’altronde il riflesso di una tensione più ampia, che
caratterizza – seppur in modo diverso – molte delle esperienze di governo sorte
in America Latina nell’ultimo quindicennio. Portati al potere anche dal
sostegno dei movimenti popolari, le nuove élite di sinistra – espresse in molti
casi dai sindacati – hanno mostrato un volto ‘modernizzatore’ che le ha spesso
condotte a divorziare dalla loro base originaria, a ‘disinteressarsi’ delle sue
mobilitazioni (e in questo senso il caso brasiliano è quantomeno emblematico).
Un’ulteriore domanda che emerge dal lavoro di
Formenti riguarda invece le formule adottate per interpretare la realtà di
movimenti al loro interno frammentari, composti da segmenti della classe media,
da settori fortemente scolarizzati, da Ong, ma anche da vaste componenti di
popolazione indigena. Da questo punto di vista Formenti critica senza
esitazioni la possibilità che simili realtà possano essere comprese utilizzando
la nozione post-operaista di «moltitudine» (pp. 107-108), ma ritiene che
neppure la nozione di «populismo», nella versione fornita da Ernesto Laclau,
possa essere di qualche utilità: come scrive Formenti, infatti, «l’ottimismo di
Laclau non regge alla prova della realtà storica dell’evoluzione del regime
correista (ma anche di altri, analoghi regimi) – una realtà in cui l’interesse
generale del popolo assume il volto arcigno della repressione delle opposizioni
di sinistra e del compromesso con gli interessi dei grandi gruppi industriali e
finanziari» (p. 107). In alternativa a questi schemi, Formenti propone di
utilizzare ancora il concetto operaista di «composizione di classe» (e in
particolare la dicotomia di «composizione tecnica» e «composizione politica»),
per interpretare i conflitti delle masse indigene e, in particolare, il loro
ruolo rispetto alle dinamiche dello sviluppo capitalistico che attraversano
l’America Latina. Ma in questo senso Formenti non sposa pienamente l’idea
secondo cui sarebbero proprio i contadini – e non gli operai – a poter assumere
un ruolo di ‘avanguardia’ anche politica. Piuttosto, sottolinea come il ruolo
dell’«identità culturale» possa essere compreso solo all’interno di un’indagine
più ampia, che prenda in considerazione gli effetti (sempre ambivalenti) che i
fattori identitari hanno (o possono avere) sullo sviluppo dei movimenti: «a
decidere se prevalga l’aspetto dell’indebolimento o del rafforzamento», scrive
per esempio, «sono, in ultima istanza, i rapporti di forza con gli altri strati
di classe: se l’egemonia pende dalla parte dell’antagonismo indigeno nei
confronti della civiltà capitalista, vince la magia nera, se viceversa pende
dalla parte dell’incivilimento del capitalismo attraverso il rafforzamento dei
diritti individuali, vince la magia nera» (p. 111).
Le radici del
popolo
Per
molti versi, l’analisi del caso equadoriano e in particolare l’ultimo capitolo
di Magia bianca magia nera possono
essere considerati come una sorta di sviluppo del ragionamento più generale
svolto da Formenti nel suo recente Utopie
letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013). In questo
volume, Formenti compiva infatti un ripensamento rispetto ad alcune sue tesi
precedenti: un ripensamento che non consisteva semplicemente in una
disillusione sulle potenzialità democratiche della Rete, ma investiva piuttosto
la convinzione secondo cui la forma di organizzazione ‘orizzontale’ sarebbe un
pregio che i movimenti contemporanei non dovrebbero intaccare. Proprio sulla
base di questo ripensamento critico, Formenti giungeva allora a riconoscere la
necessità di reintrodurre – in forme naturalmente molto caute – il nodo del
partito, ossia di un’organizzazione ‘verticale’ che sappia porsi il problema
del potere (per un esame del percorso di Formenti, fino a Utopie letali, rinvio ai due precedenti articoli Il viaggio di Hermes, in «maelstrom», 10
febbraio 2012, e Lenin a Pechino? in
«Tysm», vol. 10, n. 15, giugno 2014). Oltre ad attaccare alcune convinzioni del
«post-operaismo» (e tra queste soprattutto quella relativa all’efficacia
descrittiva del concetto di «moltitudine»), Formenti indirizzava una critica
piuttosto radicale alla riflessione compiuta da Laclau e in particolare alla
sua idea del «populismo». La critica che in Utopie
letali coinvolgeva soprattutto il versante teorico, in Magia bianca magia nera viene declinata invece con riferimento
specifico alla realtà del regime di Correa. Ed è anche in questa chiave che
l’indagine di Formenti sull’esperienza equadoriana risulta particolarmente
interessante.
Per quanto la nozione di «populismo» sia quasi
inafferrabile, l’esperienza di Correa – osserva Formenti – ne ripropone senza
dubbio alcuni elementi, come soprattutto l’«attacco frontale alla
partitocrazia», «il tentativo (riuscito) di creare un legame diretto fra leader
e masse», «il rifiuto di interpretare la ‘rivoluzione’ come lotta di classe»
(pp. 27-28). Ma la proposta politica di Correa può apparire populista
soprattutto perché sembra davvero dare forma politica alla sequenza che ha tracciato
teoricamente Laclau nella sua riflessione. Il filosofo di origine argentina,
prematuramente scomparso nel 2014, aveva infatti liberato la nozione dalle
connotazioni negative di cui il termine è gravato soprattutto in Europa,
assumendo il «populismo» come l’espressione paradigmatica della dinamica di
costruzione delle identità politiche. Ovviamente l’operazione di Laclau risente
dell’esperienza del peronismo argentino, e in particolare di quel processo
attraverso il quale negli anni Sessanta Juan Domingo Perón – allora in esilio
ed escluso dalla politica nazionale – divenne il ‘collante’ di tutti quei
compositi soggetti sociali che si opponevano ai governi anti-peronisti. Ma la
riflessione condotta da Laclau, e culminata nel 2005 in La ragione populista (Laterza, Roma – Bari, 2008), segue però anche
un itinerario più complesso, in cui sono tutt’altro che secondarie le influenze
del dibattito europeo sui ‘nuovi movimenti sociali’ e sull’ascesa del
neoliberismo. In effetti Laclau firmò insieme a Chantal Mouffe, alla metà degli
anni Ottanta, Egemonia e strategia
socialista (il Melangolo, Genova, 2011), uno dei libri più importanti
dell’intero dibattito ‘post-marxista’: un libro in cui, oltre ad abbandonare la
centralità delle categorie interpretative marxiane (soprattutto il conflitto
capitale-lavoro), veniva proposto un armamentario teorico che, di fatto,
avrebbe orientato tutta la riflessione successiva di Laclau. Il presupposto del
ragionamento – in estrema sintesi – era innanzitutto un attacco alle pretese di
scientificità del marxismo: un motivo non certo nuovo, che però veniva
declinato non tanto per pronunciare un addio all’idea di conflitto, quanto per
declinarla sul versante delle rappresentazioni simboliche. In sostanza, mentre
il marxismo (nelle sue molteplici varianti) aveva sempre ritenuto di poter
decifrare la posizione dei diversi settori di classe a partire da una
conoscenza della struttura ‘oggettiva’ della società, per Laclau e Mouffe era
indispensabile riconoscere come la società e dunque le stesse classi fossero in
realtà l’esito di rappresentazioni, e derivassero la loro identità da fattori
‘oggettivi’. E proprio per questo, recuperavano la nozione gramsciana di
«egemonia», sciogliendola però da qualsiasi legame con quanto rimaneva dell’apparato
marxista, per enfatizzare invece quegli elementi ‘soreliani’ che chiamavano in
causa il «mito», in quanto elemento di costruzione delle identità collettive (e
dunque delle classi). Procedendo su questo versante, Laclau poteva riformulare
– con solo qualche parziale aggiustamento rispetto all’impianto delineato negli
anni Ottanta – la nozione di «populismo», elevando un edificio teorico senza
dubbio affascinante, nel quale tutti i diversi riferimenti – Gramsci, Freud,
Lacan – erano però utilizzati come semplici ‘materiali da costruzione’
(dichiaratamente senza alcun riguardo per la fedeltà e per il rigore
filologico). Alla fine, la costruzione del «popolo» appare per molti versi come
una sorta di operazione ‘linguistica’, o meglio come un lavoro che si svolge
interamente sul terreno delle rappresentazioni. Perché il «popolo» (che non
promana da alcuna essenza ‘originaria’, né tantomeno da determinazioni sociali)
si forma per effetto di «catene equivalenziali» che possono ancorarsi a un
«significante vuoto», la cui forza attrattiva è direttamente proporzionale al
fatto stesso che quel significante sia davvero ‘vuoto’ (per una discussione
della teoria di Laclau è da vedere quantomeno il volume Populismo e democrazia radicale, a cura di Marco Baldassari e Diego
Melegari, Ombre corte, Verona, 2012).
Benché sia stata sviluppata soprattutto sul versante
della teoria politica, la riflessione di Laclau si è incontrata con il nuovo
corso della politica latino-americana. E così, se in Argentina Laclau ha per
esempio sostenuto con forza il ‘kirchnerismo’, il suo schema è stato utilizzato
anche altrove per fornire una sorta di legittimazione dottrinaria ai nuovi
governi di sinistra. Nonostante i problemi e le contraddizioni che incontra il
‘nuovo corso’ della politica latino-americana, il successo del ‘nuovo’
populismo è giunto anche in Europa. Nel Vecchio continente le riserve sulla
stessa nozione di «populismo» rimangono ancora molto forti, in special modo fra
i settori che si richiamano alle diverse tradizioni della «sinistra», e non è
per questo sorprendente che spesso lo stesso pensiero di Laclau sia stato
frainteso. D’altronde in Europa quando si evoca il «populismo» di solito non ci
si riferisce tanto a movimenti ‘popolari’, o che puntino a difendere le ‘classi
popolari’, bensì a tendenze politiche che utilizzano retoriche ‘demagogiche’, o
che propongono un’immagine del ‘popolo’ come entità definita da fattori ben
precisi, da un’identità ‘originaria’ e spesso anche da una ‘purezza’ da
preservare. Che anche per questo lo spettro del ‘populismo’ – quasi
onnipresente nel dibattito politico – sia di fatto inafferrabile, è quasi
scontato, ed è confermato anche dal fatto che gli studiosi che ne ricercano le
tracce finiscano col ritrovarne più o meno in tutti i movimenti politici del
passato e del presente (un esempio è offerto in questo senso dal recente
volumetto di Nicola Tranfaglia, Populismo.
Un carattere originale nella storia d’Italia, Castelvecchi, Roma, 2014). Ma
se la categoria di «populismo» continua a essere utilizzata per individuare
movimenti di cui di solito si vogliono mettere in luce le componenti più o meno
scopertamente antidemocratiche, non sono mancati tentativi di declinare la
nozione anche in una versione diversa, in cui il «populismo» assume una connotazione
positiva, proprio come nella riflessione di Laclau. A questo proposito
l’esperimento forse più significativo è quello di Podemos, un caso su cui
comprensibilmente si sono negli ultimi mesi concentrate le attenzioni di molti
osservatori. In effetti, benché Podemos possa essere inteso come una filiazione
del movimento degli Indignados, questo partito può anche essere interpretato
soprattutto come il risultato di un esperimento di ‘costruzione (simbolica) del
popolo’ compiuto da parte di un ristretto gruppo di intellettuali (alcuni dei
quali giovani accademici). Un esperimento in cui non è difficile trovare una
sorta di esplicitazione della logica delineata da Laclau (da questo punto di
vista si può leggere il ricordo dedicato al pensatore argentino da Íñigo
Errejón Galván, giovane politologo dell’Università Complutense di Madrid e
membro del gruppo fondatore di Podemos: I. Errejón, Muere Ernesto Laclau, teórico de la hegemonía, in «Público», 14
aprile 2014). E, soprattutto, un esperimento in cui – specie sul terreno della
ridefinizione linguistica e simbolica della tradizione della ‘sinistra’ –
giocano un peso tutt’altro che secondario proprio le esperienze dell’Equador di
Correa, della Bolivia di Morales e del Venezuela di Chavez (d’altronde, proprio
attorno ai finanziamenti ricevuti da alcuni dei fondatori dell’organizzazione
da parte del governo venezuelano sono nate alcune delle prime difficoltà).
Naturalmente sarebbe ingenuo far discendere i limiti di queste
esperienze da una matrice dottrinaria (che peraltro non è affatto così
definita). Ma è però piuttosto chiaro che gli esperimenti di ‘nuovo populismo’
si trovano già oggi (soprattutto per quanto riguarda l’Equador di Correa) di
fronte a difficoltà che palesano alcuni dei limiti principali della teoria di
Laclau. Limiti che sono evidenti soprattutto nel sostanziale disinteresse del
teorico argentino nei confronti delle risorse materiali di potere di cui i
soggetti possono effettivamente disporre. A ben guardare, infatti, la teoria di
Laclau tende a dare per scontato che il confronto tra identità collettive
avvenga sul terreno delle istituzioni statali, dunque – almeno implicitamente –
che il confronto sia sempre interno alla dimensione nazionale, e infine che le
istituzioni statali dispongano di risorse per agire nella società, anche se
quest’ultimo è in realtà un elemento che Laclau non sviluppa se non
incidentalmente (per un’argomentazione più compiuta di questa lettura, rinvio a
Il principe populista, in Populismo e democrazia radicale, cit.).
Ma è invece a questo proposito che il modello – che funziona efficacemente sul
versante della spiegazione dei meccanismi di ‘costruzione’ del popolo –
incontra le maggiori difficoltà: innanzitutto perché si trova costretto a
‘presupporre’ uno spazio economico ‘nazionale’, sostanzialmente impermeabile
agli attori esterni, e dunque a immaginare una ‘sovranità’ anche economica
analoga a quella che immaginavano i teorici della dipendenza quando auspicavano
l’indebolimento dei legami con i paesi industrializzati e un’industrializzazione
sostitutiva delle importazioni; in secondo luogo, perché sopravvaluta il nodo
della effettiva capacità dello Stato di agire sul terreno economico,
consolidando nel tempo la propria egemonia. Ed è invece proprio con questi
problemi che si sono trovati a fare i conti tutti i nuovi regimi di sinistra
latino-americani, ovviamente mostrando una ben differente efficacia. Se infatti
il Brasile ha conquistato notevoli margini di manovra, anche grazie al suo
ruolo di potenza emergente sul piano regionale, l’Equador di Correa – come
sottolinea Formenti – non ha potuto evitare di utilizzare la ‘vecchia’ carta
del petrolio, volgendosi ai prestiti cinesi per aggirare la morsa del
Washington Consensus (oltre che per difendersi dalle mire egemoniche brasiliane),
ma così rinunciando ad avviare il Paese verso una nuova strategia di sviluppo.
Tanto che ora, di fatto, «l’Equador è un Paese ‘accerchiato’ che non sconta
solo la scarsa volontà politica del governo di proseguire sulla via
rivoluzionaria tracciata dalla Costituzione, ma anche lo status i piccola nazione, che lo costringe a barcamenarsi fra le
pressioni di potenti interessi internazionali in competizione fra loro» (p.
79).
Il bilancio sul futuro dell’Equador non può che rimanere sospeso, anche
se è chiaro che molti indizi gettano più di qualche dubbio sulla possibilità
che le molte promesse della Costituzione di Montecristi vengano mantenute
(questi indizi dopo la pubblicazione del libro di Formenti sono stati peraltro
ulteriormente confermati dalle iniziative adottate da Correa, sia in relazione
agli oppositori, sia a proposito del settore petrolifero, il cui controllo
diventa sempre più decisivo per conservare il consenso). Al di là delle
difficoltà che sperimenta il governo di Correa e della possibilità – tutt’altro
che remota – che imbocchi la strada che conduce a una svolta pienamente
autoritaria, l’Equador rimane senza dubbio un osservatorio interessante sia per
comprendere le potenzialità e i limiti del nuovo corso latino-americano, sia
per decifrare la ridefinizione degli equilibri di una regione in cui il declino
relativo americano si incontra sempre più con l’ascesa della Cina e con le mire
egemoniche brasiliane. Ma forse, a quanti guardano all’esperienza di Correa
come al laboratorio di un nuovo populismo ‘di sinistra’ da esportare anche nel
Vecchio continente, il caso dell’Equador può suggerire anche una serie di
interrogativi tutt’altro che residuali. Interrogativi che non riguardano
l’abilità comunicativa di leader carismatici come Correa, l’efficacia retorica
della lotta contro la «casta» e contro il sistema dei partiti, o la stessa
battaglia contro l’austerity e le politiche neo-liberiste. Ma che coinvolgono
direttamente il ‘potere’, e dunque – più o meno implicitamente – la capacità dei
livelli istituzionali di guidare i processi sociali, di ‘controllare’ le
dinamiche economiche e dunque di avviare processi di sviluppo più o meno
duraturi.
Alcuni anni fa, in una conversazione con Franco Berardi, Formenti
diceva che «è indispensabile tornare a riflettere sulla questione dello Stato»,
e «il fatto che oggi non si ragioni più in termini di Stato nazione ma di governance globale» non può esimerci
«dal fare i conti con la questione della ‘statualità’» (F. Berardi Bifo – C.
Formenti, L’eclissi. Dialogo precario
sulla crisi della civiltà capitalistica, Manni, Lecce, 2011, p. 39). Si
tratta in effetti di una questione – in cui tornano ad aggrovigliarsi tutti i
fili dell’autonomia del ‘politico’ – rimossa per almeno un ventennio dalla
retorica sulla globalizzazione, la quale di fatto si traduceva nell’idea che i
governi nazionali non potessero esercitare alcuna forma di controllo sui flussi
di capitali, e che dunque l’unica soluzione fosse di adeguare la società alla
competizione globale. Ma si tratta di una questione che anche la teoria del
populismo di Laclau, insieme d’altronde a buona parte della riflessione
radicale contemporanea, tende a rimuovere in modo speculare, quasi che la
globalizzazione di cui si è tanto parlato sia solo una ‘rappresentazione’, e
che per provocarne la dissoluzione sia sufficiente dichiarare la ‘falsità’
delle ideologie che la celebrano. E invece, molto probabilmente, sono proprio
questi i nodi di cui – senza concessioni retoriche, e senza nessun omaggio a
‘classici’ più o meno lontani e rispettabili – varrebbe finalmente la pena
tornare a discutere.
Damiano Palano
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