Esce in questi giorni il nuovo fascicolo di "Filosofia politica" (3/2014), con una sezione monografica dedicata al "Mito politico" (con saggi di Geminello Preterossi, Vittorio Dini, Laura Bazzicalupo, Mario Perniola). Tra i materiali bibliografici, appare anche una recensione al volume di Alain Badiou, Pierre Bourdieu, Judith Butler, Georges Didi-Huberman, Sadri Khiari, Jacques Rancière, Che cos’è un popolo? (Derive Approdi, Roma, 2014, pp. 120).
di Damiano Palano
Negli ultimi anni il successo di movimenti politici difficilmente riconducibili alla classica dicotomia destra-sinistra ha indotto molti osservatori a recuperare la vecchia nozione di «populismo». Una simile scelta ha però alimentato non poche obiezioni, soprattutto perché le differenze tra i diversi tipi di populismo sono tali da porre seriamente in questione la stessa idea che si tratti di un fenomeno realmente contrassegnato da un'unica matrice ideologica. In generale il discorso populista si caratterizza certo perché tende a evocare l’immagine di un popolo omogeneo, compatto e portatore di valori sani, soggiogato da élite politicamente e moralmente corrotte. Ma in realtà il «popolo» viene concretamente raffigurato di volta in volta secondo strategie tutt’altro che omogenee, e soprattutto variano notevolmente i criteri che stabiliscono chi fa parte del popolo e chi ne risulta invece escluso. Proprio questa consapevolezza accomuna gli interessanti contributi accolti nel volume Che cos’è un popolo? Pur affrontando l’interrogativo da prospettive differenti, gli autori sembrano infatti condividere l’idea che il «popolo» sia solo il riflesso di una costruzione simbolica che può essere utilizzata per finalità politiche persino opposte. Come osserva nitidamente Jacques Rancière, il populismo «non indica un’ideologia e nemmeno uno stile politico coerente, ma serve semplicemente a tratteggiare l’immagine di un certo popolo» (p. 114). Così, se il popolo in quanto tale «non esiste», esistono invece «delle rappresentazioni diverse, perfino antagoniste, del popolo, delle rappresentazioni che privilegiano alcune modalità di associazione, alcuni tratti distintivi, alcune capacità o incapacità» (p. 114).
Dal momento che lo sguardo è rivolto alle strategie di costruzione simbolica del «popolo», nel volume viene accolto anche un vecchio saggio di Pierre Bourdieu che esamina il significato dell’aggettivo «popolare» e che punta portare alla luce la logica che distingue la lingua legittima dai molteplici linguaggi «popolari». In particolare, nello stesso concetto di «linguaggio popolare» secondo Bourdieu può essere riconosciuto il risultato dell’applicazione di tassonomie dualiste, che tendono a strutturare il mondo sociale secondo una distinzione tra ‘alto’ e ‘basso’. Questa medesima strutturazione dicotomica può essere peraltro rintracciata anche in quei linguaggi popolari che – nei diversi «mercati» linguistici – esprimono una resistenza ai principi della legittimità culturale. Ma, più in generale, il sociologo sottolinea che, data la pluralità dei diversi «mercati» linguistici, «ciascuno di coloro che si sentono in diritto o in dovere di parlare del ‘popolo’ può trovare un supporto oggettivo ai propri interessi e ai propri fantasmi» (p. 37).
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