di Damiano Palano
Questa recensione al libro di Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale (Nottetempo, pp. 107, euro 12.00), è apparsa su "Avvenire" del 23 maggio 2015, con il titolo Le "folle" di Gustave Le Bon oggi sono uno sciame digitale.
Nel 1895, nel suo libro più famoso, Gustave Le Bon annunciò l’avvento della nuova «era delle folle». Se in passato l’opinione pubblica aveva avuto un ruolo marginale nelle dinamiche politiche, secondo l’intellettuale francese era ormai necessario riconoscere che “la voce delle folle” era divenuta preponderante. E ciò comportava una serie di problemi notevoli. La nuova stagione era infatti segnata dalla caduta di tutte le vecchie credenze e dal trionfo delle opinioni, ossia di idee suggestive ma del tutto effimere, capaci di conoscere un rapido successo eppure destinate a tramontare altrettanto velocemente. E senza una guida capace di indirizzare i volubili entusiasmi delle folle, il rischio era quello di un rapido crollo dell’intera civiltà occidentale.
A distanza di ben più di un secolo, nel suo recente Nello sciame. Visioni del digitale (Nottetempo, pp. 107, euro 12.00), il filosofo di origine coreana Byung-Chul Han torna alla visione di Le Bon per interpretare la rivoluzione digitale. I mutamenti tecnologici e in particolare l’avvento del web 2.0 producono infatti secondo Han conseguenze di portata simile a quelle segnalate dalla Psychologie des foules.
La nuova folla assume però il volto di uno “sciame digitale”, che – a differenza dell’aggregato sociale di cui parlava Le Bon – è composto di individui isolati, che non possiedono un’“anima collettiva”. Lo sciame è infatti una sorta di assembramento occasionale, instabile, fugace, che si dissolve con la stessa velocità con cui si è formato. E non assume mai i contorni di una vera e propria “moltitudine”, perché il suo tratto caratterizzante rimane sempre la disgregazione individualistica. Lo sciame non mette mai realmente in discussione le relazioni di potere, ma si limita piuttosto a scagliarsi contro singole persone, rendendole oggetto di scherno, coprendole di insulti, esponendole al pubblico ludibrio. E alla base di queste forme di azione non si trova mai una vera identità collettiva. Lo sciame cioè non esprime mai un “Noi”, e non è neppure in grado di sviluppare forme stabili di organizzazione. Se la richiesta di partecipazione e di ‘trasparenza’ si risolve così quasi sempre solo in una banalizzazione dei messaggi e dei discorsi, la logica dello sciame secondo Han sembra anche preludere alla fine del ‘politico’. Se non altro perché pare annunciare il tramonto di uno spazio pubblico in cui possano davvero confrontarsi posizioni e argomentazioni differenti.
Nella discussione sulle implicazioni delle nuove tecnologie non è certo difficile collocare il filosofo coreano sul versante degli “apocalittici”. Ma il limite delle sue posizioni – in cui pure si possono ritrovare molte intuizioni preziose – non consiste solo in un eccesso di pessimismo. Una distorsione forse più rilevante si nasconde nella stessa immagine dello sciame. Se nelle folle di Le Bon si trovavano ‘condensati’ molti incubi della società di fine Ottocento, nello sciame di Han si trovano infatti sovrapposti fenomeni in realtà molto diversi (e ben più complessi). Certo la crisi delle identità collettive che sperimentano oggi le società occidentali è una conseguenza dei mutamenti tecnologici. Ma ha anche motivazioni specificamente politiche e culturali. E solo un determinismo semplicistico può far ritenere che si tratti soltanto di un effetto dalla rivoluzione digitale.
Damiano Palano
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