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mercoledì 29 aprile 2015

Da oggi in libreria la nuova edizione di "La democrazia senza qualità. Le 'promesse non mantenute' della teoria democratica" (Mimesis). Un libro di Damiano Palano


Da oggi, 29 aprile 2015, a grande richiesta, è finalmente disponibile la nuova edizione di

Damiano Palano
La democrazia senza qualità
Le "promesse non mantenute" della teoria democratica
Mimesis, Collana Eterotopie, pp. 224, 22 euro.

Per ordinare il volume:
Catalogo Mimesis
Catalogo Ibs



Dalla quarta di copertina

La convinzione che alimenta i saggi raccolti in questo volume è che la teoria "realistica" della democrazia, costruita a partire dalle celebri pagine di Joseph A. Schumpeter, si fondi su una riduzione 'monodimensionale' della realtà. Una riduzione che coglie solo alcuni aspetti dei reali regimi democratici e che tralascia invece di considerare la cornice storica, economica e internazionale in cui il vecchio termine-concetto di "democrazia" si è ridefinito nel corso del Ventesimo secolo e in cui è di fatto diventato qualcosa di completamente diverso rispetto al passato. Una simile rappresentazione si basa soprattutto su una programmatica espulsione della dimensione dei valori. Non solo perché rimuove l'idea che le democrazie debbano perseguire i grandi valori democratici, ma, in particolare, perché esclude l'idea che determinati valori costituiscano il sostegno che regge un concreto regime democratico. In questo modo la "teoria realistica" restituisce l'immagine di una sorta di manichino privo di contenuto, mentre la democrazia appare davvero come una "democrazia senza qualità". Una forma svuotata di ogni sostanza politica, etica e ideologica, eppure - come l'"uomo senza qualità" di Musil - disposta in fondo a ogni risoluzione.

Indice del volume
Introduzione - 1. Dopo la democrazia? - 2. Democrazie senza qualità - 3. Pensare la dmeocrazia in una prospettiva post-empiristica - 4. La trappola di Banfield - Indice dei nomi



lunedì 27 aprile 2015

"Zombie Politics. Walking Dead e altri mostri fra immaginario mediale e allegorie della politica". Un convegno a Milano, Università Cattolica, il 28 aprile 2015, ore 16.30




Il 28 aprile 2015
alle ore 16.30
a Milano - Università Cattolica
Largo Gemelli 1
in Aula Gemelli
si terrà un seminario dal titolo
Zombie Politics 
Walking Dead e altri mostri fra immaginario mediale e allegorie della politica
Il programma degli interventi
Damiano Palano
Fattore Z. Paura e politica nelle metamorfosi dello zombie

Massimo Scaglioni
Zombie e altri mostri nella cultura mediale contemporanea

Andrea Locatelli
Gli Zombie non fanno la guerra. The Walking Dead e la politica internazionale

Luca Barra
British Zombie. Da In the flesh a Dead Set

Dominic Holdaway
Il buono, il cattivo e lo zombie. The Walking Dead e il moralismo apocalittico 

Luca Rochira
(Programming Director of Entertainment Channels, Fox Italia)
The Walking Dead, le strategie editoriali e il brand di Fox Italia
Alcune immagini dell'incontro






 

domenica 26 aprile 2015

Si può ancora essere realisti? Una discussione sul realismo politico con Luigi Bonanate, Alessandro Campi, Stefano De Luca e Lorenzo Ornaghi - lunedì 27 febbraio, ore 14.30 (a Milano)




In occasione dell'uscita del volume Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca, a cura di Alessandro Campi e Stefano De Luca (Rubbettino, pp. 978, euro 28.00),
lunedì 27 aprile 2015 alle ore 14.30
presso l'Università Cattolica
(Largo Gemelli, 1 - Milano - Aula Negri da Oleggio)
si svolgerà un dibattito dal titolo
Si può ancora essere realisti?
Oltre ai due curatori, parteciperanno Luigi Bonanate e Lorenzo Ornaghi.
Il dibattito sarà moderato da Damiano Palano.
Dalla quarta di copertina:
Sono ormai almeno due decenni che si assiste ad un forte ritorno di interesse per il “realismo politico”, ovvero per una tradizione di pensiero caratterizzata da uno sguardo lucido, penetrante, disincantato sulle cose della politica (interna e internazionale). Uno sguardo di cui si è avvertita sempre più la necessità dopo il declino delle grandi ideologie che hanno scandito la parabola storica del “secolo breve”, generando grandi passioni, ma anche immani tragedie e profonde delusioni. Ciò nonostante, il realismo politico rimane a tutt’oggi una tradizione assai controversa, sulla quale gravano non pochi equivoci e pregiudizi: se per alcuni esso è un salutare antidoto ad ogni forma di furore ideologico o di falsa coscienza, per altri non è che un’ideologia mascherata, che in nome del richiamo alla realtà rischia di privare la politica di ogni spessore normativo.


In questo volume, che nasce da un’iniziativa dell’Istituto di Politica e della «Rivista di Politica», il lettore troverà 53 saggi scritti da studiosi di chiara fama e da giovani ricercatori su autori, temi, concetti riconducibili al realismo politico, nonché su vicende politiche dei nostri giorni lette alla luce dei suoi strumenti analitici. Si tratta di un atlante di straordinaria ampiezza, che chiunque sia interessato al realismo politico potrà leggere in modo sistematico oppure consultare a seconda dei ‘viaggi intellettuali’ che sta compiendo o che vorrebbe intraprendere.

mercoledì 22 aprile 2015

Ancora la fine del ‘politico’? Lo «Stato disaggregato» secondo Massimo Terni




Questa recensione al volume di Massimo Terni, Stato (Bollati Boringhieri, pp. 121, euro 9.00), è stata pubblicata sul sito dell'Istituto di Politica.


di Damiano Palano

Si possono nutrire davvero pochi dubbi sul fatto che la parola «globalizzazione» abbia segnato negli anni Novanta del secolo scorso il dibattito in quasi ogni ramo delle scienze sociali. Rilette a quasi vent’anni di distanza, molte delle diagnosi allora formulate non possono che apparire quantomeno piuttosto ingenue, soprattutto quando facevano discendere dalla «globalizzazione» una serie di radicali conseguenze, come per esempio la «fine dello Stato», la vittoria dell’economia sulla politica, l’obsolescenza della guerra. Tutte convinzioni, a ben guardare, tutt’altro che nuove, ma che dopo la fine della Guerra fredda trovarono nuovo alimento. Dopo l’11 settembre 2001, molti di quei sogni si sono infranti contro una realtà ben diversa: una realtà che ha riportato in prima linea gli Stati, la forza militare, la brutalità della guerra. E qualche anno dopo la crisi globale ha messo fine anche all’idea di un mercato capace di produrre ‘spontaneamente’ un ordine sociale, senza alcuna necessità di interventi e sostegni da parte degli Stati.
A più di un quarto di secolo dalla fatidica caduta del Muro berlinese sembra ancora molto lontana la conquista di uno stabile ordine mondiale, e anche per questo è tutt’altro che agevole capire in quali direzioni si indirizzerà la trasformazione dello Stato nei prossimi decenni. Un contributo interessante alla comprensione di questi processi è offerto dal volumetto Stato di Massimo Terni (Bollati Boringhieri, pp. 121, euro 9.00), in cui il principale protagonista della politica moderna viene indagato da diverse prospettive, ma soprattutto con l’obiettivo di capire dove conduca la metamorfosi in atto.
Le tesi principali del discorso di Terni sono due. La prima è che oggi siamo sempre più dinanzi a uno «Stato disaggregato», che in sostanza scaturisce dallo smembramento di pezzi del vecchio Stato-nazione. Come scrive Terni, lo Stato disaggregato risulta composto «da una costellazione di pezzi istituzionali del suo stesso apparato burocratico, investiti di una sorta di delega di fatto, incompatibile con le caratteristiche della stessa sovranità»; ognuno di questi pezzi «si occupa di settori specializzati, quali la finanza e il commercio, la produzione e gestione dell’energia, la giustizia, l’esercito e l’intelligence, e la difesa dell’ambiente» (p. 45). Il dato di fondo, in cui questa nuova figura dello Stato prende forma, è però soprattutto l’emergere di «una nuova politica di cooperazione mondiale di tutti con tutti, e non più di tutti contro tutti» (p. 47). La seconda tesi di Terni è invece molto più radicale, perché sembra suggerire non solo una «dispersione del ‘politico’ nel labirintico e deregolato mondo dell’economia globale» (p. 59), ma anche un sostanziale superamento del ‘politico’, o quantomeno di ciò che – a partire da Carl Schmitt – si considera come specifico del fenomeno ‘politico’, e cioè il conflitto, la guerra, la contrapposizione (sempre tendenzialmente violenta).  Da questo punto di vista, Terni non esita a esplicitare una tesi che riecheggia le vecchie convinzioni di Norman Angell sulla «grande illusione»: «Stiamo arrivando a una svolta. Se vogliamo demarcare un prima rispetto a un dopo, possiamo raccontare una storia di questo tipo: fino a oggi la vicenda dell’umanità è stata fatta da uomini che hanno affidato la possibilità di una loro convivenza all’accettazione della sovranità di uno Stato. L’idea di fondo era quella hobbesiana della pulsione naturale dell’uomo al conflitto e della conseguente neutralizzazione della mutua violenza che ne deriva con la violenza coercitiva di un potere supremo da tutti condiviso. Questo è stato il prima. Il dopo è in una fase di preparazione. Forse è ora diventato possibile pensare a uno ‘stare insieme’ degli esseri umani sulla base di una concezione del tutto diversa della natura dell’uomo e delle sue relazioni. Si tratta di accantonare l’indimostrata metafisica di uno stato di natura simile a una giungla di belve feroci e la conseguente ipotesi di una originaria natura malvagia dell’uomo. […] Ma Hobbes ha fatto il suo tempo, e insieme a lui la fantasia letteraria del suo uomo della natura» (pp. 111-113).
Questa critica dei fondamenti della visione realistica della natura umana – una critica di cui sarebbe ingenuo trascurare gli elementi di forza – si conclude però con una visione che certo non potrà apparire convincente a molti, nella misura in cui ritiene che il mercato – come sfera capace di mettere pacificamente in relazione gli esseri umani – sia in grado di superare definitivamente lo Stato, la guerra e, in fondo, la stessa politica: «Se tutto questo è vero», scrive infatti Terni, «si può pensare alla comunità internazionale, di cui ciascuno di noi è un virtuale cittadino, come a una società senza Stato. O meglio, come a un’informale cosmopolis postmoderna, coincidente con un mercato globale, che è di per sé autore di una capillare e diffusa integrazione sociale. Una realtà in cui, in un futuro non così lontano, si dovrebbe poter fare a meno del classico dispositivo della sovranità e della metafora dello Stato-nave, a suo tempo proposta da Platone e poi riproposta da Bodin» (p. 115).

Anche se l’idea dello «Stato disaggregato» appare interessante, e meritevole di approfondimento, è scontato che proprio la tesi sul tramonto del ‘politico’ debba lasciare piuttosto perplessi quantomeno coloro che – pur senza celebrare lo Stato-potenza – continuano a ritrovare un nucleo di verità nelle vecchie tesi del realismo politico. E, d’altro canto, anche se il mondo di oggi appare davvero molto simile a quel «nuovo Medio Evo» di cui scrisse Hedley Bull negli anni Settanta, le parole di Terni non possono non suonare quantomeno un po’ troppo in anticipo rispetto alla realtà dei conflitti che crescono attorno al Vecchio continente, raggiungendo vette di violenza raccapriccianti. Un rischio di queste letture è naturalmente quello di sottovalutare i rischi effettivi, e di immaginare il futuro in modo del tutto irrealistico. Ma un rischio forse ancora più rilevante è di suggerire una chiave interpretativa destinata a produrre risultati esattamente opposti rispetto a quelli che si auspicano. Certo, se si pensa che tutti gli Stati pensino solo ad accrescere la loro potenza, si finisce sempre col preparare una guerra. Ma se si pensa che il mondo sia destinato a diventare pacifico, che possa essere governato solo da relazioni commerciali, che il ‘politico’ sia definitivamente superato, che l’uomo delle foreste di Hobbes sia solo un relitto del passato, il rischio è invece di interpretare ogni conflitto reale che si presenta sulla scena come una riemersione del passato, come l’escrescenza di un retaggio arcaico, come una malattia che deve essere curata con strumenti adeguati. E, allora, la conseguenza è di considerare i nemici come ‘eccezioni’ sulla via del progresso, come ‘folli’ che nulla hanno da spartire con il consorzio civile. Col risultato che diventa quasi inevitabile imbarcarsi, ancora una volta, nell’«ultima guerra del genere umano».


Damiano Palano

giovedì 16 aprile 2015

"La democrazia senza qualità. Le 'promesse non mantenute' della teoria democratica". Dal 29 aprile in libreria



Dal 29 aprile 2015, a grande richiesta, sarà finalmente disponibile la nuova edizione accresciuta di

Damiano Palano
La democrazia senza qualità
Le "promesse non mantenute" della teoria democratica
Mimesis, Collana Eterotopie, pp. 224, 22 euro.


martedì 14 aprile 2015

Un tribuno veglia sul Colle. Le trasformazioni del presidente della repubblica nella lettura di Marco Gervasoni


 
 
Questa recensione del volume di Marco Gevasoni,Le armate del presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana (Marsilio, pp. 173), è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica.
Una presentazione del libro si svolgerà martedì 21 aprile 2015, ore 18.30, alla Casa della Cultura di Milano (Via Borgogna 3).
Alla discussione parteciperanno, oltre all'autore, Carlo Tognoli, Agostino Giovagnoli, Valerio Onida e Damiano Palano
 
di Damiano Palano
 
Benché sia difficile stilare graduatorie di popolarità, è molto probabile che i fotogrammi più famosi (e amati) di un presidente della repubblica siano quelli che ritraggono Sandro Pertini nello stadio Santiago Bernabeu di Madrid la sera dell’11 luglio 1982. Guardando con attenzione quelle immagini – in cui Pertini, con l’inseparabile pipa, scatta in piedi per salutare la terza rete segnata dall’Italia nella finale del Mundial spagnolo – non si riconosce d’altronde solo una scena ormai familiare, vista mille volte, e uno dei momenti forse più felici della storia nazionale recente. Osservando ora quell’immagine si può infatti cogliere anche l’anticipazione di tante cose che sarebbero arrivate dopo, e in particolare di uno stile che molti politici – con maggiore o minore successo – avrebbero cercato in qualche modo di emulare.
Come ricordava qualche tempo fa Marco Gervasoni nella sua Storia d’Italia degli anni ottanta, «nei viaggi ufficiali Pertini si presentava come un italiano nuovo e antico al tempo stesso: sovente le regole del protocollo venivano infrante e il presidente non si risparmiava le gaffe imbarazzanti, che però restituivano l’immagine di un paese vitale, dinamico, di cui ci si poteva sentire orgogliosi». E naturalmente il culmine si raggiunse proprio il giorno della finale tra Italia e Germania: «Nella tribuna d’onore dello stadio Bernabeu di Madrid, Pertini seduto accanto al re spagnolo Juan Carlos, esultò a ogni gol della Nazionale, gesticolando e inquietandosi, per poi partecipare in maniera certo non formale alla cerimonia della premiazione. Riportò infine la squadra in Italia con l’aereo presidenziale, facendosi riprendere dalle televisioni a giocare a scopone con l’allenatore, Enzo Bearzot» (M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia, 2010, p. 29).
 
 
Se nella ricostruzione delle trasformazioni degli anni Ottanta, Gervasoni si soffermava solo tangenzialmente sulla svolta comunicativa della presidenza di Pertini, nel suo nuovo lavoro considera invece ampiamente il significato e la portata di quell’esperienza, che in qualche modo segnò un punto di non ritorno nell’evoluzione della più elevata carica dello Stato. Nel recente Le armate del presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana (Marsilio, pp. 173, euro 19.00), Gervasoni ricostruire infatti le trasformazioni nel ruolo giocato dal presidente della repubblica in quasi settant’anni di vita politica. E l’immagine che ne esce è quantomeno in contrasto con molte delle letture più consuete, che ritengono che l’inquilino del Quirinale sia (e debba essere) semplicemente un ‘arbitro’ del gioco politico, un ‘arbitro’, un ‘potere neutro’ che deve limitarsi a esercitare una funzione di custode della Costituzione, senza entrare nell’agone e senza influire sulle scelte degli esecutivi. In realtà, sostiene infatti Gervasoni, le diverse personalità che si sono succedute alla più alta carica dello Stato hanno cercato – seppur con ritmi e stili differenti – di influire sulla linea dei differenti governi, tentando più spesso di quanto non si creda di determinarne la stessa composizione. Ma soprattutto – ed è questa la tesi principale del lavoro di Gervasoni – la figura del presidente ha quasi assunto i contorni di una sorta di antagonista non tanto del Parlamento quanto dei partiti. E se nei primi tre decenni della storia repubblicana gli inquilini del Quirinale non riuscirono, se non episodicamente, a esercitare un’azione di stabile controllo sui partiti (e sugli esecutivi), a partire dalla presidenza di Pertini qualcosa iniziò a cambiare, perché. da quel momento, il presidente poté utilizzare una preziosissima risorsa di legittimazione: una risorsa che non proveniva naturalmente dall’elezione diretta da parte dei cittadini, ma da un utilizzo della comunicazione che consentiva di stabilire un rapporto ‘diretto’ con i telespettatori. Proprio un simile rapporto venne a rafforzare quella che Gervasoni chiama – weberianamente – la «potenza» del Presidente: «la possibilità, che un uomo o una pluralità di uomini possiede di imporre il proprio volere in un agire di comunità anche contro la resistenza di altri soggetti partecipi di questo agire». E per questo – pur nel quadro delineato dal dettato costituzionale – «il capo dello Stato si trasformò nel solo potere frenante nei confronti dell’espansione della partitocrazia e, in alcuni casi, persino nel suo principale antagonista» (p. 12).
La tendenza alla ‘politicizzazione’ può essere già ravvisata nella presidenza di Enrico De Nicola, e in particolare nel suo rifiuto di rivolgere un ringraziamento agli Stati Uniti per gli aiuti del piano Marshall. Ma questa tendenza divenne sempre più chiara con la presidenza di Luigi Einaudi, in particolare in occasione della formazione del governo Pella (p. 47). Se De Nicola e Einaudi non avevano mai potuto contare su solidi legami di partito, i loro successori al Quirinale provenivano invece direttamente dal ceto politico, e questo ebbe conseguenze tutt’altro che irrilevanti sull’interpretazione della carica. In particolare, Gronchi – che, come nota Gervasoni, «fu il primo presidente della repubblica dotato di una sua, pur piccola, corrente organizzata e il primo organicamente politico di professione» (p. 51) – tentò effettivamente di estendere i confini del proprio ruolo, principalmente perché, al Quirinale, non cessò di essere un ‘uomo di partito’, sostenendo per esempio l’allargamento a sinistra della maggioranza di governo, suggerendo i nomi di alcuni ministri, conducendo una sorta di politica estera ‘parallela’ e addirittura richiedendo l’istituzione di uno specifico Ministero delle Partecipazioni statali. Durante la presidenza di Gronchi è dunque possibile ravvisare i primi rilevanti segnali di come il ruolo effettivo del Presidente tendesse a diventare un ‘freno’ nei confronti dei partiti: dal momento che le rivalità interne ai partiti rischiavano di paralizzare l’azione governativa, il presidente della repubblica veniva ad assumere un profilo di ‘controllore’ della loro attività (e non dunque semplicemente di ‘custode’ della Costituzione), con l’obiettivo di conferire maggiore coerenza ed efficacia all’azione di governo. Ma proprio per questo i tentativi di estendere il potere del Presidente dovevano quasi inevitabilmente scontrarsi con le resistenze dei partiti.
In questa progressiva trasformazione del Presidente in un «potere frenante» non poco dovevano contare la personalità, la provenienza e il profilo psicologico di chi era chiamato a rivestire la carica.
Ciò nonostante, è possibile riconoscere una linea di continuità, come dimostra d’altronde anche la breve presidenza di Antonio Segni, del tutto in linea con quella di Gronchi: «da premier Segni aveva dovuto subire Gronchi, riuscendo spesso a limitarlo, ma ora si trovava dall’altra parte della barricata con maggior potere, visto che deteneva il consenso della maggioranza dorotea, di cui continuava in sostanza a essere il capocorrente. Come Gronchi, Segni intrecciò poi un rapporto preferenziale con i vertici del Sifar e con settori dell’esercito e creò una task force, sia pure informale, al Quirinale, per esercitare un controllo accuratissimo sulle leggi. Come il suo predecessore impose al governo le nomine dei suoi uomini, non solo all’esecutivo, ma anche nell’alta burocrazia, nell’esercito, nei numerosi enti controllati dal governo» (pp. 62-63). Per molti motivi, Segni fu però un Presidente debole, e – a dispetto dei progetti presidenzialisti che proprio in quella fase incominciarono ad affiorare – i suoi tentativi di contrastare la formula governativa del centro-sinistra si rivelarono sostanzialmente inefficaci. Nella strisciante contrapposizione tra partiti e Presidente, ad avere la meglio furono senz’altro i primi. E la forza del «regime dei partiti», secondo la lettura di Gervasoni, limitò così notevolmente i due presidenti successivi, Saragat e Leone. Certo Saragat, dopo il 1968 (e il fallimento elettorale della fusione di Psi e Psdi), non nascose i propri disegni ‘presidenzialisti’ e non mancò di intraprendere alcune azioni ‘politiche’ significative, diventando di fatto «co-decisore» del governo. Ma nella realtà, con le sue iniziative, «finì per creare panico e scompiglio anziché fungere da stabilizzatore o almeno da protettore dalla paura, quale deve essere il leader come tribuno del popolo» (p. 79). E, d’altronde, «il regime dei partiti, di cui Saragat fu il garante, era ormai così sovrapposto allo Stato repubblicano che neanche se egli avesse voluto avrebbe potuto muoversi diversamente» (p. 80). L’ascesa di Leone al Colle segnò invece l’«apoteosi» dell’interpretazione ‘notarile’ della presidenza, principalmente per il profilo culturale dell’uomo politico napoletano, che non riuscì mai a stabilire alcuna empatia con l’opinione pubblica, e che per questo si trovò del tutto disarmato dinanzi al regime dei partiti. Se l’elezione di Pertini alla massima carica dello Stato doveva – nel disegno dei partiti – dare un sostegno alla solidarietà nazionale, nella realtà avvenne qualcosa di molto diverso, perché proprio allora incominciava la «fine dei partiti».
 
 
Nel passaggio cruciale tra gli anni Settanta e Ottanta, secondo la lettura di Gervasoni, esplodono due processi convergenti, la crisi della sovranità dello Stato (conseguentemente al processo di integrazione europea) e la crisi di legittimazione dei partiti. Ed è in questo quadro che il Quirinale trova un nuovo spazio d’azione. «La doppia crisi della sovranità e della legittimità dello Stato e dei partiti», scrive Gervasoni, «non poteva quindi che ricadere sul presidente in quanto vertice apicale dello Stato, ma anche in quanto garante politico della repubblica dei partiti. In questa fase, apertasi allora e a tutt’oggi non ancora conclusa, il presidente della repubblica cominciò a diventare la figura chiave della decisione politica dello stato di emergenza, un ruolo che i capi dello Stato in passato erano riusciti a esercitare solo a fasi alterne e comunque sempre in grande contrasto con i partiti» (p. 93). Le conseguenze della scelta di Pertini – giunta al sedicesimo scrutinio – si rivelarono ben presto molto diverse da quelle che i partiti si attendevano. Infatti, «Pertini intuì che, nel discredito del sistema dei partiti e nella crisi della loro legittimità, il presidente poteva ritagliarsi un ruolo ben specifico […] che passava per un’operazione simbolica, di comunicazione del verbo e dell’immagine del corpo del presidente in un legame diretto con i cittadini, senza la mediazione dei partiti e delle istituzioni» (p. 96). A Pertini riuscì infatti quell’operazione che Gronchi e Saragat avevano tentato senza successo, ossia di presentarsi – grazie all’utilizzo dei classici motivi populisti – come «il presidente degli italiani», contrapposto alla classe politica e ai partiti. E, benché le premesse iniziali fossero del tutto diverse, anche Cossiga percorse in seguito – dopo il 1989 – la medesima strada, conseguendo effetti molto diversi ma diventando comunque una sorta di tribuno in costante conflitto con il «regime dei partiti».
Dopo la presidenza di Cossiga, nella transizione verso la cosiddetta ‘seconda repubblica’, il quadro complessivo era destinato a mutare. In particolare, la ‘svolta maggioritaria’ – a dispetto dei risultati modesti sul piano della stabilità degli esecutivi – doveva assegnare al capo del governo una forza sconosciuta ai presidenti del consiglio della ‘prima Repubblica’, e questo non poteva non indebolire (teoricamente) il ruolo «frenante» del Quirinale. In realtà, però, nessuno dei presidenti succedutisi a partire dagli anni Novanta rinunciò effettivamente ai poteri di intervento, anche se naturalmente Scalfaro e Ciampi interpretarono la loro funzione in modi molto differenti. E proprio l’instabilità del bipolarismo doveva così consegnare, di fatto, uno spazio di manovra ancora più ampio al Quirinale. La forte personalizzazione era infatti destinata a generare un rapido logoramento della fiducia nei confronti del presidente del consiglio, mentre l’inquilino del Colle poteva contare sempre su livelli molto alti di consenso e fiducia. Ed era proprio questo ruolo di pivot politico che doveva emergere in modo evidente nel 2011, con la caduta del governo Berlusconi e la formazione del governo Monti. Come scrive a questo proposito Gervasoni: «Anche nella seconda repubblica lo scontro fra il capo dello Stato e i partiti non è cambiato, acquisendo anzi forme assai più destabilizzanti che nella prima. Una contraddizione che rischia di protrarsi, almeno fintantoché non si provveda a riformare la Costituzione negli articoli relativi ai poteri del capo dello Stato, così da renderlo politicamente responsabile, secondo il modello presidenziale o semipresidenziale; o finché non si giunga a modificare la forma della sua investitura e a introdurre l’elezione diretta del presidente, come avviene del resto in quasi tutti gli ordinamenti repubblicani europei» (p. 15).
A dispetto di questo richiamo, il libro di Gervasoni non intende proporre una revisione in senso ‘presidenzialista’ e ‘semi-presidenzialista’ della carta costituzionale. Più semplicemente, attraverso una ricostruzione storica punta a mostrare come il presidente della repubblica sia di fatto diventato un attore politico rilevante, come di fatto abbia sempre cercato di estendere il proprio ruolo ben oltre i confini del ‘notaio’ della Repubblica, e come sia spesso riuscito in questo compito puntando su due aspetti di cui è difficile negare la portata: da un lato, la crisi di legittimità dei partiti; dall’altro, la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica. Dal momento che è davvero poco plausibile l’ipotesi di un’inversione di entrambe queste tendenze, è piuttosto evidente che il quadro delineato da Gervasoni non è destinato a modificarsi. Certo, la personalizzazione e la spettacolarizzazione non producono sempre gli stessi risultati, e così è molto probabile che Sergio Mattarella non conoscerà mai la stessa popolarità di Pertini o dello stesso Napolitano (anche se è sempre difficile immaginare le traiettorie di un mandato lungo sette anni: il caso di Cossiga rimane sempre emblematico). Ma è comunque plausibile che il nuovo presidente non rinuncerà a quei poteri che i suoi predecessori hanno negli anni conquistato. E non è neppure da escludere che anche il nuovo inquilino del Colle non debba tornare a esercitare un ruolo significativo di pivot. Perché – è bene non dimenticarlo – nell’era della personalizzazione e della spettacolarizzazione, le leadership carismatiche, anche quelle apparentemente molto forti, poggiano su fondamenta fragilissime. E proprio per questo il presidente della repubblica può sempre tornare a rivestire quei panni di tribuno ‘impolitico’, che proprio Sandro Pertini seppe indossare probabilmente meglio di ogni altro, all’inizio di quella lunga «fine dei partiti» da cui non siamo mai davvero usciti.
 
Damiano Palano

venerdì 10 aprile 2015

Uno di noi. Matteo Renzi secondo Claudio Giunta


di Damiano Palano

È molto difficile prevedere in questo momento se il governo presieduto da Matteo Renzi riuscirà a mantenere almeno alcune delle sue molte promesse, e se le attese che la sua nascita ha destato in una fetta consistente dell’opinione pubblica italiana non andranno deluse. Ciò nonostante, la sensazione è che la parabola dell’uomo politico fiorentino non sia destinata a entrare rapidamente nella sua fase discendente, e che dunque il volto dell’ex sindaco di Firenze debba accompagnarci ancora a lungo, forse addirittura per un ventennio. Anche per questo la letteratura sul fenomeno non potrà che crescere nel corso dei prossimi anni, colmando il vuoto creatosi sui tavoli delle novità della saggistica con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Già negli ultimi mesi i libri su Renzi sono d’altronde comprensibilmente aumentati in termini esponenziali, e ai primi istant book, celebrativi e scandalistici, hanno iniziato ad affiancarsi testi di analisi e interpretazione più meditati. Fra questi si inserisce senza dubbio il volumetto di Claudio Giunta Essere #matteorenzi (il Mulino, pp. 80, euro 8.00), un libro che, sulla scorta probabilmente del vecchio saggetto di Umberto Eco su Mike Bongiorno, punta a proporre una sorta di «fenomenologia» del Presidente del Consiglio. 
Giunta insegna Letteratura italiana all’Università di Trento, e in effetti nel suo testo non si occupa propriamente di ‘politica’ (o quantomeno di ciò che di solito si intende con questo termine), ma in pagine godibilissime cerca di portare alla luce quel modo di intendere la vita, il mondo e se stessi di cui Matteo Renzi è portatore. D’altronde Giunta è soprattutto uno straordinario esploratore di luoghi comuni, e in fondo l’operazione che compie consiste proprio nel mostrare come Renzi – il suo modo di parlare, di gesticolare, di pigiare compulsivamente sui tasti dell’iPhone – sia un grumo di luoghi comuni, che condivide con i suoi coetanei. E proprio questo lo rende una fotografia, molto più fedele di quanto si possa pensare, della sua generazione.
È sin troppo facile smontare i discorsi di Renzi per mostrare l’inesistenza di qualsiasi struttura argomentativa e per dimostrare la totale latitanza di idee che non siano la riproposizione elementare delle più classiche conversazioni ferroviarie. D’altronde – ormai lo ha compreso anche il più distratto ascoltatore – la vera specialità di Matteo Renzi è la diversione. In quelle rare occasioni in cui si trova di fronte a un interlocutore che non svolga il ruolo della spalla comica, e che si spinga a fare una domanda minimamente puntuale (sui vincoli di bilancio, sul sistema fiscale, sui contratti di lavoro, sulla forma-partito, ecc.), le risposte di Renzi replicano sempre lo stesso schema, modulato in tre o quattro varianti: «Sarebbe bello parlare della forma-partito, ma temo che lo share crollerebbe…», «avete impegni per domani? Scherzi a parte, il problema non è il sistema in sé, ma il modo in cui finora l’abbiamo affrontato…», «Potremmo parlarne a lungo – e se volete possiamo anche parlarne – ma penso che agli italiani interessi davvero poco affrontare questo tema…». Ma più che di un’abile strategia di diversione, si tratta probabilmente di un modo di pensare istintivo. Un modo di pensare che induce Renzi a muoversi ininterrottamente da un problema a un altro, da un livello a quello successivo, senza mai soffermarsi più di qualche istante su una questione, e senza che ci sia mai (o quasi mai) un rapporto logico fra gli accostamenti. In questo Renzi non è certo un rivoluzionario. Non è infatti il primo politico che non risponde alle domande e che – parlando magari per un’ora di seguito – è in grado di non dire sostanzialmente nulla. Ma l’indubbia capacità dell’attuale segretario del Pd consiste nell’inanellare frusti luoghi comuni, strafalcioni imbarazzanti, battute stantie, giochi di parole stucchevoli con la naturalezza e l’entusiasmo di chi si diverte davvero, e che forse per questo riesce a divertire. 



Giunta lo sa bene, e la strada che percorre non è certo quella della critica a Renzi,  anche se la sua «fenomenologia» è costellata dai contrappunti di un «amico snob», cui è affidato il compito di mettere in luce tutte le enormità, le semplificazioni, il cattivo gusto dell’uomo politico. Piuttosto Giunta punta sull’elemento generazionale, sulla generazione dei quarantenni overachiever, di cui Renzi non fa che riproporre – in termini forse deformati e abnormi – tutti i tic culturali: «Degli overachiever Renzi possiede, più che la fretta, la concitazione. […] Il fare di Renzi, l’ossessione di fare, il progetto subito rientrato di fare una riforma al mese, non una buona riforma ma una riforma, purché venga fatta – tutta questa smania è dunque anche malattia dell’età e del tempo, cioè dell’età di Renzi, dei quarant’anni di Renzi vissuti dentro questo tempo: è la stessa smania che porta i coetanei di Renzi, i normali quarantenni che siamo, a mettere il proprio nome ai piedi di qualsiasi lista, a iscriversi a tutto, dal corso di Tai Chi alla Stramilano, dalle lezioni di cucina macrobiotica allo stage di counseling filosofico, dalla meditazione sufi al crossfit, a imparare un po’ di tutto ma niente davvero bene, perché lo specialismo è arido, e nessuna possibilità deve restare inevasa per questi Urlich in trentaduesimo: saperne un po’ di vino, parlare un po’ di tedesco, cavarsela ai fornelli, mandare la palla al di là della rete a tennis, ballare passabilmente la pizzica» (p. 51). 



Ma la concitazione ha un riflesso evidente anche nel modo di rapportarsi con la cultura, una cultura fatta di frammenti di immagini televisive, film, canzoni, che affiora costantemente dai discorsi di Renzi. Un simile impasto raggiungeva in Walter Veltroni – il ‘politico-intellettuale’ cui i posteri dovranno riconoscere il ruolo di autentico ‘precursore’ del «renzismo», un po’ come D’Annunzio fu il ‘precursore’ del fascismo – una notevole coerenza e assumeva persino i contorni di una filosofia volta a espellere dal mondo qualsiasi dimensione conflittuale che non fosse la distinzione netta fra il Bene e il Male assoluto (vedi L’eterno revival). In Renzi naturalmente tutto questo è molto più sfumato, forse persino incoerente. E in un simile atteggiamento Giunta ritrova proprio un tratto comune alla generazione di Renzi: « I quarantenni attuali misurano questa concitazione non solo nel loro presente ma anche nel loro passato, nell’incalcolabile numero di mode, film, canzoni, libri, spettacoli televisivi, e insomma nell’incalcolabile numero di cose che gli sono passate attraverso gli occhi e le orecchie dalla fine degli anni Settanta, quando hanno acquistato coscienza del mondo, sino ad oggi. Tutto questo tempo, compresso, dà le vertigini, e uno degli atteggiamenti più comuni, fra i quarantenni, è la verbalizzazione di queste vertigini, il continuo riferirsi a una ‘cultura’ percepita sia come straniante sia come intimamente connessa a ciò che si è. Per capirsi, la commercializzazione del pop puberal-adolescenziale in TV o nelle serate in discoteca: le sigle dei cartoni, Furia cavallo del West, Cristina D’Avena, il Trio Medusa. Tra i quarantenni, ripeto, perché tra i quaranta e i cinquanta cade l’ombra: cade cioè la sentenza della Corte costituzionale che mette fine al monopolio RAI, cade la fondazione di Telemilano, cade Drive-In» (pp. 51-52).
L’ossessivo ottimismo di Renzi ha incontrato un certo successo in una fetta consistente di italiani. È ancora difficile valutare l’entità reale di questo entusiasmo e soprattutto la sua capacità di resistere nel tempo. Ma dal contagio di questo ottimismo Giunta sembra immune proprio per motivi generazionali. «Quando uno ha vent’anni», scrive Giunta nelle pagine concluse del suo volumetto, «è portato a pensare che il ministro in giacca e cravatta che parla al microfono guardando in camera sappia cose che lui, ancora giovane, non sa». E immagina anche che «nell’incontro a Palazzo Chigi, con quelle facce serissime, quei completi scuri, si sia deciso qualcosa di risolutivo sulle banche, sulle pensioni, sull’immigrazione, qualcosa che avrà lunghi e positivi effetti sui destini di tutti», e «si aspetta che dietro quella evanescenza ci sia un macchinario perfettamente oliato, che i quarantenni hanno imparato a far camminare, e a mettere a posto se s’inceppa» (p. 75). E chi è più anziano finisce col rimanere vittima di una distorsione ottica del tutto speculare a quella dei ventenni. «Quando uno ha sessant’anni il mondo comincia a ridiventare incomprensibile, e allora si pensa che i più giovani abbiano la chiave non solo per interpretarlo ma anche per migliorarlo; e se il loro modo di pensare e di agire sembra strano s’incolpa non la loro stranezza, che nel frattempo è diventata la norma, ma la propria incapacità di stare al passo coi tempi» (p. 76). Ma chi ha quarant’anni o giù di lì, chi appartiene a quella stessa generazione che ha espresso Renzi, chi condivide con lui i percorsi di formazione ‘culturale’, gli stessi riferimenti cinematografici, televisivi, musicali, chi ha esattamente gli stessi ‘tic’ culturali, non può credere davvero in quell’ottimismo esibito, sbandierato ossessivamente. Semplicemente perché sa riconoscere bene cosa c’è dietro alcune parole, dietro alcune formule rituali, dietro le battute autoironiche, dietro le strategie di diversione, dietro i riferimenti pop al Ridge di Beautiful o alle televendite di Giorgio Mastrota. Un quarantenne – scrive infatti Giunta, cogliendo un punto centrale - «sa quando Matteo Renzi ha imparato parole di gomma come brainstorming, digital divide, Ceo, duepuntozero; sa come suonavano strane all’inizio; sa da dove gli arrivano tutti gli pseudo-concetti, le semplificazioni, il kitsch, la retorica, soprattutto la retorica – che significa ossequio, riconoscimento di valore reso non per sperimentata convinzione ma per conformismo ai luoghi comuni messi in circolo dai media, la retorica che è il contrario della deferenza -, la retorica che scambia gli slogan motivazionali con le buone intenzioni, e le buone intenzioni con la capacità di metterle in pratica, e posandosi sui concetti li svuota di senso e di aderenza alle cose, e li trasforma in arnesi da imbonitore: l’eccellenza, l’imprenditorialità, la Grande Bellezza, i Valori… Sotto l’intonaco dello storytelling, del positive thinking, il quarantenne vede saltar fuori tutta un’atroce Italia in cartongesso, riconosce la malattia nazionale del comparire, del fare bella figura o almeno non sfigurare, delle feste di matrimonio pagate con l’ipoteca sulla casa, ripensa alle parate mussoliniane coi dieci aerei cambiati di posto perché sembrino cento, riascolta l’abc berlusconiano a proposito del manager di successo – sorridere sempre, stretta di mano asciutta, niente barba – e ritrova insomma, sotto la crosta sottile delle fregnacce, che come diceva Gadda “so’ sempre fregnacce”, il volto familiare del’Italia Eterna, la Repubblica democratica fondata sulla Fuffa» (pp. 76-77).



Anche il più strenuo sostenitore di Matteo Renzi farebbe davvero fatica a contestare il ragionamento di Giunta. La «fenomenologia» dell’ex-sindaco di Firenze coglie infatti nel segno, nel senso che inserisce davvero il ‘fenomeno’ all’interno del contesto culturale che l’ha partorito e di cui porta interamente i segni. Ma – a dispetto dell’efficacia dell’operazione – è anche piuttosto chiaro che il ritratto di Giunta non serve ‘politicamente’ a nulla, se non a gratificare i palati fini di quegli «amici snob» che trovano nel «renzismo» niente altro che un’espressione degenerativa del «berlusconismo». E come vent’anni di critiche al «berlusconismo» - alla sua visione della donna, dell’impresa, della società, della democrazia, della libertà, e così via – non hanno partorito politicamente nulla di rilevante, ci si deve attendere che le critiche alla ‘cultura’ di Renzi non daranno origine proprio a niente, se non a un profluvio di pubblicazioni di cui il libretto di Giunta verrà considerato il capostipite. D’altronde, l’obiettivo che si propone Essere#matteorenzi non è certo politico, tanto che Giunta – forse più per retorica che per reale convinzione – non esclude neppure di poter essere contagiato dall’entusiasmo del Presidente del Consiglio. Ma, al di là dei risvolti specificamente politici, è indubbio che questo saggio inizia a indicare anche la direzione di un lavoro di scavo sulla metamorfosi delle culture (politiche) degli italiani, una metamorfosi di cui Renzi – più che artefice – è davvero il prodotto. E anche in questo caso, si dovrà probabilmente ritornare agli anni Ottanta, a quella «mutazione antropologica» in cui qualcuno ha intravisto la genesi di quell’«egemonia sottoculturale» di cui il «berlusconismo» si è alimentato, e di cui il «renzismo» costituisce forse l’apogeo.



Ma al di là di tutto questo, è inevitabile che la lettura di un libro come quello di Giunta sia destinata a suggerire anche altre domande. Domande che chiamano in causa proprio la generazione dei quarantenni, cui – detto per inciso – appartiene anche chi scrive queste righe. Per anni sulla stampa italiana sono affiorate periodicamente lamentazioni sulla scarsa valorizzazione dei giovani, di quella generazione di trenta e quarantenni ostacolata dalle resistenze della ‘gerontocrazia’ diffusa in Italia in tutti i settori. Si è letto di una guerra fra generazioni, che avrebbe danneggiato le giovani generazioni e privilegiato quelle meno giovani, nate tra gli anni Quaranta e Cinquanta, colpevoli di avere vissuto al di sopra dei propri mezzi e di avere sperperato risorse a tutto svantaggio di chi sarebbe venuto dopo. Oggi, dopo tante recriminazioni, con Matteo Renzi quella generazione ha ‘preso il potere’. Ma a questo punto si ci si potrebbe chiedere perché quella generazione non abbia saputo esprimere nulla di meglio di Renzi. E ci si potrebbe anche chiedere se davvero quella generazione, che tanto ha biasimato la propria condizione di marginalità, abbia realmente qualcosa da dire, qualcosa di rilevante che non coincida più o meno fedelmente con il vuoto pneumatico – un vuoto di idee, di prospettive, di progettualità – che traspare prepotentemente da qualsiasi esibizione pubblica del Presidente del Consiglio. Perché la sensazione – una sensazione anche angosciante – è che Renzi non sia affatto un’anomalia, ma restituisca invece con grande precisione proprio tutti i tratti, e tutta l’inconsistenza, il pressapochismo la superficialità di quella generazione, nata fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, che è cresciuta e si è formata ‘culturalmente’ negli anni Ottanta. Certo – come l’«amico snob» di Giunta – possiamo consolarci mettendo alla berlina gli strafalcioni di Renzi, le sue citazioni kitsch, le sue stucchevoli immagini sul fare e sulla comunità. Ma la verità più sconcertante – e forse anche umiliante – è che ogni quarantenne di media cultura, guardando Renzi mentre si sbraccia scompostamente, mentre indica delle slide, mentre commenta un video, mentre ammicca al pubblico in sala o preme compulsivamente sulla tastiera del suo telefonino, non può non riconoscere se stesso. Di fronte alle sue palpebre semichiuse, al suo labbro pendulo, allo sguardo che sbircia verso lo schermo del tablet e che non si fissa su nulla per più di qualche secondo, ogni quarantenne non può infatti evitare di ammettere quella verità perturbante che più si fatica ad accettare, e che dentro di sé si conosce fin troppo bene. Quella verità che ci dice ogni volta: «sì, è proprio vero: Matteo Renzi è uno di noi». 

Damiano Palano

P.S. Nel gustoso libretto di Giunta su Renzi non mi torna una frase (citata anche nella recensione): "Per capirsi, la commercializzazione del pop puberal-adolescenziale in TV o nelle serate in discoteca: le sigle dei cartoni, Furia cavallo del West, Cristina D’Avena, il Trio Medusa". Quello che non mi torna è proprio il Trio Medusa... Probabilmente - ma qui interpreto Giunta - il riferimento è ai Trettré, celebri tra i quarantenni per un tormentone non proprio fine. E chissà che il lapsus di Giunta non nasconda qualcosa... 

lunedì 6 aprile 2015

Il mondo anarchico di Kenneth N. Waltz. Una recensione a un volume di Elena Acuti sul politologo realista



Sull'ultimo numero di "Governare la paura" appare una recensione di Damiano Palano al volume di Elena Acuti, I limiti del neorealismo. L’evoluzione teorica di Kenneth Waltz (AlboVersorio, Milano, 2013).

Leggi la recensione sulla pagina di "Governare la paura".

Puoi scaricare il testo anche qui.