Questa recensione del volume di Marco Gevasoni,Le armate del presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana (Marsilio, pp. 173), è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica.
Una presentazione del libro si svolgerà martedì 21 aprile 2015, ore 18.30, alla Casa della Cultura di Milano (Via Borgogna 3).
Alla discussione parteciperanno, oltre all'autore, Carlo Tognoli, Agostino Giovagnoli, Valerio Onida e Damiano Palano
di Damiano
Palano
Benché sia difficile stilare graduatorie di
popolarità, è molto probabile che i fotogrammi più famosi (e amati) di un presidente
della repubblica siano quelli che ritraggono Sandro Pertini nello stadio
Santiago Bernabeu di Madrid la sera dell’11 luglio 1982. Guardando con
attenzione quelle immagini – in cui Pertini, con l’inseparabile pipa, scatta in
piedi per salutare la terza rete segnata dall’Italia nella finale del Mundial
spagnolo – non si riconosce d’altronde solo una scena ormai familiare, vista
mille volte, e uno dei momenti forse più felici della storia nazionale recente.
Osservando ora quell’immagine si può infatti cogliere anche l’anticipazione di
tante cose che sarebbero arrivate dopo, e in particolare di uno stile che molti
politici – con maggiore o minore successo – avrebbero cercato in qualche modo
di emulare.
Come ricordava qualche tempo
fa Marco Gervasoni nella sua Storia
d’Italia degli anni ottanta, «nei viaggi ufficiali Pertini si presentava
come un italiano nuovo e antico al tempo stesso: sovente le regole del
protocollo venivano infrante e il presidente non si risparmiava le gaffe
imbarazzanti, che però restituivano l’immagine di un paese vitale, dinamico, di
cui ci si poteva sentire orgogliosi». E naturalmente il culmine si raggiunse
proprio il giorno della finale tra Italia e Germania: «Nella tribuna d’onore
dello stadio Bernabeu di Madrid, Pertini seduto accanto al re spagnolo Juan
Carlos, esultò a ogni gol della Nazionale, gesticolando e inquietandosi, per
poi partecipare in maniera certo non formale alla cerimonia della premiazione.
Riportò infine la squadra in Italia con l’aereo presidenziale, facendosi riprendere
dalle televisioni a giocare a scopone con l’allenatore, Enzo Bearzot» (M.
Gervasoni, Storia d’Italia degli anni
Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia, 2010, p. 29).
Se nella ricostruzione delle trasformazioni degli anni
Ottanta, Gervasoni si soffermava solo tangenzialmente sulla svolta comunicativa
della presidenza di Pertini, nel suo nuovo lavoro considera invece ampiamente
il significato e la portata di quell’esperienza, che in qualche modo segnò un
punto di non ritorno nell’evoluzione della più elevata carica dello Stato. Nel
recente Le armate del presidente. La
politica del Quirinale nell’Italia repubblicana (Marsilio, pp. 173, euro
19.00), Gervasoni ricostruire infatti le trasformazioni nel ruolo giocato dal
presidente della repubblica in quasi settant’anni di vita politica. E
l’immagine che ne esce è quantomeno in contrasto con molte delle letture più
consuete, che ritengono che l’inquilino del Quirinale sia (e debba essere)
semplicemente un ‘arbitro’ del gioco politico, un ‘arbitro’, un ‘potere neutro’
che deve limitarsi a esercitare una funzione di custode della Costituzione,
senza entrare nell’agone e senza influire sulle scelte degli esecutivi. In
realtà, sostiene infatti Gervasoni, le diverse personalità che si sono
succedute alla più alta carica dello Stato hanno cercato – seppur con ritmi e
stili differenti – di influire sulla linea dei differenti governi, tentando più
spesso di quanto non si creda di determinarne la stessa composizione. Ma
soprattutto – ed è questa la tesi principale del lavoro di Gervasoni – la
figura del presidente ha quasi assunto i contorni di una sorta di antagonista
non tanto del Parlamento quanto dei partiti. E se nei primi tre decenni della
storia repubblicana gli inquilini del Quirinale non riuscirono, se non
episodicamente, a esercitare un’azione di stabile controllo sui partiti (e
sugli esecutivi), a partire dalla presidenza di Pertini qualcosa iniziò a cambiare,
perché. da quel momento, il presidente poté utilizzare una preziosissima
risorsa di legittimazione: una risorsa che non proveniva naturalmente
dall’elezione diretta da parte dei cittadini, ma da un utilizzo della
comunicazione che consentiva di stabilire un rapporto ‘diretto’ con i
telespettatori. Proprio un simile rapporto venne a rafforzare quella che
Gervasoni chiama – weberianamente – la «potenza» del Presidente: «la
possibilità, che un uomo o una pluralità di uomini possiede di imporre il
proprio volere in un agire di comunità anche contro la resistenza di altri
soggetti partecipi di questo agire». E per questo – pur nel quadro delineato
dal dettato costituzionale – «il capo dello Stato si trasformò nel solo potere frenante nei confronti
dell’espansione della partitocrazia e, in alcuni casi, persino nel suo
principale antagonista» (p. 12).
La tendenza alla
‘politicizzazione’ può essere già ravvisata nella presidenza di Enrico De
Nicola, e in particolare nel suo rifiuto di rivolgere un ringraziamento agli
Stati Uniti per gli aiuti del piano Marshall. Ma questa tendenza divenne sempre
più chiara con la presidenza di Luigi Einaudi, in particolare in occasione
della formazione del governo Pella (p. 47). Se De Nicola e Einaudi non avevano
mai potuto contare su solidi legami di partito, i loro successori al Quirinale provenivano
invece direttamente dal ceto politico, e questo ebbe conseguenze tutt’altro che
irrilevanti sull’interpretazione della carica. In particolare, Gronchi – che,
come nota Gervasoni, «fu il primo presidente della repubblica dotato di una
sua, pur piccola, corrente organizzata e il primo organicamente politico di
professione» (p. 51) – tentò effettivamente di estendere i confini del proprio
ruolo, principalmente perché, al Quirinale, non cessò di essere un ‘uomo di
partito’, sostenendo per esempio l’allargamento a sinistra della maggioranza di
governo, suggerendo i nomi di alcuni ministri, conducendo una sorta di politica
estera ‘parallela’ e addirittura richiedendo l’istituzione di uno specifico
Ministero delle Partecipazioni statali. Durante la presidenza di Gronchi è
dunque possibile ravvisare i primi rilevanti segnali di come il ruolo effettivo
del Presidente tendesse a diventare un ‘freno’ nei confronti dei partiti: dal
momento che le rivalità interne ai partiti rischiavano di paralizzare l’azione
governativa, il presidente della repubblica veniva ad assumere un profilo di
‘controllore’ della loro attività (e non dunque semplicemente di ‘custode’
della Costituzione), con l’obiettivo di conferire maggiore coerenza ed
efficacia all’azione di governo. Ma proprio per questo i tentativi di estendere
il potere del Presidente dovevano quasi inevitabilmente scontrarsi con le
resistenze dei partiti.
In questa progressiva
trasformazione del Presidente in un «potere frenante» non poco dovevano contare
la personalità, la provenienza e il profilo psicologico di chi era chiamato a
rivestire la carica.
Ciò nonostante, è possibile riconoscere una linea di continuità, come dimostra d’altronde anche la breve presidenza di Antonio Segni, del tutto in linea con quella di Gronchi: «da premier Segni aveva dovuto subire Gronchi, riuscendo spesso a limitarlo, ma ora si trovava dall’altra parte della barricata con maggior potere, visto che deteneva il consenso della maggioranza dorotea, di cui continuava in sostanza a essere il capocorrente. Come Gronchi, Segni intrecciò poi un rapporto preferenziale con i vertici del Sifar e con settori dell’esercito e creò una task force, sia pure informale, al Quirinale, per esercitare un controllo accuratissimo sulle leggi. Come il suo predecessore impose al governo le nomine dei suoi uomini, non solo all’esecutivo, ma anche nell’alta burocrazia, nell’esercito, nei numerosi enti controllati dal governo» (pp. 62-63). Per molti motivi, Segni fu però un Presidente debole, e – a dispetto dei progetti presidenzialisti che proprio in quella fase incominciarono ad affiorare – i suoi tentativi di contrastare la formula governativa del centro-sinistra si rivelarono sostanzialmente inefficaci. Nella strisciante contrapposizione tra partiti e Presidente, ad avere la meglio furono senz’altro i primi. E la forza del «regime dei partiti», secondo la lettura di Gervasoni, limitò così notevolmente i due presidenti successivi, Saragat e Leone. Certo Saragat, dopo il 1968 (e il fallimento elettorale della fusione di Psi e Psdi), non nascose i propri disegni ‘presidenzialisti’ e non mancò di intraprendere alcune azioni ‘politiche’ significative, diventando di fatto «co-decisore» del governo. Ma nella realtà, con le sue iniziative, «finì per creare panico e scompiglio anziché fungere da stabilizzatore o almeno da protettore dalla paura, quale deve essere il leader come tribuno del popolo» (p. 79). E, d’altronde, «il regime dei partiti, di cui Saragat fu il garante, era ormai così sovrapposto allo Stato repubblicano che neanche se egli avesse voluto avrebbe potuto muoversi diversamente» (p. 80). L’ascesa di Leone al Colle segnò invece l’«apoteosi» dell’interpretazione ‘notarile’ della presidenza, principalmente per il profilo culturale dell’uomo politico napoletano, che non riuscì mai a stabilire alcuna empatia con l’opinione pubblica, e che per questo si trovò del tutto disarmato dinanzi al regime dei partiti. Se l’elezione di Pertini alla massima carica dello Stato doveva – nel disegno dei partiti – dare un sostegno alla solidarietà nazionale, nella realtà avvenne qualcosa di molto diverso, perché proprio allora incominciava la «fine dei partiti».
Ciò nonostante, è possibile riconoscere una linea di continuità, come dimostra d’altronde anche la breve presidenza di Antonio Segni, del tutto in linea con quella di Gronchi: «da premier Segni aveva dovuto subire Gronchi, riuscendo spesso a limitarlo, ma ora si trovava dall’altra parte della barricata con maggior potere, visto che deteneva il consenso della maggioranza dorotea, di cui continuava in sostanza a essere il capocorrente. Come Gronchi, Segni intrecciò poi un rapporto preferenziale con i vertici del Sifar e con settori dell’esercito e creò una task force, sia pure informale, al Quirinale, per esercitare un controllo accuratissimo sulle leggi. Come il suo predecessore impose al governo le nomine dei suoi uomini, non solo all’esecutivo, ma anche nell’alta burocrazia, nell’esercito, nei numerosi enti controllati dal governo» (pp. 62-63). Per molti motivi, Segni fu però un Presidente debole, e – a dispetto dei progetti presidenzialisti che proprio in quella fase incominciarono ad affiorare – i suoi tentativi di contrastare la formula governativa del centro-sinistra si rivelarono sostanzialmente inefficaci. Nella strisciante contrapposizione tra partiti e Presidente, ad avere la meglio furono senz’altro i primi. E la forza del «regime dei partiti», secondo la lettura di Gervasoni, limitò così notevolmente i due presidenti successivi, Saragat e Leone. Certo Saragat, dopo il 1968 (e il fallimento elettorale della fusione di Psi e Psdi), non nascose i propri disegni ‘presidenzialisti’ e non mancò di intraprendere alcune azioni ‘politiche’ significative, diventando di fatto «co-decisore» del governo. Ma nella realtà, con le sue iniziative, «finì per creare panico e scompiglio anziché fungere da stabilizzatore o almeno da protettore dalla paura, quale deve essere il leader come tribuno del popolo» (p. 79). E, d’altronde, «il regime dei partiti, di cui Saragat fu il garante, era ormai così sovrapposto allo Stato repubblicano che neanche se egli avesse voluto avrebbe potuto muoversi diversamente» (p. 80). L’ascesa di Leone al Colle segnò invece l’«apoteosi» dell’interpretazione ‘notarile’ della presidenza, principalmente per il profilo culturale dell’uomo politico napoletano, che non riuscì mai a stabilire alcuna empatia con l’opinione pubblica, e che per questo si trovò del tutto disarmato dinanzi al regime dei partiti. Se l’elezione di Pertini alla massima carica dello Stato doveva – nel disegno dei partiti – dare un sostegno alla solidarietà nazionale, nella realtà avvenne qualcosa di molto diverso, perché proprio allora incominciava la «fine dei partiti».
Nel passaggio cruciale
tra gli anni Settanta e Ottanta, secondo la lettura di Gervasoni, esplodono due
processi convergenti, la crisi della sovranità dello Stato (conseguentemente al
processo di integrazione europea) e la crisi di legittimazione dei partiti. Ed
è in questo quadro che il Quirinale trova un nuovo spazio d’azione. «La doppia
crisi della sovranità e della legittimità dello Stato e dei partiti», scrive
Gervasoni, «non poteva quindi che ricadere sul presidente in quanto vertice
apicale dello Stato, ma anche in quanto garante
politico della repubblica dei partiti. In questa fase, apertasi allora e a
tutt’oggi non ancora conclusa, il presidente della repubblica cominciò a
diventare la figura chiave della decisione
politica dello stato di emergenza, un ruolo che i capi dello Stato in
passato erano riusciti a esercitare solo a fasi alterne e comunque sempre in
grande contrasto con i partiti» (p. 93). Le conseguenze della scelta di Pertini
– giunta al sedicesimo scrutinio – si rivelarono ben presto molto diverse da
quelle che i partiti si attendevano. Infatti, «Pertini intuì che, nel
discredito del sistema dei partiti e nella crisi della loro legittimità, il
presidente poteva ritagliarsi un ruolo ben specifico […] che passava per
un’operazione simbolica, di comunicazione del verbo e dell’immagine del corpo del presidente in un legame
diretto con i cittadini, senza la mediazione dei partiti e delle istituzioni»
(p. 96). A Pertini riuscì infatti quell’operazione che Gronchi e Saragat
avevano tentato senza successo, ossia di presentarsi – grazie all’utilizzo dei
classici motivi populisti – come «il presidente degli italiani», contrapposto
alla classe politica e ai partiti. E, benché le premesse iniziali fossero del
tutto diverse, anche Cossiga percorse in seguito – dopo il 1989 – la medesima
strada, conseguendo effetti molto diversi ma diventando comunque una sorta di
tribuno in costante conflitto con il «regime dei partiti».
Dopo la
presidenza di Cossiga, nella transizione verso la cosiddetta ‘seconda repubblica’,
il quadro complessivo era destinato a mutare. In particolare, la ‘svolta
maggioritaria’ – a dispetto dei risultati modesti sul piano della stabilità
degli esecutivi – doveva assegnare al capo del governo una forza sconosciuta ai
presidenti del consiglio della ‘prima Repubblica’, e questo non poteva non
indebolire (teoricamente) il ruolo «frenante» del Quirinale. In realtà, però,
nessuno dei presidenti succedutisi a partire dagli anni Novanta rinunciò
effettivamente ai poteri di intervento, anche se naturalmente Scalfaro e Ciampi
interpretarono la loro funzione in modi molto differenti. E proprio
l’instabilità del bipolarismo doveva così consegnare, di fatto, uno spazio di
manovra ancora più ampio al Quirinale. La forte personalizzazione era infatti
destinata a generare un rapido logoramento della fiducia nei confronti del
presidente del consiglio, mentre l’inquilino del Colle poteva contare sempre su
livelli molto alti di consenso e fiducia. Ed era proprio questo ruolo di pivot politico che doveva emergere in
modo evidente nel 2011, con la caduta del governo Berlusconi e la formazione
del governo Monti. Come scrive a questo proposito Gervasoni: «Anche nella
seconda repubblica lo scontro fra il capo dello Stato e i partiti non è
cambiato, acquisendo anzi forme assai più destabilizzanti che nella prima. Una
contraddizione che rischia di protrarsi, almeno fintantoché non si provveda a
riformare la Costituzione negli articoli relativi ai poteri del capo dello
Stato, così da renderlo politicamente responsabile, secondo il modello
presidenziale o semipresidenziale; o finché non si giunga a modificare la forma
della sua investitura e a introdurre l’elezione diretta del presidente, come
avviene del resto in quasi tutti gli ordinamenti repubblicani europei» (p. 15).
A dispetto di questo
richiamo, il libro di Gervasoni non intende proporre una revisione in senso
‘presidenzialista’ e ‘semi-presidenzialista’ della carta costituzionale. Più
semplicemente, attraverso una ricostruzione storica punta a mostrare come il
presidente della repubblica sia di fatto
diventato un attore politico rilevante, come di fatto abbia sempre cercato di estendere il proprio ruolo ben oltre
i confini del ‘notaio’ della Repubblica, e come sia spesso riuscito in questo
compito puntando su due aspetti di cui è difficile negare la portata: da un
lato, la crisi di legittimità dei partiti; dall’altro, la personalizzazione e
la spettacolarizzazione della politica. Dal momento che è davvero poco
plausibile l’ipotesi di un’inversione di entrambe queste tendenze, è piuttosto
evidente che il quadro delineato da Gervasoni non è destinato a modificarsi.
Certo, la personalizzazione e la spettacolarizzazione non producono sempre gli
stessi risultati, e così è molto probabile che Sergio Mattarella non conoscerà
mai la stessa popolarità di Pertini o dello stesso Napolitano (anche se è
sempre difficile immaginare le traiettorie di un mandato lungo sette anni: il
caso di Cossiga rimane sempre emblematico). Ma è comunque plausibile che il
nuovo presidente non rinuncerà a quei poteri che i suoi predecessori hanno
negli anni conquistato. E non è neppure da escludere che anche il nuovo
inquilino del Colle non debba tornare a esercitare un ruolo significativo di pivot. Perché – è bene non dimenticarlo
– nell’era della personalizzazione e della spettacolarizzazione, le leadership
carismatiche, anche quelle apparentemente molto forti, poggiano su fondamenta fragilissime.
E proprio per questo il presidente della repubblica può sempre tornare a
rivestire quei panni di tribuno ‘impolitico’, che proprio Sandro Pertini seppe
indossare probabilmente meglio di ogni altro, all’inizio di quella lunga «fine
dei partiti» da cui non siamo mai davvero usciti.
Damiano Palano
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