Leggere un libro di Giorgio Agamben dà spesso l’impressione
di percorrere i corridoi di una sorta di biblioteca di Babele guidati da un
bibliotecario compiaciuto, che si diverte a mostrare palchetti polverosi e a
condurre i propri ospiti attraverso passaggi segreti che conducono a sezioni di
cui si ignorava l’esistenza. Quasi invariabilmente, dentro questo labirinto, si
perdono tutti i punti di riferimento e si fatica a ritrovare la
strada che conduce verso l’uscita. Appena chiuso il volume, e recuperato
l’orientamento, la sensazione è però quella di ritrovarsi esattamente al punto
di partenza. E che dunque tutte le domande iniziali siano rimaste senza
risposta.
È questa anche l’impressione che dà il più recente volume di
Agamben, Stasis. La guerra civile come
paradigma politico (Bollati Boringhieri, Torino, 2015). Un primo motivo di
disorientamento è dato dalla collocazione di questo volume all’interno del
progetto Homo sacer, inaugurato da
Agamben nel 1995 e di fatto giunto all’ultimo capitolo con la pubblicazione di L’Uso dei corpi (Neri Pozza, 2014). In
effetti, benché venga pubblicato solo oggi, Stasis
– come dichiara l’autore nelle pagine introduttive – riprende i testi di due
seminari tenuti all’Università di Princeton nel 2001, all’indomani degli
attentati terroristici dell’11 settembre. Ma a disorientare non è tanto il
lungo lasso temporale che separa la redazione dalla pubblicazione, quanto il
fatto che il sottotitolo qualifica il volumetto come Homo sacer, II, 2, esattamente come il precedente volume Il regno e la gloria (Neri Pozza, 2007,
poi ripubblicato da Bollati Borginghieri, 2009). Una simile sovrapposizione può
suggerire il sospetto che il corpus di Homo
sacer sia destinato ad accrescersi ulteriormente, o comunque che l’ordine
dei diversi capitoli debba essere modificato, o infine che la geometria dell’opera
non debba essere intesa in termini così rigorosi (e, d’altronde, non potrebbe
essere diversamente per un piano che è cresciuto, nel corso di vent’anni, per
accumulazioni e stratificazioni).
Il primo dei due testi si confonta con il concetto di stasis e con la concezione che il mondo
greco ha della guerra civile. Per la verità il primo capitolo si concentra in
modo prevalente con una tesi di Nicole Loraux, secondo cui esisterebbe
nell’esperienza greca una relazione stretta tra la famiglia e la guerra civile:
in altre parole, la guerra civile sarebbe una guerra tra fratelli, e in quanto
tale risulterebbe parte integrante della vita politica dei Greci. Naturalmente
non è difficile per Agamben mettere in questione l’ipotesi di Loreaux, se non
altro perché oikos e polis – e dunque i legami di fratellanza
e i legami che uniscono i cittadini – non sembrano affatto riducibili a unità.
Ma Agamben, sulla base di questa critica, riesce a collocare anche la stasis all’interno dello schema al cuore
di Homo sacer, secondo cui la
prestazione originaria del potere sovrano è «la produzione di un corpo
biopolitico», e dunque di una sfera di indistinzione tra zoé e bios: «La stasis […] non ha luogo né nell’oikos né nella polis, né nella famiglia né nella città: essa costituisce una zona
di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della
città. Trasgredendo questa soglia, l’oikos
si politicizza e, inversamente, la polis
si ‘economizza’, cioè si riduce a oikos.
Ciò significa che, nel sistema della
politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o
di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città e la
città si depoliticizza in famiglia» (p. 24).
Il secondo saggio raccolto nel volume invece lambisce
solo in parte il tema della guerra civile, perché si concentra piuttosto sul Leviatano di Hobbes e su una critica
dell’interpretazione di Schmitt, secondo la quale la simbologia del mostro
biblico avrebbe perso nell’opera del pensatore inglese il proprio contenuto
esoterico ed escatologico. Al contrario, Agamben suggerisce – in particolare
indagando il celebre frontespizio, e tentando di sollevare il sipario che
sembra occultare in parte il corpo del sovrano – che queste implicazioni
debbano essere riconosciute, e così conclude: «È forse un’ironia della sorte
che il Leviathan – questo testo così densamente e, forse,
ironicamente escatologico – sia diventato uno dei paradigmi della teoria
moderna dello Stato. Ma è certo che la filosofia politica della modernità non
potrà uscire dalle sue contraddizioni se non prenderà coscienza delle sue
radici teologiche» (p. 77).
Questa affermazione poteva apparire forse enigmatica nel
2001, ma nelle sue ultime opere Agamben ha chiarito in che senso debba essere
inteso quel riferimento alle radici teologiche delle contraddizioni della filosofia politica della modernità.
Anche in questo caso, però, la sensazione è sempre quella che il viaggio attraverso
il labirinto in cui Agamben conduce i propri lettori si concluda in modo
deludente. E l’impressione è in particolare che la promessa di svelare gli
arcani della politica occidentale finisca in fondo con l’offrire solo una serie
di luoghi comuni, in alcuni casi persino triviali, che ben poco aggiungono alla
nostra conoscenza dei problemi della politica contemporanea. Ma ciò non
significa certo che il pensiero di questo autore non debba essere considerato
con attenzione, e che le sue ipotesi non vadano accuratamente osservate, magari
per smontarle e per mostrarne le implicazioni politiche. Anche perché, a ben
guardare, si potrebbe ritrovare nella riflessione di questo esponente della
“Italian Theory” (se quest’etichetta ha un senso, e non è solo una trovata) non
tanto una rivisitazione della biopolitica foucaultiana, quanto la più seducente celebrazione di una sorta di sinistra tanatopolitica postmoderna.
Damiano Palano
Damiano Palano
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