Questa recensione al volume di Franco Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento (Laterza, pp. 92, euro 12.00), è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica
di Damiano Palano
Introducendo
una ricostruzione dedicata alla diade «Destra-Sinistra», alcuni anni fa Marco
Revelli riconosceva come ormai i significati di quei termini tendessero a
diventare sbiaditi, e forse persino a dissolversi. L’eclissi di quella
distinzione, osservava allora Revelli, era per molti versi «l’effetto di un
‘cedimento strutturale’ del contesto stesso in cui quella contrapposizione
aveva preso forma (la spazialità ‘solida’ dello Stato-nazione) e aveva
catalizzato in sé buona parte dei fattori ‘di senso’ dell’agire politico». E,
sulla base di questa lettura, si spingeva a prevedere che l’«inoperosità»
dell’antitesi fosse «destinata a continuare, secondo i voti dei tanti fautori
del ‘superamento delle contrapposizioni ideologiche’ e delle ‘astratte’
divisioni ideali, per una politica finalmente e pragmaticamente ridotta
all’amministrazione dell’esistente, in cui sia la forza delle cose (e del
mercato) a suggerire le soluzioni condivise» (M. Revelli, Destra Sinistra. L’identità smarrita, Laterza, Roma – Bari, 2007,
p. XIX). Anche se poteva stupire che venisse accolta da un intellettuale da
sempre vicino alla sinistra radicale, la tesi formulata da Revelli non era
certo nuova. Perché è quantomeno da un trentennio – ma se ne potrebbero trovare
anticipazioni anche molto prima, fin dall’alba del Novecento – che il
superamento della ‘classica’ distinzione tra destra e sinistra è diventato
quasi una sorta di luogo comune, declinato secondo mille varianti. Una delle
più fortunate è senza dubbio quella che sostiene che sia soprattutto la
sinistra a essere entrata in crisi, o addirittura in una fase di irreversibile
obsolescenza. Ed è in questo dibattito che si inserisce anche il pamphlet di Franco Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra
nell’era del cambiamento (Laterza, pp. 92, euro 12.00), un testo che però
non si limita a registrare la ‘crisi’ della sinistra, ma fa seguire alla
diagnosi anche delle indicazioni per poter uscire dalle difficoltà.
Il ragionamento di Cassano è in fondo estremamente
lineare, e come nel caso di Revelli anche qui il discorso prende le mosse dalla
‘globalizzazione’. Più specificamente, Cassano sottolinea però il peso che le
trasformazioni economico-sociali dell’ultimo trentennio hanno sul radicamento
sociale della sinistra. Il punto di partenza di Cassano – un punto tutt’altro
che privo di aspetti problematici – è però la coincidenza tra la frattura
destra/sinistra e il conflitto capitale/lavoro, oltre che la contrapposizione
tra Stati Uniti e Unione Sovietica: «Su quelle carte tutte le rivalità e i
conflitti che avevano segnato la storia prima della guerra erano stati
cancellati o messi al margine, ad eccezione di quello che diventava il vero e
proprio architrave dell’epoca: lo scontro tra il capitalismo nella sua forma
liberale e il socialismo nella sua forma sovietica. In tal modo il conflitto
tra destra e sinistra, che era nato molto prima con la Rivoluzione francese,
pagava il costo di essere compresso in quest’unica forma ma al tempo stesso
diventava l’asse intorno al quale ruotava la storia e non era più costretto a
coabitare, come fino ad allora era accaduto, con altri conflitti» (pp. 4-5).
Ora il contesto globale è irreversibilmente mutato, e ciò – secondo Cassano –
dovrebbe indurre a riconsiderare completamente la dicotomia: «È necessario
partire dal riconoscimento che l’egemonia della linea di divisione fra destra e
sinistra e la sua supremazia sulle altre non sono garantite da nessuna
provvidenza e da nessuna teologia del progresso. La sua centralità è stata
forte in un determinato periodo storico, ma la sua incidenza si è indebolita in
molte aree del pianeta, anche se non si può certo escludere che essa ritorni
più in là ad assumere un ruolo forte ed evidente, alimentata dalle
disuguaglianze e dal bisogno di giustizia sociale. Ma quello che appare
innegabile è che, accanto a quella linea di divisione, ne esistono altre, e che
esse s’intersecano in modo complesso e conoscono archi temporali di egemonia che dipendono da una pluralità di
fattori non tutti facilmente disponibili» (pp. 26-27).
Sulla base di una simile posizione, Cassano si
indirizza verso alcune teorie che ‘semplificano’ eccessivamente la realtà, o
perché replicano gli schemi marxisti, o perché rappresentano la
‘globalizzazione’ in termini esclusivamente negativi, senza cogliere cioè le
potenzialità positive. Il ragionamento di Cassano è certo inficiato da una
consapevole forzatura polemica, per cui assume che la dicotomia destra-sinistra
coincida con la divisione tra capitalisti e lavoratori, e con la linea di
demarcazione tra Usa e Urss: benché certo aiuti a riconoscere alcuni elementi
importanti, una forzatura di questo tipo rischia di generare almeno qualche fraintendimento,
principalmente perché il conflitto tra datori di lavoro e lavoratori è
‘relativamente autonomo’ dai livelli della mediazione politica. E ciò significa
per esempio – come dimostra d’altronde abbondantemente la storia americana
della prima metà del Novecento – che energiche lotte operaie possono essere
condotte anche senza il sostegno di formazioni politiche più o meno
riconducibili alla sinistra. Ma soprattutto che la coincidenza tra la
contrapposizione tra destra e sinistra e la divisione tra datori di lavoro e
lavoratori – più che il riflesso di una realtà ‘oggettiva’ – è sempre stata
l’esito di una costruzione retorica, e cioè di una efficace rappresentazione
politica. E questo non implica semplicemente – come Cassano d’altronde
riconosce – che la distinzione tra destra e sinistra non coincida affatto con
la distinzione tra formazioni ostili o estranee al socialismo e formazioni
‘socialiste’. Piuttosto, vuol dire che l’identità della sinistra non comportava
affatto, nella realtà concreta delle dinamiche politiche, una centralità reale
del conflitto capitale/lavoro, nonostante essa fosse stata costruita nel corso
del Novecento (soprattutto in Italia) proprio sulla centralità simbolica di
quel conflitto.
Ma il discorso di Cassano d’altronde è volto in
un’altra direzione. Sostanzialmente si riferisce proprio al fatto che
l’identità della sinistra novecentesca si è delineata su una certa immagine del
conflitto sociale e su un determinato assetto della «guerra civile mondiale».
In questo senso, ciò che auspica non è tanto il superamento della distinzione
tra destra e sinistra, quando la ridefinizione dell’identità della sinistra,
secondo linee che siano in grado di consentire un consolidamento tra i settori
‘deboli’ della società (settori che invece tendono spesso a guardare altrove).
Con una formula coincidente con quella di Ernesto Laclau, Cassano ritiene
infatti che il problema sia quello della «costruzione del popolo», e – in
termini che non possono non suonare sostanzialmente gramsciani – quello di
costruire un «blocco sociale»: «All’egemonia del capitale bisogna tentare di
opporne un’altra, costruendo un blocco sociale capace di tenere insieme, in una
fase storica diversa, le ragioni dei diritti e quelle della competitività,
superando vecchie polarizzazioni e invitando giocatori abituati a contrapporsi
a giocare insieme per produrre un vantaggio comune» (p. 74). Naturalmente una
simile proposta si limita a indicare un terreno, perché rimangono del tutto in
ombra le concrete modalità che consentano di tenere insieme «le ragioni dei
diritti e quelle della competitività». E se certo è molto facile tenerle
insieme retoricamente – come nei celebri accostamenti di Walter Vetroni – è
scontato che farli convivere nella realtà di un’azione politica sia molto meno
agevole.
Forse però la perplessità suggerita dal ragionamento
di Cassano riguarda un altro aspetto, ossia il livello al quale il sociologo
sembra concepire la sintesi del «blocco sociale». Se infatti Cassano coglie un
punto cruciale quando sottolinea il ruolo di ‘sintesi’ svolto a livello
simbolico e retorico dalla costruzione di un «popolo», sembra trascurare il
fatto che le rappresentazioni politiche richiedono un terreno per potersi
manifestare e per poter ‘mettere in scena’ il conflitto. Negli ultimi due
secoli questo terreno è stato offerto soprattutto dall’arena parlamentare: un
grande palcoscenico in cui le varie parti politiche possono confrontarsi, dando
una rappresentazione plastica della parti in un cui si suddivide il paese. In
gran parte è ancora così. Ma il punto è che per una lunga fase del Novecento lo
Stato si è mostrato come un attore, se non effettivamente sovrano, comunque in
grado di incidere sulle relazioni economiche e sociali. Oggi lo Stato non è
affatto morto, come pretende qualcuno, e non è neppure ‘svuotato’ di ogni
potere. E da questo punto di vista è sufficiente dare uno sguardo a ciò che
accade in Cina o in America Latina per rendersi conto che il capitalismo del
XXI secolo ha nello Stato un protagonista tutt’altro che marginale. Ma per
quanto riguarda i paesi dell’Unione Europea la situazione è evidentemente
diversa. Non perché lo Stato non sia rivelante, ma perché – come ormai sappiamo
bene – una serie di strategie di ‘depoliticizzazione’ ha nel corso dell’ultimo
ventennio di fatto spogliato i governi nazionali di buona parte della loro
autonomia d’azione. Ed è per questo che progettare di «costruire» retoricamente
un popolo – come suggerisce Cassano, e come concretamente sta cercando di fare
per esempio Podemos in Spagna – può rilevarsi un’operazione possibile, ma
insidiosa. Perché il rischio è di costruire retoricamente un «popolo» senza
potere. Un popolo non solo privo di basi solide nella società e nei suoi
conflitti. Ma privo anche di quegli strumenti – che un tempo offriva lo Stato –
di governare ‘dall’alto’ i processi sociali, incidendo sulle relazioni di
potere. E per questo destinato a sfaldarsi rapidamente senza lasciare traccia.
Damiano Palano
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