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venerdì 27 febbraio 2015

Frammenti di stasiologia. Su un volume di Giorgio Agamben

di Damiano Palano

Leggere un libro di Giorgio Agamben dà spesso l’impressione di percorrere i corridoi di una sorta di biblioteca di Babele guidati da un bibliotecario compiaciuto, che si diverte a mostrare palchetti polverosi e a condurre i propri ospiti attraverso passaggi segreti che conducono a sezioni di cui si ignorava l’esistenza. Quasi invariabilmente, dentro questo labirinto, si perdono tutti i punti di riferimento e si fatica a ritrovare la strada che conduce verso l’uscita. Appena chiuso il volume, e recuperato l’orientamento, la sensazione è però quella di ritrovarsi esattamente al punto di partenza. E che dunque tutte le domande iniziali siano rimaste senza risposta.
È questa anche l’impressione che dà il più recente volume di Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico (Bollati Boringhieri, Torino, 2015). Un primo motivo di disorientamento è dato dalla collocazione di questo volume all’interno del progetto Homo sacer, inaugurato da Agamben nel 1995 e di fatto giunto all’ultimo capitolo con la pubblicazione di L’Uso dei corpi (Neri Pozza, 2014). In effetti, benché venga pubblicato solo oggi, Stasis – come dichiara l’autore nelle pagine introduttive – riprende i testi di due seminari tenuti all’Università di Princeton nel 2001, all’indomani degli attentati terroristici dell’11 settembre. Ma a disorientare non è tanto il lungo lasso temporale che separa la redazione dalla pubblicazione, quanto il fatto che il sottotitolo qualifica il volumetto come Homo sacer, II, 2, esattamente come il precedente volume Il regno e la gloria (Neri Pozza, 2007, poi ripubblicato da Bollati Borginghieri, 2009). Una simile sovrapposizione può suggerire il sospetto che il corpus di Homo sacer sia destinato ad accrescersi ulteriormente, o comunque che l’ordine dei diversi capitoli debba essere modificato, o infine che la geometria dell’opera non debba essere intesa in termini così rigorosi (e, d’altronde, non potrebbe essere diversamente per un piano che è cresciuto, nel corso di vent’anni, per accumulazioni e stratificazioni).

Il primo dei due testi si confonta con il concetto di stasis e con la concezione che il mondo greco ha della guerra civile. Per la verità il primo capitolo si concentra in modo prevalente con una tesi di Nicole Loraux, secondo cui esisterebbe nell’esperienza greca una relazione stretta tra la famiglia e la guerra civile: in altre parole, la guerra civile sarebbe una guerra tra fratelli, e in quanto tale risulterebbe parte integrante della vita politica dei Greci. Naturalmente non è difficile per Agamben mettere in questione l’ipotesi di Loreaux, se non altro perché oikos e polis – e dunque i legami di fratellanza e i legami che uniscono i cittadini – non sembrano affatto riducibili a unità. Ma Agamben, sulla base di questa critica, riesce a collocare anche la stasis all’interno dello schema al cuore di Homo sacer, secondo cui la prestazione originaria del potere sovrano è «la produzione di un corpo biopolitico», e dunque di una sfera di indistinzione tra zoé e bios: «La stasis […] non ha luogo né nell’oikos né nella polis, né nella famiglia né nella città: essa costituisce una zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città. Trasgredendo questa soglia, l’oikos si politicizza e, inversamente, la polis si ‘economizza’, cioè si riduce a oikos. Ciò significa che, nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città e la città si depoliticizza in famiglia» (p. 24).
Il secondo saggio raccolto nel volume invece lambisce solo in parte il tema della guerra civile, perché si concentra piuttosto sul Leviatano di Hobbes e su una critica dell’interpretazione di Schmitt, secondo la quale la simbologia del mostro biblico avrebbe perso nell’opera del pensatore inglese il proprio contenuto esoterico ed escatologico. Al contrario, Agamben suggerisce – in particolare indagando il celebre frontespizio, e tentando di sollevare il sipario che sembra occultare in parte il corpo del sovrano – che queste implicazioni debbano essere riconosciute, e così conclude: «È forse un’ironia della sorte che il Leviathan   questo testo così densamente e, forse, ironicamente escatologico – sia diventato uno dei paradigmi della teoria moderna dello Stato. Ma è certo che la filosofia politica della modernità non potrà uscire dalle sue contraddizioni se non prenderà coscienza delle sue radici teologiche» (p. 77).

Questa affermazione poteva apparire forse enigmatica nel 2001, ma nelle sue ultime opere Agamben ha chiarito in che senso debba essere inteso quel riferimento alle radici teologiche delle contraddizioni  della filosofia politica della modernità. Anche in questo caso, però, la sensazione è sempre quella che il viaggio attraverso il labirinto in cui Agamben conduce i propri lettori si concluda in modo deludente. E l’impressione è in particolare che la promessa di svelare gli arcani della politica occidentale finisca in fondo con l’offrire solo una serie di luoghi comuni, in alcuni casi persino triviali, che ben poco aggiungono alla nostra conoscenza dei problemi della politica contemporanea. Ma ciò non significa certo che il pensiero di questo autore non debba essere considerato con attenzione, e che le sue ipotesi non vadano accuratamente osservate, magari per smontarle e per mostrarne le implicazioni politiche. Anche perché, a ben guardare, si potrebbe ritrovare nella riflessione di questo esponente della “Italian Theory” (se quest’etichetta ha un senso, e non è solo una trovata) non tanto una rivisitazione della biopolitica foucaultiana, quanto la più seducente celebrazione di una sorta di sinistra tanatopolitica postmoderna.

Damiano Palano 

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