giovedì 25 giugno 2015

Si può ancora essere realisti? Un volume sul "realismo politico" curato da Alessandro Campi e Stefano De Luca

di Damiano Palano


Questa recensione al volume curato da Alessandro Campi e Stefano De Luca, Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca (Rubbettino, pp. 972, euro 28.00) è apparsa su "Avvenire" di mercoledì 24 giugno 2015.

Nel settembre 1939, proprio mentre scoppiava la guerra, Edward H. Carr pubblicava The Twenty Years’ Crisis: 1919-1939. In quel libro il futuro storico dell’Unione Sovietica non si limitava a ripercorrere le vicende del ventennio seguito al primo conflitto mondiale. La sua ambizione era infatti di fondare una scienza della politica internazionale effettivamente ‘realistica’. Quel libro diede origine alla contrapposizione tra realisti e liberali che ancora oggi domina il campo nella politologia internazionalista. Ma l’analisi ‘realistica’ della politica aveva alle spalle una storia ben più lunga, perché le prime tracce di quello sguardo possono essere ritrovate in Tucidide e nella sua storia della guerra del Peloponneso.
Uno strumento fondamentale per riflettere su questa prospettiva di analisi è ora offerto dall’imponente volume Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca, curato da Alessandro Campi e Stefano De Luca (Rubbettino, pp. 972, euro 28.00). Nel libro – che nasce dall’esperienza della “Rivista di Politica”, fondata nel 2010 – sono accolti più di cinquanta contributi. E tra questi soprattutto i testi introduttivi – firmati per esempio da Carlo Mongardini, Lorenzo Ornaghi, Angelo Panebianco, Pier Paolo Portinaro – sono utili per riconoscere gli elementi cruciali del realismo politico. Elementi che comprendono senza dubbio la convinzione secondo cui la storia è segnata da ‘regolarità’ che tendono a ripresentarsi ciclicamente. E che si basano su una specifica antropologia (spesso venata da un forte pessimismo), secondo la quale ogni essere umano tende invariabilmente a ricercare la sicurezza, l’onore e l’utile.
Al di là dei motivi comuni, la prospettiva realista è stata però declinata davvero in moltissime direzioni. Basti pensare al fatto che possono essere arruolati sotto le bandiere di questo magmatico filone pensatori fra loro notevolmente distanti – non solo temporalmente – come Sant’Agostino e Thomas Hobbes, Baruch Spinoza e Max Weber, Francesco Guicciardini e Carl Schmitt, Jean Bodin e Vilfredo Pareto. D’altronde il realismo non è una vera e propria corrente di pensiero, ma forse soltanto un modo di guardare alla politica, da cui possono scaturire linee d’azione molto diverse. Perché lo sguardo disincantato del realismo può tradursi nel cinismo della politica di potenza, nel fatalismo rassegnato o nell’esaltazione del ruolo creativo delle minoranze. D’altronde anche il realismo di Machiavelli – che pure esplicitò nel Principe la volontà di attenersi rigorosamente alla “verità effettuale della cosa” – era volto a un progetto di trasformazione della realtà (che paradossalmente si sarebbe rivelato del tutto irrealistico). Ma forse questo è il destino di molti cultori del realismo politico. Perché probabilmente – come notava lo stesso Carr – l’impossibilità di essere realisti davvero coerenti “è una delle più sicure e curiose lezioni della scienza politica”.

Damiano Palano

martedì 23 giugno 2015

Costruire il «popolo». Il nuovo populismo di Rafael Correa nel laboratorio dell’America Latina (leggendo un libro di Carlo Formenti)



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Carlo Formenti, Magia bianca magia nera. Ecuador: la guerra fra culture come guerra di classe (Jaca Book, pp. 116, euro 12.00), è apparsa su Tysm il 5 giugno 2015.

 
Il ritorno del «popolo»

«I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa! Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare. Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari. […] I movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore».
Nelle parole rivolte da Papa Francesco agli esponenti dei «movimenti popolari» guidati dal Presidente della Bolivia Evo Morales, nell’incontro in Vaticano del 28 ottobre 2014, molti dei più critici osservatori del nuovo pontificato hanno ravvisato i segni di una cultura ostile al mercato e ai principi del liberalismo, se non addirittura le tracce di quelle concessioni al marxismo che tanto peso ebbero nella vicenda della Teologia della Liberazione, fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Un vaticanista come Sandro Magister ha persino ravvisato delle singolari analogie tra le formule di Papa Francesco e la visione dell’ordine mondiale che emerge da Empire di Michael Hardt e Antonio Negri, perché tanto il pontefice quanto i due autori radicali «individuano la sovranità mondiale in un dominio transnazionale del denaro, che alimenta le guerre per ingrossare i profitti, contro il quale solo la moltitudine dei ‘movimenti popolari’ può portare a una ‘riappropriazione della democrazia’ non formale ma sostanziale» (S. Magister, Il pendolo di Bergoglio, tra capitalismo e rivoluzione, in «L’Espresso», 19 dicembre 2014). Ovviamente un simile accostamento è solo una provocazione, di cui peraltro non è difficile trovare ulteriori (e ben più violente) espressioni nelle critiche al pontificato di Bergoglio che giungono da molti ambienti conservatori. Forse, più che sulle presunte affinità col marxismo del nuovo pontefice, sarebbe da ricordare come molti autori ‘post-marxisti’ – e tra questi naturalmente proprio Hardt e Negri – abbiano negli ultimi anni attinto a piene mani al linguaggio della spiritualità cristiana, ritrovando in Francesco d’Assisi il paradigma per una politica radicale adeguata al XX secolo. Ma non è neppure da dimenticare come altri interpreti del magistero di papa Bergoglio abbiano enfatizzato ben diverse componenti, quali per esempio l’influenza del peronismo, un tutt’altro che ostile atteggiamento nei confronti dell’economia di mercato, o infine – un aspetto su cui forse si dovrebbe riflettere con maggiore attenzione – il ruolo della cosiddetta «Teologia del Popolo».
Se la discussione sulle matrici dottrinarie di papa Francesco è destinata a continuare a lungo, è piuttosto evidente che molti dei riferimenti ai «movimenti popolari» e alle componenti distruttive del mercato rischiano di essere in larga parte fraintesi se non vengono collocati nel quadro delle esperienze che l’America Latina ha vissuto nell’ultimo quindicennio, e in particolare all’interno di quella tendenza che è stata spesso interpretata come una sorta di «ritorno del popolo» (sia sotto il profilo dottrinario, sia sotto il profilo politico dell’affermazione di nuovi regimi ‘populisti’). A partire dall’inizio del nuovo secolo, i paesi latino-americani sono stati infatti un formidabile laboratorio di sperimentazione politica, nel quale hanno visto la luce formule politiche nuove, di segno spesso molto differente e peraltro difficilmente interpretabili con le categorie più consolidate della politica europea. I movimenti e gli esperimenti nati in Argentina dopo la grande crisi dell’inizio del secolo, la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chavez, il Brasile di Lula, la Bolivia di Morales non hanno infatti solo dato inizio a stagioni politiche che hanno rotto con la storia precedente di questi Paesi, ma sono spesso andate a coincidere anche con la sperimentazione di nuove formule di organizzazione politica e di partecipazione popolare. Ovviamente solo una forma di acritico ‘esotismo’ può indurre a trascurare le ambiguità e i fallimenti di queste esperienze. E solo con uno sguardo attento si possono invece ritrovare le contraddizioni all’interno delle quali si muovono, problematicamente, molti dei nuovi esperimenti politici.
È proprio con uno sguardo disposto a cogliere la novità, ma senza subirne il fascino, che Carlo Formenti nel suo libro più recente – Magia bianca magia nera. Equador: la guerra fra culture come guerra di classe (Jaca Book, pp. 116, euro 12.00) – si rivolge alla «Revolución Ciudadana» di Rafel Correa e al nuovo corso politico dell’Equador. Noto soprattutto per i suoi studi critici sulla «rivoluzione digitale», e in particolare per lavori come Incantati dalla Rete (Cortina, Milano, 2000), Mercanti di futuro (Einaudi, Torino, 2002) e Cybersoviet (Cortina, Milano, 2008), Formenti in questo caso propone innanzitutto una sorta di reportage su una realtà in trasformazione come quella equadoriana, raccogliendo le testimonianze di osservatori e protagonisti dei cambiamenti politici del Paese. E quello che emerge dall’analisi di Formenti è il costante, tutt’altro che sopito conflitto tra «magia bianca» e «magia nera»: un conflitto che non è solo fissato plasticamente nei due piani in cui si divide il Museo Nazionale di Quito, ma che rivive quotidianamente nel contrasto tra la cultura dei colonizzatori di origine europea e le culture indigene, nella contrapposizione tra le istanze di modernizzazione (economica e culturale) della società equadoriana e le rivendicazioni di autonomia provenienti dal mondo contadino, nella lotta per la stessa definizione del concetto di buen vivir. E Formenti giunge così a mettere in seria discussione la stessa formula del «socialismo del XXI secolo» che spesso viene utilizzata per interpretare (e celebrare) – insieme al Venezuela e alla Bolivia – il caso dell’Equador.

 
Genealogia di un esperimento politico

La ricostruzione di Formenti prende le mosse innanzitutto dal contesto in cui nasce l’avventura politica di Correa, e in particolare dal fallimento della Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Equador (Conaie): dopo essere stata fondata nel 1986 e aver conquistato un notevole peso politico, la Conaie nel 1995 decide di dar vita al partito Pachakutik, che si presenta alle elezioni presidenziali ma viene sconfitto al primo turno. In questo fallimento emergono i limiti della Conaie, capace di costringere i governi al dialogo mediante i levantamientos (grandi marce che conducono nelle strade di Quito centinaia di migliaia di persone e che bloccano le vie di comunicazione), ma incapace di incidere sul piano della competizione elettorale. La decisione di trasformarsi in partito segna, paradossalmente, la fine dell’egemonia della Conaie sui movimenti. Il Pachakutik nel 2003 appoggia inoltre il golpe del colonnello Gutiérrez, conquistando in cambio quattro ministeri. Anche il nuovo governo è però oggetto di radicali contestazioni popolari, tanto che nel 2005, a seguito di proteste cui partecipano anche ampi settori dei ceti medi urbani, Gutiérrez è costretto ad abbandonare il potere.
La personalità di Correa emerge proprio dal composito movimento del 2005, in cui si mischiano giovani studenti ed élite professionali, notabili e Ong. Cattolico di sinistra, laureato in economia e perfezionatosi in Europa e Stati Uniti, Correa diventa infatti ministro nel governo Palacio, dopo l’uscita di scena di Gutiérrez, ma si dimette dall’incarico per divergenze sulla linea di politica economica dell’esecutivo. In vista delle elezioni presidenziali, Correa decide di candidarsi, senza però il sostegno di un partito, bensì con il supporto del nuovo movimento Alianza Pais. Alla base del programma di Correa sono la «rivoluzione costituzionale», la lotta alla corruzione, il cambiamento nelle linee di politica economica e la riforma dell’istruzione e della sanità. Come sottolinea Formenti, il vero filo conduttore della campagna elettorale è «la lotta contro la partitocrazia, una piaga che, in ossequio al sentimento popolare che ha alimentato la sollevazione del 2005, viene presentata come la causa prima di tutti i mali che affliggono il Paese» (pp. 20-21). Alianza Pais, cui viene assegnato il compito di svolgere da macchina elettorale, è un movimento formato da ex dirigenti della sinistra tradizionale, da attivisti della nuova sinistra sociale, ma anche elementi del mondo cattolico: dunque, «una forza eterogenea amalgamata dall’antipartitismo, dal rifiuto del neoliberismo e dall’impegno a costruire ‘a tavolino’, sfruttando sofisticati strumenti comunicativi, una inedita figura di leader carismatico» (p. 21). La strategia si rivela vincente, e Correa riesce nel ballottaggio ad avere la meglio sull’imprenditore Alvaro Noboa. Giunto alla presidenza, Correa indice le elezioni per un’Assemblea Costituente, nella quale Ap ottiene ottanta rappresentanti su centrotrenta. I lavori  confluiscono nella cosiddetta «Costituzione di Montecristi», nella quale si confrontano (e scontrano) la visione ‘modernizzatrice’ di Correa e quella ‘ambientalista’ e ‘indigenista’ di Alberto Acosta, il presidente dell’Assemblea (e in origine tra i fondatori di Ap), il quale si batte per il riconoscimento del principio del buen vivir mutuato dalle culture indigene.
Anche se l’esperimento di Correa è ancora in una fase interlocutoria, le interviste raccolte da Formenti segnalano le ambiguità e le contraddizioni del regime di Correa, nel quale sono indubbiamente ravvisabili i segnali di una svolta autoritaria, di un precoce ‘tradimento’ dei principi di Montecristi e di una rottura del rapporto con i movimenti popolari (o quantomeno con alcune loro componenti rilevanti). Oltre agli elementi che sembrano preludere a una deriva autoritaria da parte di Correa, c’è anche un’altra enorme questione su cui le promesse del nuovo corso sembrano arrestarsi, e cioè il cambiamento del profilo economico del Paese, che in realtà – come nel passato – non sembra aver minimamente intaccato la propria dipendenza dall’estrazione di risorse energetiche. E in questo senso la voce forse più significativa raccolta da Formenti è quella dello stesso Costa, nel frattempo diventato uno dei principali esponenti dell’opposizione di sinistra, il quale stila un bilancio fortemente negativo dell’esperienza di Correa: «Qui non c’è stata nessuna rivoluzione, né, tantomeno, si sta costruendo qualcosa che possa essere definito socialismo del XXI secolo; nella migliore delle ipotesi, lo possiamo definire un regime post neoliberale, certamente non post capitalista. Agli occhi degli europei può sembrare un paradiso, se confrontato allo smantellamento del welfare in atto nel Vecchio Continente, ma la realtà è che vigono gli stessi modelli estrattivisti dell’era coloniale e, se è vero che i poveri stanno meno peggio, è altrettanto vero che i ricchi stanno molto meglio, per cui le diseguaglianze sono aumentate e non diminuite» (pp. 50-51).
La valutazione che fornisce Formenti della «Rivoluzione» di Correa è fortemente critica, anche se l’esperimento va comunque considerato come un’innovazione degna di attenzione. Il successo di Correa, il suo carisma mediatico, la polemica antipartitocratica, il suo rifiuto di ricondurre la «Revolución Ciudadana» nell’alveo del conflitto di classe sono infatti elementi che il regime equadoriano condivide con il nuovo populismo del XXI secolo, oltre che con forme politiche che anche l’Europa, con qualche anno di ritardo rispetto all’America Latina, ha cominciato a conoscere. Una prima di linea di riflessione critica articolata da Formenti non riguarda però in senso stretto il regime di Correa, quanto l’immagine del buen vivir che ha accompagnato almeno nella prima fase il nuovo corso dell’Equador e che ora viene rivendicata soprattutto dall’opposizione di sinistra, contro la ‘modernizzazione’ sostenuta dal governo. Il concetto di buen vivir è infatti declinato in modi molti diversi, soprattutto perché è stato riletto dalle élite bianche in una chiave che, armonizzandolo con i temi ambientalisti coltivati nel mondo intellettuale nord-americano, ne hanno snaturato per molti versi il significato originario, rendendo difficile capire se si tratti di un’operazione di assimilazione o della conquista di un’egemonia da parte dei movimenti ‘indigenisti’: «dove passa il confine fra egemonia rivoluzionaria di un movimento indigeno che si vuole, ad un tempo, identitario e di classe (con l’inevitabile tensione fra locale e universale) e assimilazione da parte di soggetti sociali e culture politiche che vanno in altre direzioni? È la magia bianca che celebra la propria rivincita sulla magia nera coloniale, oppure rischia di smarrire la propria energia vitale nell’abbraccio con falsi amici (anche quando costoro sfoggiano credenziali ‘postcoloniali’?» (p. 95). La tensione che si può riconoscere dentro il concetto di buen vivir è d’altronde il riflesso di una tensione più ampia, che caratterizza – seppur in modo diverso – molte delle esperienze di governo sorte in America Latina nell’ultimo quindicennio. Portati al potere anche dal sostegno dei movimenti popolari, le nuove élite di sinistra – espresse in molti casi dai sindacati – hanno mostrato un volto ‘modernizzatore’ che le ha spesso condotte a divorziare dalla loro base originaria, a ‘disinteressarsi’ delle sue mobilitazioni (e in questo senso il caso brasiliano è quantomeno emblematico).
Un’ulteriore domanda che emerge dal lavoro di Formenti riguarda invece le formule adottate per interpretare la realtà di movimenti al loro interno frammentari, composti da segmenti della classe media, da settori fortemente scolarizzati, da Ong, ma anche da vaste componenti di popolazione indigena. Da questo punto di vista Formenti critica senza esitazioni la possibilità che simili realtà possano essere comprese utilizzando la nozione post-operaista di «moltitudine» (pp. 107-108), ma ritiene che neppure la nozione di «populismo», nella versione fornita da Ernesto Laclau, possa essere di qualche utilità: come scrive Formenti, infatti, «l’ottimismo di Laclau non regge alla prova della realtà storica dell’evoluzione del regime correista (ma anche di altri, analoghi regimi) – una realtà in cui l’interesse generale del popolo assume il volto arcigno della repressione delle opposizioni di sinistra e del compromesso con gli interessi dei grandi gruppi industriali e finanziari» (p. 107). In alternativa a questi schemi, Formenti propone di utilizzare ancora il concetto operaista di «composizione di classe» (e in particolare la dicotomia di «composizione tecnica» e «composizione politica»), per interpretare i conflitti delle masse indigene e, in particolare, il loro ruolo rispetto alle dinamiche dello sviluppo capitalistico che attraversano l’America Latina. Ma in questo senso Formenti non sposa pienamente l’idea secondo cui sarebbero proprio i contadini – e non gli operai – a poter assumere un ruolo di ‘avanguardia’ anche politica. Piuttosto, sottolinea come il ruolo dell’«identità culturale» possa essere compreso solo all’interno di un’indagine più ampia, che prenda in considerazione gli effetti (sempre ambivalenti) che i fattori identitari hanno (o possono avere) sullo sviluppo dei movimenti: «a decidere se prevalga l’aspetto dell’indebolimento o del rafforzamento», scrive per esempio, «sono, in ultima istanza, i rapporti di forza con gli altri strati di classe: se l’egemonia pende dalla parte dell’antagonismo indigeno nei confronti della civiltà capitalista, vince la magia nera, se viceversa pende dalla parte dell’incivilimento del capitalismo attraverso il rafforzamento dei diritti individuali, vince la magia nera» (p. 111).

Le radici del popolo


Per molti versi, l’analisi del caso equadoriano e in particolare l’ultimo capitolo di Magia bianca magia nera possono essere considerati come una sorta di sviluppo del ragionamento più generale svolto da Formenti nel suo recente Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013). In questo volume, Formenti compiva infatti un ripensamento rispetto ad alcune sue tesi precedenti: un ripensamento che non consisteva semplicemente in una disillusione sulle potenzialità democratiche della Rete, ma investiva piuttosto la convinzione secondo cui la forma di organizzazione ‘orizzontale’ sarebbe un pregio che i movimenti contemporanei non dovrebbero intaccare. Proprio sulla base di questo ripensamento critico, Formenti giungeva allora a riconoscere la necessità di reintrodurre – in forme naturalmente molto caute – il nodo del partito, ossia di un’organizzazione ‘verticale’ che sappia porsi il problema del potere (per un esame del percorso di Formenti, fino a Utopie letali, rinvio ai due precedenti articoli Il viaggio di Hermes, in «maelstrom», 10 febbraio 2012, e Lenin a Pechino? in «Tysm», vol. 10, n. 15, giugno 2014). Oltre ad attaccare alcune convinzioni del «post-operaismo» (e tra queste soprattutto quella relativa all’efficacia descrittiva del concetto di «moltitudine»), Formenti indirizzava una critica piuttosto radicale alla riflessione compiuta da Laclau e in particolare alla sua idea del «populismo». La critica che in Utopie letali coinvolgeva soprattutto il versante teorico, in Magia bianca magia nera viene declinata invece con riferimento specifico alla realtà del regime di Correa. Ed è anche in questa chiave che l’indagine di Formenti sull’esperienza equadoriana risulta particolarmente interessante.
Per quanto la nozione di «populismo» sia quasi inafferrabile, l’esperienza di Correa – osserva Formenti – ne ripropone senza dubbio alcuni elementi, come soprattutto l’«attacco frontale alla partitocrazia», «il tentativo (riuscito) di creare un legame diretto fra leader e masse», «il rifiuto di interpretare la ‘rivoluzione’ come lotta di classe» (pp. 27-28). Ma la proposta politica di Correa può apparire populista soprattutto perché sembra davvero dare forma politica alla sequenza che ha tracciato teoricamente Laclau nella sua riflessione. Il filosofo di origine argentina, prematuramente scomparso nel 2014, aveva infatti liberato la nozione dalle connotazioni negative di cui il termine è gravato soprattutto in Europa, assumendo il «populismo» come l’espressione paradigmatica della dinamica di costruzione delle identità politiche. Ovviamente l’operazione di Laclau risente dell’esperienza del peronismo argentino, e in particolare di quel processo attraverso il quale negli anni Sessanta Juan Domingo Perón – allora in esilio ed escluso dalla politica nazionale – divenne il ‘collante’ di tutti quei compositi soggetti sociali che si opponevano ai governi anti-peronisti. Ma la riflessione condotta da Laclau, e culminata nel 2005 in La ragione populista (Laterza, Roma – Bari, 2008), segue però anche un itinerario più complesso, in cui sono tutt’altro che secondarie le influenze del dibattito europeo sui ‘nuovi movimenti sociali’ e sull’ascesa del neoliberismo. In effetti Laclau firmò insieme a Chantal Mouffe, alla metà degli anni Ottanta, Egemonia e strategia socialista (il Melangolo, Genova, 2011), uno dei libri più importanti dell’intero dibattito ‘post-marxista’: un libro in cui, oltre ad abbandonare la centralità delle categorie interpretative marxiane (soprattutto il conflitto capitale-lavoro), veniva proposto un armamentario teorico che, di fatto, avrebbe orientato tutta la riflessione successiva di Laclau. Il presupposto del ragionamento – in estrema sintesi – era innanzitutto un attacco alle pretese di scientificità del marxismo: un motivo non certo nuovo, che però veniva declinato non tanto per pronunciare un addio all’idea di conflitto, quanto per declinarla sul versante delle rappresentazioni simboliche. In sostanza, mentre il marxismo (nelle sue molteplici varianti) aveva sempre ritenuto di poter decifrare la posizione dei diversi settori di classe a partire da una conoscenza della struttura ‘oggettiva’ della società, per Laclau e Mouffe era indispensabile riconoscere come la società e dunque le stesse classi fossero in realtà l’esito di rappresentazioni, e derivassero la loro identità da fattori ‘oggettivi’. E proprio per questo, recuperavano la nozione gramsciana di «egemonia», sciogliendola però da qualsiasi legame con quanto rimaneva dell’apparato marxista, per enfatizzare invece quegli elementi ‘soreliani’ che chiamavano in causa il «mito», in quanto elemento di costruzione delle identità collettive (e dunque delle classi). Procedendo su questo versante, Laclau poteva riformulare – con solo qualche parziale aggiustamento rispetto all’impianto delineato negli anni Ottanta – la nozione di «populismo», elevando un edificio teorico senza dubbio affascinante, nel quale tutti i diversi riferimenti – Gramsci, Freud, Lacan – erano però utilizzati come semplici ‘materiali da costruzione’ (dichiaratamente senza alcun riguardo per la fedeltà e per il rigore filologico). Alla fine, la costruzione del «popolo» appare per molti versi come una sorta di operazione ‘linguistica’, o meglio come un lavoro che si svolge interamente sul terreno delle rappresentazioni. Perché il «popolo» (che non promana da alcuna essenza ‘originaria’, né tantomeno da determinazioni sociali) si forma per effetto di «catene equivalenziali» che possono ancorarsi a un «significante vuoto», la cui forza attrattiva è direttamente proporzionale al fatto stesso che quel significante sia davvero ‘vuoto’ (per una discussione della teoria di Laclau è da vedere quantomeno il volume Populismo e democrazia radicale, a cura di Marco Baldassari e Diego Melegari, Ombre corte, Verona, 2012).
Benché sia stata sviluppata soprattutto sul versante della teoria politica, la riflessione di Laclau si è incontrata con il nuovo corso della politica latino-americana. E così, se in Argentina Laclau ha per esempio sostenuto con forza il ‘kirchnerismo’, il suo schema è stato utilizzato anche altrove per fornire una sorta di legittimazione dottrinaria ai nuovi governi di sinistra. Nonostante i problemi e le contraddizioni che incontra il ‘nuovo corso’ della politica latino-americana, il successo del ‘nuovo’ populismo è giunto anche in Europa. Nel Vecchio continente le riserve sulla stessa nozione di «populismo» rimangono ancora molto forti, in special modo fra i settori che si richiamano alle diverse tradizioni della «sinistra», e non è per questo sorprendente che spesso lo stesso pensiero di Laclau sia stato frainteso. D’altronde in Europa quando si evoca il «populismo» di solito non ci si riferisce tanto a movimenti ‘popolari’, o che puntino a difendere le ‘classi popolari’, bensì a tendenze politiche che utilizzano retoriche ‘demagogiche’, o che propongono un’immagine del ‘popolo’ come entità definita da fattori ben precisi, da un’identità ‘originaria’ e spesso anche da una ‘purezza’ da preservare. Che anche per questo lo spettro del ‘populismo’ – quasi onnipresente nel dibattito politico – sia di fatto inafferrabile, è quasi scontato, ed è confermato anche dal fatto che gli studiosi che ne ricercano le tracce finiscano col ritrovarne più o meno in tutti i movimenti politici del passato e del presente (un esempio è offerto in questo senso dal recente volumetto di Nicola Tranfaglia, Populismo. Un carattere originale nella storia d’Italia, Castelvecchi, Roma, 2014). Ma se la categoria di «populismo» continua a essere utilizzata per individuare movimenti di cui di solito si vogliono mettere in luce le componenti più o meno scopertamente antidemocratiche, non sono mancati tentativi di declinare la nozione anche in una versione diversa, in cui il «populismo» assume una connotazione positiva, proprio come nella riflessione di Laclau. A questo proposito l’esperimento forse più significativo è quello di Podemos, un caso su cui comprensibilmente si sono negli ultimi mesi concentrate le attenzioni di molti osservatori. In effetti, benché Podemos possa essere inteso come una filiazione del movimento degli Indignados, questo partito può anche essere interpretato soprattutto come il risultato di un esperimento di ‘costruzione (simbolica) del popolo’ compiuto da parte di un ristretto gruppo di intellettuali (alcuni dei quali giovani accademici). Un esperimento in cui non è difficile trovare una sorta di esplicitazione della logica delineata da Laclau (da questo punto di vista si può leggere il ricordo dedicato al pensatore argentino da Íñigo Errejón Galván, giovane politologo dell’Università Complutense di Madrid e membro del gruppo fondatore di Podemos: I. Errejón, Muere Ernesto Laclau, teórico de la hegemonía, in «Público», 14 aprile 2014). E, soprattutto, un esperimento in cui – specie sul terreno della ridefinizione linguistica e simbolica della tradizione della ‘sinistra’ – giocano un peso tutt’altro che secondario proprio le esperienze dell’Equador di Correa, della Bolivia di Morales e del Venezuela di Chavez (d’altronde, proprio attorno ai finanziamenti ricevuti da alcuni dei fondatori dell’organizzazione da parte del governo venezuelano sono nate alcune delle prime difficoltà).
Naturalmente sarebbe ingenuo far discendere i limiti di queste esperienze da una matrice dottrinaria (che peraltro non è affatto così definita). Ma è però piuttosto chiaro che gli esperimenti di ‘nuovo populismo’ si trovano già oggi (soprattutto per quanto riguarda l’Equador di Correa) di fronte a difficoltà che palesano alcuni dei limiti principali della teoria di Laclau. Limiti che sono evidenti soprattutto nel sostanziale disinteresse del teorico argentino nei confronti delle risorse materiali di potere di cui i soggetti possono effettivamente disporre. A ben guardare, infatti, la teoria di Laclau tende a dare per scontato che il confronto tra identità collettive avvenga sul terreno delle istituzioni statali, dunque – almeno implicitamente – che il confronto sia sempre interno alla dimensione nazionale, e infine che le istituzioni statali dispongano di risorse per agire nella società, anche se quest’ultimo è in realtà un elemento che Laclau non sviluppa se non incidentalmente (per un’argomentazione più compiuta di questa lettura, rinvio a Il principe populista, in Populismo e democrazia radicale, cit.). Ma è invece a questo proposito che il modello – che funziona efficacemente sul versante della spiegazione dei meccanismi di ‘costruzione’ del popolo – incontra le maggiori difficoltà: innanzitutto perché si trova costretto a ‘presupporre’ uno spazio economico ‘nazionale’, sostanzialmente impermeabile agli attori esterni, e dunque a immaginare una ‘sovranità’ anche economica analoga a quella che immaginavano i teorici della dipendenza quando auspicavano l’indebolimento dei legami con i paesi industrializzati e un’industrializzazione sostitutiva delle importazioni; in secondo luogo, perché sopravvaluta il nodo della effettiva capacità dello Stato di agire sul terreno economico, consolidando nel tempo la propria egemonia. Ed è invece proprio con questi problemi che si sono trovati a fare i conti tutti i nuovi regimi di sinistra latino-americani, ovviamente mostrando una ben differente efficacia. Se infatti il Brasile ha conquistato notevoli margini di manovra, anche grazie al suo ruolo di potenza emergente sul piano regionale, l’Equador di Correa – come sottolinea Formenti – non ha potuto evitare di utilizzare la ‘vecchia’ carta del petrolio, volgendosi ai prestiti cinesi per aggirare la morsa del Washington Consensus (oltre che per difendersi dalle mire egemoniche brasiliane), ma così rinunciando ad avviare il Paese verso una nuova strategia di sviluppo. Tanto che ora, di fatto, «l’Equador è un Paese ‘accerchiato’ che non sconta solo la scarsa volontà politica del governo di proseguire sulla via rivoluzionaria tracciata dalla Costituzione, ma anche lo status i piccola nazione, che lo costringe a barcamenarsi fra le pressioni di potenti interessi internazionali in competizione fra loro» (p. 79).
Il bilancio sul futuro dell’Equador non può che rimanere sospeso, anche se è chiaro che molti indizi gettano più di qualche dubbio sulla possibilità che le molte promesse della Costituzione di Montecristi vengano mantenute (questi indizi dopo la pubblicazione del libro di Formenti sono stati peraltro ulteriormente confermati dalle iniziative adottate da Correa, sia in relazione agli oppositori, sia a proposito del settore petrolifero, il cui controllo diventa sempre più decisivo per conservare il consenso). Al di là delle difficoltà che sperimenta il governo di Correa e della possibilità – tutt’altro che remota – che imbocchi la strada che conduce a una svolta pienamente autoritaria, l’Equador rimane senza dubbio un osservatorio interessante sia per comprendere le potenzialità e i limiti del nuovo corso latino-americano, sia per decifrare la ridefinizione degli equilibri di una regione in cui il declino relativo americano si incontra sempre più con l’ascesa della Cina e con le mire egemoniche brasiliane. Ma forse, a quanti guardano all’esperienza di Correa come al laboratorio di un nuovo populismo ‘di sinistra’ da esportare anche nel Vecchio continente, il caso dell’Equador può suggerire anche una serie di interrogativi tutt’altro che residuali. Interrogativi che non riguardano l’abilità comunicativa di leader carismatici come Correa, l’efficacia retorica della lotta contro la «casta» e contro il sistema dei partiti, o la stessa battaglia contro l’austerity e le politiche neo-liberiste. Ma che coinvolgono direttamente il ‘potere’, e dunque – più o meno implicitamente – la capacità dei livelli istituzionali di guidare i processi sociali, di ‘controllare’ le dinamiche economiche e dunque di avviare processi di sviluppo più o meno duraturi.
Alcuni anni fa, in una conversazione con Franco Berardi, Formenti diceva che «è indispensabile tornare a riflettere sulla questione dello Stato», e «il fatto che oggi non si ragioni più in termini di Stato nazione ma di governance globale» non può esimerci «dal fare i conti con la questione della ‘statualità’» (F. Berardi Bifo – C. Formenti, L’eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalistica, Manni, Lecce, 2011, p. 39). Si tratta in effetti di una questione – in cui tornano ad aggrovigliarsi tutti i fili dell’autonomia del ‘politico’ – rimossa per almeno un ventennio dalla retorica sulla globalizzazione, la quale di fatto si traduceva nell’idea che i governi nazionali non potessero esercitare alcuna forma di controllo sui flussi di capitali, e che dunque l’unica soluzione fosse di adeguare la società alla competizione globale. Ma si tratta di una questione che anche la teoria del populismo di Laclau, insieme d’altronde a buona parte della riflessione radicale contemporanea, tende a rimuovere in modo speculare, quasi che la globalizzazione di cui si è tanto parlato sia solo una ‘rappresentazione’, e che per provocarne la dissoluzione sia sufficiente dichiarare la ‘falsità’ delle ideologie che la celebrano. E invece, molto probabilmente, sono proprio questi i nodi di cui – senza concessioni retoriche, e senza nessun omaggio a ‘classici’ più o meno lontani e rispettabili – varrebbe finalmente la pena tornare a discutere.

Damiano Palano

martedì 16 giugno 2015

Un aristocratico nel regno della paura. Le "Lettere dalla Russia" di Astolphe de Custine

di Damiano Palano
 
Questa recensione al volume di Astolphe de Custine, Lettere dalla Russia (Adeplhi, pp. 364, euro 20.00), è apparsa su "Avvenire" del 12 giugno 2015 (con il titolo Custine: la Russia del 1839, così simile all'Urss di Stalin. E a quella di oggi).

Nel 1835, al termine della Democrazia in America, Alexis de Tocqueville si spingeva a prevedere la futura ascesa globale della nuova potenza statunitense. Ma in quelle stesse pagine lo scrittore francese chiamava in causa anche la Russia. Entrambi quei popoli, scriveva Tocqueville, “sembrano chiamati da un disegno segreto della Provvidenza a tenere un giorno nelle loro mani i destini della metà del mondo”. Benché perseguissero un obiettivo comune, c’era però una differenza notevole fra il popolo americano e quello russo, perché il primo aveva “per mezzo di azione principale la libertà”, il secondo “la servitù”. Probabilmente proprio il grande successo conosciuto dal libro di Tocqueville indusse il raffinato aristocratico Astolphe de Custine (1790-1857) a rivolgere l’attenzione verso la Russia. Custine visitò infatti le terre dello Zar alcuni anni dopo e trasse dal viaggio La Russie en 1839, un volume apparso per la prima volta nel 1843 e proposto ora in traduzione italiana con il titolo Lettere dalla Russia (Adelphi, pp. 363, euro 20.00).
Come Tocqueville, anche Custine proveniva da un’antica famiglia aristocratica duramente colpita dalla rivoluzione. Inizialmente si era d’altronde rivolto alla Russia con lo sguardo del legittimista in polemica con la monarchia borghese. Presto i propositi iniziali si scontrarono però con una realtà piuttosto deludente. “Recatomi in Russia per cercarvi argomenti contro il governo rappresentativo”, confessava, “ne ritorno partigiano delle costituzioni”. A ben vedere, la disillusione cominciò già sul bastimento, poco dopo la partenza. Perché già qui – secondo il racconto (rielaborato) di Custine – il principe K*** gli presentò la Russia come un paese dominato dai costumi barbari e in ritardo di almeno quattro secoli sull’Europa. E, soprattutto, come un paese che non aveva subito né l’influsso cattolico né quello cavalleresco, nel quale invece la ferocia delle tribù asiatiche si era combinata con il culto bizantino dei rituali. La monarchia zarista appariva allora come l’opposto speculare dell’America di Tocqueville: “un’autocrazia idolatrica”, capace di produrre un livellamento fra i sudditi basato non sull’uguaglianza ma sulla completa sottomissione al sovrano, sulla dissimulazione, sull’inganno reciproco. Nel corso del proprio viaggio Custine non fece altro che trovare costanti conferme al quadro dipinto dal principe K***. E alla fine la vita dei russi gli appariva così “più triste della vita di qualsiasi altro popolo europeo”.
Osteggiato dalla critica e tenuto a distanza persino dai salotti parigini, un po’ come il proustiano barone di Charlus, Custine ottenne il successo letterario ormai cinquantenne proprio con La Russie en 1839. Ma il suo libro doveva essere riscoperto anche molto più tardi. Durante la Guerra fredda si doveva infatti riconoscere nel regno in cui dominava “il silenzio della paura” descritto da Custine un’anticipazione quasi profetica del terrore staliniano. E alla metà degli anni Settanta – quando Pierre Nora curò in Francia l’edizione ora riproposta da Adelphi – le vecchie pagine dal dandy aristocratico andarono ad alimentare la critica alla “nuova barbarie” totalitaria, che ravvisava una sostanziale linea di continuità tra l’autocrazia zarista e i gulag sovietici. Per motivi simili, a più di centosettant’anni dalla loro pubblicazione, è forte la tentazione di trovare nelle pagine di Custine una fotografia della Russia di oggi. Ma, a dispetto di tutti i meriti dello scrittore francese, è bene non dimenticare che La Russie en 1839 era soprattutto la conferma di un pregiudizio. Il viaggio durò d’altronde solo tre mesi, in cui Custine si limitò a visitare San Pietroburgo e Mosca, rifiutando di proseguire oltre. Il suo ritratto doveva però imprimersi nell’immaginario, consolidando l’idea di un regime dispotico fondato sulla paura e sul servilismo. E dal momento in cui apparvero le sue lettere, nessuno in Francia guardò più alla Russia come aveva fatto in precedenza.


Damiano Palano

domenica 7 giugno 2015

Il calo tendenziale del tasso di fiducia. Splendori e miserie dello storytelling secondo Christian Salmon



di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica.

«Molti di noi […] vengono oggi influenzati assai più di quanto non sospettino, e la nostra esistenza è sottoposta a continue manipolazioni di cui non ci rendiamo conto. Sono all’opera su vasta scala forze che si propongono, e spesso con successi sbalorditivi, di convogliare le nostre abitudini inconsce, le nostre preferenze di consumatori, i nostri meccanismi mentali, ricorrendo a metodi presi in prestito dalla psichiatria e dalle scienze sociali. È significativo che tali forze cerchino di agire su di noi a nostra insaputa, sì che i fili che ci fanno muovere sono spesso, in un certo senso, ‘occulti’». Le parole con cui alla fine degli anni Cinquanta Vance Packard apriva il suo celebre I persuasori occulti introducevano il lettore alle nuove tecniche di manipolazione dell’«inconscio» sfruttate dalla pubblicità commerciale, ma iniziava soprattutto a esplorare un campo in cui nei decenni seguenti sarebbero cresciute, oltre a molte ricerche fondamentali, anche numerose varianti, più o meno innovative, della «teoria della cospirazione». Il clima degli anni Cinquanta, l’esplosione della società dei consumi e l’irruzione della televisione nella vita quotidiana dovevano d’altronde rafforzare la sensazione che il cittadino delle democrazie occidentali andasse davvero trasformandosi – come avrebbe scritto dieci anni dopo Herbert Marcuse – in un «uomo a una dimensione», privo di capacità critiche e totalmente succube delle manipolazioni del sistema comunicativo. Naturalmente molte delle ipotesi avanzate allora da Packard sarebbero state in seguito sensibilmente ridimensionate, il potere dei «persuasori occulti» non si sarebbe rivelato così pervasivo come allora si temeva, e l’«uomo della strada» avrebbe conservato almeno qualche tracce di ‘multidimensionalità’ e dunque di autonomia critica. Ma le ricerche sulle tecniche di comunicazione, che allora iniziavano a prendere forma, non hanno cessato di riflettere sulle modalità con cui i media influenzano i cittadini, i loro comportamenti di consumo e naturalmente i loro atteggiamenti politici. 
A circa mezzo secolo di distanza dall’uscita dei Persuasori occulti, nel 2007 il ricercatore francese Christian Salmon pubblicava Storytelling. La machine à fabriquer les histoires et à formater le esprit (Paris, La Découverte, 2007; trad. it. Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi, Roma, 2008), un libro che in qualche misura si collocava nello stesso sentiero tracciato da Packard, sebbene si confrontasse con una realtà comunicativa molto diversa da quella degli anni Cinquanta. Se infatti Packard sottolineava soprattutto l’utilizzo per fini di potere delle conoscenze offerte dalla psicoanalisi (o quantomeno dalla ‘vulgata’ americana del pensiero freudiano), Salmon si soffermava invece sul potere delle «storie», e cioè sul potere della ‘narrazione’: un potere ‘scoperto’ dalla macchina comunicativa sul finire del XX secolo, e che secondo lo studioso francese aveva condotto rapidamente alla nascita di un «nuovo ordine narrativo». «Sotto l’immenso cumulo di racconti che le società moderne producono, si fa strada un ‘nuovo ordine narrativo’ (Non) che presiede alla formattazione dei desideri e alla propagazione di emozioni – attraverso la loro resa in forma narrativa, la loro indicizzazione e la loro archiviazione, la loro diffusione e la loro standardizzazione, la loro strumentalizzazione attraverso tutti i sistemi di controllo» (p. 199). Qualche mese dopo, la vittoria di Barack Obama alle elezioni presidenziali avrebbe segnato il trionfo dello storytelling anche in campo politico, e da allora la ‘narrazione’ – in forme spesso caricaturali – sarebbe diventata l’ossessione di ogni candidato e di ogni spin doctor. Ed è proprio per riflettere su quanto è accaduto dopo il 2008 che Salmon torna nuovamente a interrogarsi sulla forza e sulla debolezza di questa tecnica, nel suo La politica nell’era dello storytelling (Fazi, pp. 119, euro 16.00), un libro che merita sicuramente una lettura attenta, soprattutto per evitare di attribuire alla ‘narrazione’ quel potere che Packard riconosceva ai «persuasori occulti».
Se la vittoria di Obama ha indotto osservatori e politici a riconoscere il potere delle storie, Salmon richiama innanzitutto l’attenzione sul complesso di fattori che ha determinato il successo del senatore dell’Illinois nella lunga campagna che lo ha condotto alla Casa Bianca. «Ciò che ha determinato il successo di Obama non è solo la bella storia che ha raccontato agli elettori», scrive infatti Salmon, ma «è una performance complessa, tra rituale e strategia, capace in un solo tempo di connettere il candidato all’elettore, di focalizzare il dibattito, di lottare nel corso di tutta la campagna per il controllo dell’agenda, d’imporre una linea narrativa e, infine, di creare una propria rete di diffusione virale» (p. 35). Più precisamente, il buon esito di una performance narrativa deve sincronizzare quattro tipi di effetti, che Salmon definisce come «il quadrato magico della comunicazione politica»: «l’uso del racconto politico, ormai ben conosciuto sotto il nome di storytelling, ma anche la sua messa in scena; l’effetto subliminale del vocabolario impiegato, ma anche il sistema di immagini e di metafore; la gestione strategica dell’agenda mediatica, che deve obbedire alle leggi della tensione narrativa; l’effetto di contagio provocato dall’uso strategico di Internet e dei social network, la cosiddetta ‘Facebook politics’» (p. 38). Ma se questa precisazione contribuisce a relativizzare gli entusiasmi sul potere della ‘narrazione’, le argomentazioni di Salmon si concentrano soprattutto su un altro aspetto, che è principalmente il processo di erosione della fiducia nel potere cui stiamo assistendo. Un simile processo ha secondo lo scrittore francese due cause principali, che si alimentano a vicenda in un circolo vizioso: «da una parte la relativa impotenza degli Stati di fronte alla crisi del 2008. Dall’altra l’iper presenza mediatica dei governanti e il loro tentativo di controllare l’agenda per ‘romanzare’ l’azione politica. Così come l’inflazione monetaria rovina la credibilità di una valuta, l’inflazione di storie alla lunga erode la credibilità di un narratore politico» (p. 55).
Il «calo tendenziale del tasso di fiducia», come lo definisce efficacemente Salmon, è l’esito di quattro rivoluzioni, strettamente intrecciate, che hanno segnato gli ultimi trent’anni: «la rivoluzione neoliberista che ha trasformato il capitalismo», «la rivoluzione digitale», «la rivoluzione manageriale» e infine «una rivoluzione della soggettività, che si traduce, nella sottocultura di massa, nell’apparizione di un nuovo idealtipo che privilegia i valori di mobilità e flessibilità a quelli di fedeltà e radicamento» (p. 94). Ognuna di queste rivoluzioni ha una propria dimensione specifica, ma complessivamente convergono a determinare una serie di conseguenze, che Salmon riconduce a tre aspetti principali: «1. L’uomo di Stato si presenta ormai meno come una figura investita d’autorità che come qualcosa da consumare; meno come un’istanza produttrice di norme che come un artefatto della sottocultura di massa. 2. L’esercizio del potere, privato dei mezzi di intervento dalle procedure democratiche della deliberazione e della decisione, s’identifica ormai alla riuscita di una performance complessa in cui le antiche arti del racconto e le leggi della retorica si combinano alle nuove tecnologia della comunicazione e dell’informazione, così come alla possibilità, offerta dalle neuroscienze, di agire direttamente sui cervelli. 3. La scena politica muove dai luoghi della deliberazione e della decisione (forum cittadini, incontri di partito, assemblee elettive, ministeri) verso nuovi spazi di legittimazione (Tv, media e Internet). Dalla scena democratica sottoposta al principio della rappresentanza alla scena mediatica retta dalle leggi del simulacro. Il timing dei media si sostituisce al tempo lungo della deliberazione. L’agenda politica cede il posto all’agenda mediatica» (pp. 101-102).
Le trasformazioni della «neopolitica» rendono pressoché inevitabile, da parte del ceto politico, l’adozione di quelle regole che costringono alla ricerca costante di visibilità e all’evocazione di ‘storie’ con cui emozionare, affascinare, entusiasmare il «pubblico». Ma la sempre più marcata «visibilità» si scontra proprio con la sostanziale impotenza di cui soffrono oggi le istituzioni politiche nazionali nel controllare e guidare i processi economico-sociali. Ed è proprio la lacerante contrapposizione fra le narrazioni, che invariabilmente promettono cambiamenti epocali, e la sostanziale impotenza politica dello Stato a determinare l’emergere dei paradossi cruciali della «neopolitica» contemporanea, il primo dei quali è naturalmente l’inflazione dei racconti e dunque la loro sostanziale inefficacia: «la trasposizione in racconto dell’azione politica distrugge alla lunga la credibilità del narratore», e più in generale l’inflazione delle storie «ha un effetto corrosivo sulla credibilità di ogni parola pubblica, in particolare sulla credibilità di coloro che si presume governino proponendo un racconto alla nazione» (p. 110). Ma la realtà della «neopolitica» è paradossale anche perché il narratore ‘neoliberista’ è del tutto flessibile, nel senso che volta spesso le spalle ai propri impegni (erodendo così ulteriormente la propria credibilità), e, soprattutto, perché appare sempre contrassegnato da un inguaribile «volontarismo», destinato ogni volta a mostrarsi del tutto impotente. Ed è in fondo proprio quest’ultimo paradosso, che nasce dal cortocircuito tra un volontarismo esasperato e una sostanziale impotenza politica, che rende il «calo tendenziale del tasso di fiducia» il tratto davvero strutturale – e tutt’altro che congiunturale – di tutti i sistemi politici occidentali all’inizio del nuovo millennio: «Più lo Stato è disarmato, più deve esibire il suo volontarismo. La postura del volontarismo è la forma che prende la volontà politica quando il potere è privato dei mezzi d’azione. Il potere è quella forza che, per non doversi esercitare, deve manifestarsi, per esempio sotto forma di un iperpresidente, maestro nel dettare l’agenda. L’homo politicus è il modello quasi caricaturale di questo individuo neoliberista che fa continuamente appello al volontarismo e al potenziale degli individui (‘volere è potere’) e ricorre incessantemente alla retorica della rottura e del cambiamento per rigettare l’esperienza passata. È un modo di dare il cambio che supera la psicologia dei dirigenti. La postura volontaristica si sostituisce all’esercizio effettivo del potere, la sua credibilità dipende dalla potenza dello Stato, è una scommessa. Se questa potenza non ha più i mezzi per esercitarsi, il volontarismo non produce alcun effetto. Occorre dunque che cresca esponenzialmente d’intensità, che si manifesti con ancora più forza per recuperare credibilità, manifestazione che contribuisce ad accentuare il senso d’impotenza dello Stato. È la spirale della perdita di legittimità. L’uomo di Stato appare come un narratore e un attore poco affidabile, le cui storie e decisioni sono adombrate dal sospetto, non a causa di una mancanza di volontà, ma per la loro stessa costruzione. Il volontarismo neoliberista è nient’altro che questa gara al rilancio di promesse elettorali che dovrebbero trasformare l’impotenza reale in una forza virtuale, continuamente smentita dai fatti e obbligata a riguadagnare credibilità con nuove dichiarazioni volontariste» (pp. 111-112).
È abbastanza scontato che nelle pagine del libro di Salmon, scritto probabilmente pensando alla parabola del grande ‘narratore’ Nicolas Sarkozy, il lettore italiano debba intravedere il più classico de te fabula narratur, perché Matteo Renzi ha fatto dello storytelling la principale strategia per conquistare la leadership all’interno del Partito Democratico e per legittimare agli occhi dell’opinione pubblica la propria azione di governo. In un suo libro recente, Sofia Ventura ha proposto un’interpretazione della strategia comunicativa (e politica) di Renzi che mette in luce proprio la centralità della ‘narrazione’, e in particolare di una narrazione che raffigura il giovane Presidente del Consiglio, l’eroe del cambiamento, in una lotta quotidiana contro il ‘vecchio’ e contro i ‘gufi’, coadiuvato da un’agguerrita pattuglia di ‘rottamatori’ e ‘fatine’. Ma anche la fiaba di Renzi pare scontrarsi con lo stesso paradosso di cui scrive Salmon, ossia con l’evidente impossibilità di incidere in modo significativo sulla realtà e dunque sull’incapacità di mantenere fede a quelle grandi promesse su cui il racconto si regge. «Sia la struttura della narrazione, sia il suo essere soprattutto un prodotto che prende forma principalmente dentro al contesto mediatico (con una politica pensata soprattutto in funzione della sua comunicabilità)», osserva Ventura al termine dell’analisi, «paiono rendere l’approccio di Matteo Renzi e suoi autosufficiente rispetto agli input provenienti dal mondo esterno. Un racconto, dunque, refrattario alla dimensione empirica e che conduce non a misurarsi con quella dimensione per correggere la teoria e conseguentemente rivedere le azioni alla luce di quella correzione, bensì a forzare la realtà nella teoria, interpretando la prima in modo che si conformi alla seconda» (S. Ventura, Renzi & Co. Il racconto dell’era nuova, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, p. 189). Tanto che, proprio a causa della sua ‘rigidità’, la favola sembra destinata a perdere rapidamente buona parte del proprio potere evocativo. Infatti, «man mano che il tempo passa, il permanere di condizioni problematiche può rendere sempre meno credibile il mondo degli eroi e dei gufi. E anche se, ad un anno dall’insediamento e nonostante gli aggiustamenti del racconto, riappare la tentazione di ricorrere alla tattica del ‘rilancio’ e degli ‘annunci’, la realtà, impietosa, rimane sempre in agguato» (ibi, p. 192).
È ancora presto per formulare bilanci sull’esperienza di un governo che certo ha rappresentato un fattore di rottura nella vicenda della ‘Seconda Repubblica’, ma di cui è ancora difficile valutare la portata effettiva e soprattutto la capacità di sopravvivere alle insidie della «realtà». Forse, quando si discute del ‘decisionismo’ renziano, della legge elettorale, o anche del tentativo di modificare la Costituzione nonostante le opposizioni (esterne ma anche interne al Pd), si dovrebbe tenere presente l’analisi di Salmon. Non tanto per ridimensionare il peso di una serie di iniziative che sicuramente modificano il quadro istituzionale (e procedono speditamente sul sentiero della ‘presidenzializzazione’). Quanto per comprendere come l’enfasi decisionista – che si declina per i sostenitori nella celebrazione della «governabilità», per i detrattori nella variante dell’«uomo solo al comando» - si inscriva, più che in un’analisi realistica delle dinamiche dei sistemi politici contemporanei, all’interno della ‘narrazione’ del cambiamento. D’altronde, se si ripensasse seriamente alla storia del sistema politico italiano dell’ultimo trentennio, si dovrebbe anche serenamente ammettere che tutte le riforme che hanno tentato di garantire la «governabilità» e la capacità decisionale degli esecutivi – ai vari livelli di governo – non hanno nemmeno superficialmente inciso su questioni evidentemente molto più complesse (come per esempio il peso del debito pubblico). Ciò significa, quantomeno, che la realtà è più complicata delle favole degli storyteller. Ma, forse, significa anche che, fra qualche anno, guardando all’avventura politica di Matteo Renzi, ci troveremo a ripensare alle pagine di Salmon e all’inquietante previsione sulla paradossale sparizione dell’homo politicus, travolto dalla propria visibilità, e divorato in una sorta di pasto cannibale dalla stessa logica spettacolare di una politica impotente: «L’homo politicus sparisce. Non di straforo, e neanche in modo lento e impercettibile, come l’estinzione di una specie. Sparisce sotto gli occhi di tutti, al colmo della sua esposizione, in una sovraesposizione mediatica, per una sorta di divoramento. La scena di questo divoramento è la televisione, e le sue apparizioni vi sono attese, spiate come quelle di un fantasma o di un revenant. Di qui la regia scrupolosa che presiede alla loro messinscena. Le leggi della rappresentazione, con i loro rituali e i loro protocolli, lasciano il posto a una logica della ‘riappropriazione’ spettrale, della persistenza, e della sopravvivenza mediatica. […] Desacralizzato, profanato dai media, ridicolizzato dai mercati, sottomesso alla tutela delle istituzioni internazionali e delle agenzie di rating, lo Stato è ormai un buco nero che aspira quello che resta dello sfolgorio del politico. L’homo politicus vi appare non più come il portatore del cambiamento annunciato, ma come uno spettro rischiarato da quelle stesse fiamme che si accingono a divorarlo» (C. Salmon, La politica nell’era dello storytelling, cit., p. 115).








sabato 6 giugno 2015

Quando il Progresso esponeva l’uomo in gabbia all’Expo. Un libro sugli "zoo umani" di Viviano Domenici



Questa recensione al volume di V. Domenici, Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica (il Saggiatore, Milano, 2015), è apparsa su «Avvenire» del 5 giugno 2015. 

Walter Benjamin definì le Esposizioni universali come «luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce». Ed effettivamente quelle esibizioni rappresentarono una «fantasmagoria» in cui un nuovo tipo umano – il consumatore – faceva il suo ingresso per essere rapito dallo spettacolo delle vetrine, delle luci, dei più avveniristici ritrovati della tecnica. Le grandi esposizioni, tra Otto e Novecento, furono però soprattutto una sorta di tempio in cui si celebrava il culto del Progresso. Anche per questo il Crystal Palace, la grande serra di vetro e ferro in cui si svolse la prima esposizione londinese nel 1851, divenne ben presto il simbolo stesso delle grandi promesse che pareva dischiudere l’avvenire, come più tardi, nel 1889, sarebbe avvenuto per la Torre Eiffel. Se spesso viene ancora oggi rievocato – con qualche nostalgia – l’entusiasmo di quegli anni, spesso si tende invece a tralasciare il volto più oscuro che l’ideologia del Progresso portava con sé. E a dimenticare per esempio che, per più di un secolo, le esposizioni dedicarono appositi spazi espositivi agli “zoo umani”. Questa pagina oscura della storia delle grandi esposizioni viene rievocata nel volume di Viviano Domenici, Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica (il Saggiatore, pp. 337), che ripercorre le tappe di una pratica aberrante. Con l’obiettivo di ‘mostrare’ il selvaggio, venivano infatti ricreati ‘villaggi indigeni’, e talvolta persino foreste fittizie, in cui i visitatori potevano osservare i ‘selvaggi’ proprio come se fossero gli animali di uno zoo. Ai ‘selvaggi’ – trasportati dai domini coloniali – spettava però molto spesso una triste sorte. Alcuni infatti non sopravvivevano al viaggio, mentre altri si ammalavano durante la permanenza nei finti villaggi.
Quelle terribili esibizioni – di cui si ebbe l’ultimo esempio nel 1958, all’Esposizione universale di Bruxelles – erano naturalmente funzionali a sancire la superiorità dell’uomo bianco, e dunque a legittimare il dominio coloniale delle potenze europee sul resto del mondo. Nonostante un simile atteggiamento sia molto lontano dalla nostra sensibilità odierna, sarebbe però ingenuo pensare che davvero si tratti di una pagina definitivamente superata. Perché, come mette in luce Domenici, la terribile tentazione di trasformare l’Altro in un ‘quasi umano’ da esibire, umiliare e deridere riaffiora costantemente. Magari sotto le spoglie del turismo etnico o degli show che, sul piccolo schermo, ripropongono esattamente la logica ripugnante dei vecchi zoo umani.

Damiano Palano

martedì 2 giugno 2015

La guerra degli abissi. Un libro di Antonio Martelli



di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Antonio Martelli, Le due battaglie dell’Atlantico. La guerra subacquea, 1914-1918 e 1939-45 (Il Mulino, pp. 577, euro 25.00) è apparsa su "Avvenire" di venerdì 30 maggio 2015.

Quando nel 1869 Jules Verne immaginò la sagoma del Nautilus, i primi rudimentali sommergibili avevano già fatto la loro comparsa. Il sottomarino del capitano Nemo, che in Ventimila leghe sotto i mari solcava le profondità degli oceani, era però concepito da Verne come uno strumento diretto contro la sovranità degli Stati. Nella realtà furono invece proprio gli Stati a sviluppare le nuove tecniche di navigazione, nella convinzione che la «guerra subacquea» dovesse diventare sempre più importante. Una ricca ricostruzione delle tappe che condussero i principali paesi occidentali a dotarsi di sommergibili è offerta dal recente volume dello studioso di strategia Antonio Martelli, Le due battaglie dell’Atlantico. La guerra subacquea, 1914-1918 e 1939-45 (Il Mulino, pp. 577, euro 25.00), che si concentra soprattutto sul ruolo che le diverse generazioni di U-Boot (Unterseeboot) ebbero nelle strategie di Berlino a partire dall’inizio del Novecento. Il Kaiser Guglielmo II fu in effetti profondamente influenzato dalle teorie di Alfred T. Mahan, il fondatore del filone ‘navalista’ della geopolitica, secondo cui la chiave per la conquista dell’egemonia a livello internazionale era il dominio del mare. 
Per effetto di simili sollecitazioni la Germania avviò così, già sul finire dell’Ottocento, un imponente piano volto a incrementare la potenza navale, che comprendeva anche il ricorso a battelli sottomarini. Il primo divenne operativo nel 1906, con il nome di U-1, e a quel prototipo seguirono ben presto versioni sempre più perfezionate. Allo scoppio della prima guerra mondiale la flotta di sommergibili tedeschi era composta da 31 battelli e risultava numericamente la terza al mondo. Nella strategia di Berlino la guerra subacquea doveva però diventare molto più importante che per gli altri paesi. Stretta dal blocco navale britannico, la flotta del Kaiser non poteva infatti operare al di fuori della ristretta intorno alla baia tedesca. E per questo la Germania puntò sempre di più sulla guerra di corsa, ossia sul tentativo di ostacolare i commerci britannici mediante i sommergibili. I primi affondamenti si ebbero già nel settembre 1914 e proseguirono nei mesi seguenti. Un momento di svolta fu però rappresentato dall’affondamento del transatlantico britannico Lusitania, il 7 maggio 1915. La perdita dei duemila passeggeri, tra cui 128 cittadini statunitensi, produsse infatti un’impressione notevole, e in particolare fece emergere la nuova questione della liceità della guerra subacquea. Ma, soprattutto, da quel momento la Germania passò sul banco degli imputati, perché ritenuta colpevole di atti criminali da buona parte dell’opinione pubblica mondiale. 
Gli U-Boote giocarono un ruolo rilevante anche nella seconda guerra mondiale, perché soprattutto nei primi due anni del conflitto provocarono perdite importanti alla flotta britannica. Anche per questo Winston Churchill, una volta superata la minaccia costituita dalla «battaglia d’Inghilterra» (l’offensiva area tedesca contro le città britanniche), indicò la priorità nella «guerra subacquea». A partire dall’estate 1941 il prezzo pagato dai sommergibili tedeschi cominciò infatti a salire sensibilmente. Nonostante i successi riportati ancora nel corso del 1942, negli ultimi due anni di guerra gli U-Boote si rivelarono inoltre sempre meno efficaci. I nuovi sistemi di rilevazione, l’utilizzo massiccio di attacchi dal cielo, le nuove bombe di profondità e la decrittazione dei codici segreti di Berlino ridussero progressivamente la minaccia rappresentata dai sommergibili tedeschi. Così, a dispetto del loro impatto devastante, gli U-Boote non consentirono mai alla Germania di superare il problema strategico principale dell’inferiorità della propria flotta. E neppure temporaneamente la «guerra subacquea» offrì davvero a Berlino una credibile possibilità di raggiungere quel dominio del mare in cui Mahan aveva indicato il fattore decisivo della politica mondiale.

Damiano Palano