di Gian Antonio Stella
Questa recensione di Gian Antonio Stella al volume di Cesare Lombroso, "Scritti per il Corriere. 1884-1908", è apparsa sul "Corriere della Sera" di venerdì 6 febbraio 2015. Il volume verrà presentato a Milano, nella sede della Fondazione Corriere (Sala Buzzati, Via Balzan 3) lunedì 9 febbraio alle ore 18.00. Alla discussione, che sarà moderata da Antonio Carioti, parteciperanno Adriano Favole, Damiano Palano, Lorenzo Ornaghi e Gian Antonio Stella.
«Non v’è solo la camorra nel golfo di Napoli e fra i cocchieri e i rivenduglioli: purtroppo ve n’è pure, e di terribile nel seno delle Facoltà e nelle regioni governative, se non proprio nel Governo, così forte, in ogni modo, da forzare a questo la mano».
Lo scrive, scandalizzato per come vanno in cattedra certi colleghi universitari, Cesare Lombroso. È il 16 maggio 1901, il padre dell’antropologia criminale è da decenni lo scienziato italiano più celebre nel mondo e il «Corriere» ospita i suoi interventi, non frequentissimi, dando loro il massimo risalto. Anche quando prende a martellate il mondo dell’accademia.
Certo, scrive lo studioso invocando il pubblico concorso anche per gli «straordinari», c’è chi dice che questi «straordinari» hanno solo un incarico provvisorio. Ma non ce n’è uno poi «che perda il suo posto». Anzi: «Quanto più è scarso di ingegno e di cultura, tanto più egli si arrabatta colle arti dell’intrigo per restare nella sua nicchia, per avere favorevole quella maggioranza della Facoltà che non manca mai agli indotti e agli intriganti, e restare per lo meno a perpetuità straordinario». Un secolo fa…
Sono pepite d’oro, a rileggerli oggi, gli interventi dello scienziato pubblicati dal nostro giornale e raccolti nel libro Cesare Lombroso. Scritti per il «Corriere» 1884-1908 , edito dalla Fondazione Corriere e curato dal docente della Cattolica Damiano Palano, con una prefazione dell’ex ministro Lorenzo Ornaghi.
Molti articoli, come è ovvio, sono dedicati alla grande passione dello scienziato. E cioè, per dirla con Giorgio Ieranò dell’Università di Trento, all’«illusione di poter offrire di ogni aspetto, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convinzione di poter misurare quantitativamente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza». Con risultati tragicamente capovolti, spesso. Al punto d’esser presi a sostegno delle tesi più razziste sui neri, gli zingari, gli arabi, i meridionali o addirittura gli ebrei come lo stesso Lombroso…
Certo, lascia sbalorditi leggere oggi che il detenuto calabrese Giuseppe Villella era un «criminale» perché aveva nel cranio una «fossa occipitale mediana» che dimostrava l’appartenenza a uno stadio evolutivo precedente: «Questa particolarità manca nelle scimmie superiori (antropomorfe) e si vede solo appena accennata nei platirrini, nei macachi, nei cinocefali e ben distinta nelle più infime specie dei lemurini…».
Per non dire di certe generalizzazioni: «In genere, i ladri hanno notevole mobilità della faccia e delle mani, l’occhio piccolo, errabondo, mobilissimo, obliquo di spesso, folto e ravvicinato il sopracciglio, il naso torto o camuso (…). Negli stupratori, quasi sempre l’occhio è scintillante, fisionomia delicata, le labbra e le palpebre tumide, e per lo più sono gracili e qualche volta gibbosi (…); gli omicidi abituali hanno lo sguardo vitreo, freddo, immobile, qualche volta sanguigno e iniettato, il naso spesso aquilino o meglio grifagno…». Ma quello, che già divideva gli scienziati dell’epoca, è il Lombroso più conosciuto.
La raccolta di articoli sul «Corriere» è preziosa perché recupera anche un «altro» Lombroso. Curioso di tutto, appassionato a tutto, deciso a dir la sua su tutto. Dalla vaccinazione contro il colera all’esaurimento del genio, dove cerca di dimostrare che i grandi genii vivono sì più a lungo perché Michelangelo e Petrarca «vissero fino a novant’anni, Hobbes a 92, Tiziano 99…», ma che il meglio lo diedero da giovani.
E accanto a piccoli e ustionanti saggi sulla criminalità della Barbagia o sui suicidi nelle carceri dove denuncia la cella d’isolamento come «il più atroce e insieme il più inutile dei supplizî (…) perché l’uomo, essendo un animale socievole, ha più bisogno della vita sociale che del pane; supplizio inutile, perché, invece di preparare il delinquente ad una nuova vita, lo inasprisce nel male», ecco apparire un lungo pezzo sui miliardari americani, dove spiega che non hanno «quasi mai caratteri del genio» ma «grande equilibrio mentale e spirito di risparmio che va fino all’avarizia». O perfino un intervento su «Le stalattiti e l’arte indiana e moresca» dove afferma che le origini «si possono cercare nell’imitazione dei blocchi stalattitici», giacché un sacco di templi buddisti sono ospitati in grandi e antiche grotte.
Le chicche, però, sono soprattutto tre pezzi. Nel primo illustra estasiato le invenzioni delle «macchine alleate del pensiero» come la macchina per scrivere, il «contometro» padre della calcolatrice, il «tachiantropometro» costruito per misurare il cranio delle persone… Nel secondo racconta l’improvvisa scoperta della magia: «Ora io che ero così avverso allo spiritismo da non accettare per molti anni, nemmeno, di assistere ad un esperimento, dovetti nel marzo 1891 presenziarne uno in pieno giorno, da solo a solo, coll’Eusapia Paladino, in un albergo di Napoli, in cui vidi alzarsi ad una grande altezza un tavolo e trasferirsi in aria oggetti pesantissimi; e d’allora accettai di occuparmene».
Restò tanto impressionato che a un certo punto chiese alla donna di incontrare sua madre, che gli parlava in dialetto veneto: «Subito dopo vidi (… ) staccarsi dalla tenda una figura alquanto bassa come era quella della mia mamma, velata, che fece il giro completo del tavolo fino a me, sussurrandomi delle parole da molti udite, non da me, sordastro; tanto che io quasi fuor di me dalla emozione la supplicai di ripeterle, ed essa ripeté: “Cesar, fio mio”», Cesare, figlio mio…
Ma come dimenticare gli ambasciatori? «La maggior parte degli uomini che giudica così alla grossa sulle cose umane, vedendo i diplomatici, sempre in cilindro e frack, carichi come un cimitero di croci, gravemente sdraiati in cocchi ricchissimi, accigliati come uomini a cui pesi il pondo di immense responsabilità, tenaci a non sbottonarvisi se non a monosillabi, a parole tronche, a gesti sobrî, non si sognano nemmeno che si tratti spessissimo, invece che di genii latenti, di uomini di una fenomenale leggerezza che dànno più importanza alla ricchezza e ai titoli di nobiltà che non alla più superficiale coltura; né immaginano mai che quei gravi pensieri da cui pare debba dipendere il fato degli umani si risolvano al più in qual cavallo sia per vincere al Derby e quale sarà l’uomo preferito della ballerina X».
Damiano Palano
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