sabato 10 gennaio 2015

Un epitaffio per la scienza politica italiana?

di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica - RdP online.


Nella primavera del 1973, nell’alveo dell’Associazione Italiana di Scienze Politiche e Sociali, si costituì una nuova sezione, da cui poco meno di dieci anni dopo, nel 1981, sarebbe nata la Società Italiana di Scienza Politica (Sisp). Quel passaggio, che seguiva di poco la fondazione della «Rivista Italiana di Scienza Politica», sanciva senza dubbio una tappa importante per l’affermazione della disciplina (che peraltro da alcuni anni, con la riforma del 1968, era stata stabilmente introdotta nei piani di studio delle Facoltà di Scienze politiche). Il volume Quarant’anni di scienza politica in Italia, curato da Gianfranco Pasquino, Marta Regalia e Marco Valbruzzi (Il Mulino, pp. 322, euro 26.00), nasce proprio con l’obiettivo di celebrare questo anniversario. Il testo non si propone in realtà di stilare un bilancio, ma solo di offrire una panoramica sui campi di studi più frequentanti dai membri della Sisp, almeno secondo il quadro che emerge da una rilevazione condotta dall’associazione. Per ciascuno dei singoli ambiti sono così proposti brevi saggi, in cui alcuni tra i più noti cultori della disciplina ricostruiscono il dibattito e lo stato delle ricerche. 
Esaminando i numerosi campi individuati (Concetti e metodi, Democrazia e democratizzazioni, Comunicazione politica, Opinione pubblica e comportamento politico, Partecipazione e movimenti sociali, Organizzazioni di partito, Sistemi elettorali, Rappresentanza e classe politica, Governo e processo legislativo, Sistema giudiziario, Politiche pubbliche, Unione Europea, Relazioni internazionali) non può certo sfuggire l’assenza della Teoria politica, quantomeno perché si tratta di un ambito tradizionalmente molto presente fra i cultori italiani degli studi politici, e nel quale è peraltro molto più evidente che altrove un tratto marcato della stessa identità culturale italiana. Se un quarto di secolo fa, in un rapporto sulla scienza politica italiana commissionato dalla Fondazione Agnelli, Leonardo Morlino dedicava un corposo capitolo a Teoria e macropolitica, oggi all’interno del volume curato da Pasquino, Regalia e Valbruzzi si può rinvenire un’eco flebile di questi temi solo nel saggio firmato da Mauro Calise e Roberto Cartocci su Concetti e metodi. Ma l’esclusione della teoria politica non è – ed è bene ricordarlo – l’esito di una valutazione soggettiva compiuta dai curatori: dai dati riportati nel volume risulta infatti che i membri della Sisp dichiarano di considerare, fra i propri principali settori di ricerca, la Metodologia e la Teoria politica (peraltro fra loro accomunate in un’unica voce) solo in una percentuale irrisoria: 0,5%, pari a 2 risposte su 362 complessive. E davvero non è difficile ritrovare una conferma di questa sensibilità nelle pagine della «Risp», da cui gli interessi teorici ormai risultano sostanzialmente, se non del tutto, assenti. 
La scomparsa della Teoria politica dal perimetro della scienza politica italiana è naturalmente compensata dal crescente interesse rivolto ad altri settori, come le Politiche pubbliche, le Relazioni internazionali e l’analisi dei sistemi partitici. A proposito dell’evoluzione della disciplina è però interessante l’analisi svolta da Regalia e Valbruzzi nel saggio introduttivo, in particolare nel momento in cui si interrogano sull’«istituzionalizzazione» della disciplina. Rispetto al grado di internazionalizzazione l’esame restituisce un risultato interlocutorio, indice comunque di una progressiva apertura. Ma è forse sul tipo di sapere che i politologi italiani ritengono di disporre che emergono alcuni elementi di riflessione interessanti, perché dai risultati dei questionari risulta che «all’incirca tre studiosi su quattro credono che la scienza politica sia in grado di creare un sapere applicabile» (p. 25). Sul punto, Regalia e Valbruzzi si sentono però in dovere di precisare quali siano i contorni entro cui concepire l’applicabilità della scienza politica, e in questo senso il riferimento cui attingono è, prevedibilmente, il contributo sul tema fornito da Giovanni Sartori fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in più occasioni rivisitato e aggiornato da molti suoi allievi. «Per chi fa scienza politica» - osservano - «essere orientati all’applicazione significa (saper) produrre un sapere verificabile o, nella versione popperiana, falsificabile. Questo non vuol dire che lo scienziato politico sia chiamato a indossare una qualche ‘casacca’ politica o a tramutarsi direttamente in un decisore pubblico. La scienza politica è applicabile perché viene sottoposta alla prova dei fatti, alle dure repliche del futuro. […] Se la scienza politica non guarda davanti a sé e si limita unicamente a coltivare il rapporto tra teoria e ricerca, a tutto svantaggio di quello tra teoria e pratica, i rischi di irrilevanza e inutilità si fanno molto concreti» (p. 26). E non si tratta in effetti di rischi esclusivamente ipotetici. Perché chiunque consideri lo stato della scienza politica italiana oggi, quando le condizioni di una piena legittimità sono ormai conquistate, non puo' non riconoscere che i rischi principali derivano proprio dalla sostanziale irrilevanza, o persino dalla completa inutilità, delle principali ricerche politologiche per la società italiana. È evidente che si tratta di rischi che corrono spesso le scienze sociali, chiamate talvolta a svolgere il ruolo della nottola di Minerva. Ma è anche paradossalmente molto probabile che si tratti di rischi che derivano dalla stessa identità professionale attorno a cui, sulla scorta del magistero sartoriano, si è costruita la scienza politica italiana. 
Le fondamenta ‘neo-positiviste’ su cui Sartori innalzò la propria visione della scienza politica – di cui la disciplina italiana è la filiazione – sono state infatti conservate quasi senza alcuna discussione, sebbene il dibattito epistemologico nel campo delle scienze sociali abbia ormai del tutto accantonato posizioni così ingenue come quella con cui il politologo fiorentino puntava a distinguere nettamente il linguaggio della «filosofia politica», contrassegnato da uno sbilanciamento verso il ‘dover essere’, e il linguaggio della «scienza politica», caratterizzato invece da uno sguardo capace di cogliere la realtà empirica dietro ogni deformazione ideologica e filosofica. Nel corso di mezzo secolo quei principi sono rimasti sostanzialmente indiscussi nella comunità politologica italiana, probabilmente perché – dal momento che essi avevano delimitato il campo della disciplina, preservandolo dalle intrusioni di vicini aggressivi – una loro eventuale messa in discussione doveva essere percepita come una potenziale minaccia di quell’autonomia tanto faticosamente conquistata. Ma quei principi dovevano produrre col tempo conseguenze ben più rilevanti di quanto Sartori e i suoi allievi sospettassero, perché dovevano contribuire a legittimare – più o meno esplicitamente – proprio l’eliminazione di qualsiasi prospettiva teorica dagli interessi ‘legittimi’ dei politologi italiani.
La tendenza, come emerge dal volume, ha ormai superato il punto di ‘non ritorno’. E non è in questo senso affatto sorprendente che l’attuale Presidente della Sisp, Pietro Grilli di Cortona, abbia osservato (non senza qualche motivo polemico) che il più importante libro di Sartori, Democrazia e definizioni, sarebbe considerato oggi come un testo completamente esterno ai confini della disciplina: forse sarebbe percepito come un testo di filosofia politica, o forse come un lavoro di storia delle dottrine politiche; sicuramente non come un libro di scienza politica. Ma l’espulsione della teoria politica – o forse, si potrebbe anche dire, la sua ‘rimozione’ – ha una serie di conseguenze notevoli. Una prima implicazione consiste per esempio nell’incapacità di articolare domande che siano rilevanti per la società italiana. Ed è in questo senso significativo che due giovani ricercatori come Regalia e Valbruzzi abbiano ben presente l’inevitabile inaridimento di una scienza politica che smarrisca la propria connessione con la ricerca teorica: «studiare fenomeni ‘che contano’ comporta anche uno sforzo di teoria politica che oggi, non soltanto in Italia, è andato attenuandosi, fin quasi a scomparire. Se siamo alla ricerca di un sapere politologico rilevante tanto per i suoi studiosi, quanto per l’opinione pubblica in generale, sarà bene ricordare che la filosofia politica precede (ma non produce) la scienza politica e che solo il dialogo fra queste due discipline può creare le condizioni per una migliore politica. Per usare una formula: la scienza senza filosofia non ha una bussola; la filosofia senza scienza non ha una mappa» (p. 29). Ma una seconda conseguenza riguarda lo stesso rapporto della scienza politica con l’identità culturale italiana. Oltre che una rottura con la ‘vecchia’ scienza politica di Gaetano Mosca, l’espulsione della teoria politica comporta infatti anche una completa divaricazione rispetto a quel modo di guardare alla politica – con uno sguardo cinico e realista, ma rivolto sovente verso obiettivi di trasformazione – che costituisce un tratto dell’identità italiana, almeno a partire dalle pagine di Machiavelli (Si veda su questo aspetto anche Se la scienza politica dimentica il potere). Si tratta in altre parole di un completo divorzio da quel «pensiero vivente» in cui Roberto Esposito ha individuato la specificità del discorso filosofico italiano, oltre che da quella Italian Theory che ne costituisce la più vivace declinazione odierna.
Alcuni mesi fa Ernesto Galli della Loggia ha biasimato la scelta compiuta dalla «Rivista Italiana di Scienza Politica» di abbandonare la lingua nazionale, e dunque di pubblicare, a partire dal 2013, solo contributi in inglese. Motivata dalla precisa volontà di favorire l’integrazione internazionale della comunità politologica italiana, questa decisione è stata seguita anche dalla rottura con la casa editrice Il Mulino, che ha pubblicato la rivista fin dalla sua fondazione ma che la Sisp oggi non giudica più adeguata all’obiettivo di raggiungere un ampio pubblico straniero. La scelta è naturalmente del tutto comprensibile, anche perché essa appare pienamente coerente con l’obiettivo dell’internazionalizzazione, che la gran parte dei politologi italiani non cessa di invocare da anni. Non è però difficile immaginare che una simile decisione finirà con l’indebolire ulteriormente quel legame identitario che tiene insieme la comunità politologica italiana. Un tempo i politologi italiani erano infatti accomunati dalla medesima metodologia, da un ambito di ricerca piuttosto omogeneo (contrassegnato in prevalenza dallo studio dei diversi aspetti del ‘caso italiano’, osservati in chiave comparata), dal riferimento a un maestro indiscusso (identificato inequivocabilmente in Giovanni Sartori) e probabilmente anche da una visione condivisa dei problemi del Paese e delle soluzioni adeguate per ‘sbloccare’ il sistema politico. Oggi la situazione è invece completamente mutata. La frammentazione del campo di studio e la specializzazione rende persino difficile considerare molti studiosi come appartenenti alla medesima disciplina (basti pensare alla distanza abissale che separa i cultori delle Relazioni internazionali dai ricercatori che si occupano di Politiche pubbliche). Ed è forse per questo che la trasformazione della «Risp» in una rivista internazionale potrebbe diventare la pietra tombale per la scienza politica italiana. Non tanto perché in Italia finisca la scienza politica (che invece continuerà ad avere molti cultori, apprezzati e rigorosi). Ma perché finirà la vicenda di una scienza politica specificamente ‘italiana’, per molti tratti distinta da quella nord-americana e da quella coltivata in altri paesi europei. E se questo, come è molto probabile, avverrà davvero, fra qualche anno forse ritroveremo nel volume curato da Pasquino, Regalia e Valbruzzi, più che un bilancio sui quarant’anni della disciplina, qualcosa di simile a una sorta di epitaffio per la scienza politica italiana.

Damiano Palano


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