Questa recensione a K. Polanyi, Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918-1963 (Jaca Book, 2015), è apparsa su "Avvenire" del 15 febbraio 2015, con il titolo Karl Polanyi e le domande inevase dei giovani della Grande Guerra.
di Damiano Palano
Come molti suoi coetanei, allo scoppio della Grande guerra Karl Polanyi (1886-1964) fu chiamato alle armi per difendere le insegne degli Asburgo. Alla fine del conflitto, dopo il crollo dell’Impero e il fallimento della rivoluzione ungherese, il giovane intellettuale lasciò Budapest, dove aveva vissuto e studiato, per trasferirsi a Vienna. E proprio nella capitale austriaca – come raccontò qualche anno dopo – avvenne una svolta destinata a influire su tutta la sua riflessione. Nel giugno 1919, mentre era ricoverato in ospedale a causa di una seria malattia, gli si profilò infatti una domanda cruciale. «Come possiamo essere liberi, nonostante che la società sia un fatto?», iniziò a chiedersi. E proprio quell’interrogativo l’avrebbe indotto a scrivere La grande trasformazione, pubblicata nel 1944, quando ormai Polanyi, ebreo di nazionalità ungherese, si era trasferito negli Stati Uniti. Per ripercorrere il sentiero intellettuale che condusse Polanyi alla sua opera più famosa sono ora davvero utili i testi ora raccolti in Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918-1963 (Jaca Book, pp. 378, euro 24.00). Tra i molti materiali interessanti, in larga parte risalenti al ventennio compreso fra le due guerre, spicca senza dubbio uno dei primi saggi, La missione della nostra generazione, apparso nel giugno 1918. In quelle pagine il giovane intellettuale prevedeva infatti che i posteri non sarebbero mai stati in grado di comprendere lo stato d’animo degli anni della guerra. Si trattava di “una condizione malata, accompagnata da un senso comune tormentoso”: una condizione che nasceva dal dolore causato dalla “perdita del senso dell’esistenza”, e cioè dal fatto che gli individui avevano assistito alla catastrofe senza capirne i motivi. Ma proprio per questo la missione della generazione che aveva vissuto la guerra consisteva nel rifiuto dell’oblio. Perché solo conservando il ricordo si potevano comprendere le vere cause che avevano spinto il Vecchio continente verso la tragedia.
Negli anni seguenti l’intellettuale di origine ungherese cercò effettivamente di svolgere quella missione, attingendo a una molteplicità di tradizioni teoriche. Una prima sequenza del ripensamento sviluppato da Polanyi è senza dubbio rappresentata dalla critica al determinismo marxista, inteso come espressione di una “politica amorale”, e cioè di una politica che “spera di raggiungere i propri scopi senza cambiare la gente”. Ma un secondo snodo è anche costituito dal tentativo di dare una lettura cristiana del socialismo, un tentativo compiuto soprattutto negli anni Trenta, quando Polanyi in Inghilterra divenne attivista di un gruppo della Christian Left. Proprio quella visione – secondo cui la libertà garantita dal mercato era solo una libertà illusoria – consentì d’altronde all’intellettuale ungherese di dare una risposta alla domanda che si era posto fin dal 1919. L’idea al cuore della Grande trasformazione era infatti che le cause dei disastri che avevano colpito l’Europa a partire dal 1914 andassero ricercate molto più indietro nel tempo, nella rivoluzione industriale inglese della fine del Settecento. L’ordine economico liberale crollato nel 1914 doveva essere studiato proprio nel luogo in cui erano nati il libero scambio, l’economia di mercato e il gold standard. Secondo il grande affresco di Polanyi – tutt’altro che superato, almeno nella ricostruzione storica della nascita della società industriale – proprio l’‘invenzione’ dell’homo economicus aveva sancito infatti la conquista di una piena autonomia da parte della logica del guadagno. Il ruolo giocato in precedenza dalla reciprocità e dalla redistribuzione era stato così completamente cancellato. E proprio in quel momento, mentre lo scambio cominciava a essere celebrato come l’unica forma possibile di relazione economica, l’avidità umana poteva diventare l’unica base legittima dell’ordine sociale.
Damiano Palano
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