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martedì 4 novembre 2014

Se l’oligarchia uccide la politica. La fine dell’eguaglianza in due libri di Marco Revelli





di Damiano Palano

Nel 1994, mentre si avvicinavano le elezioni politiche, il quotidiano «il Manifesto» dedicava il proprio supplemento domenicale a un ripensamento del concetto di «Progresso». La scelta non era ovviamente dettata da un puro interesse speculativo. Al fondo di quella discussione stava infatti la volontà di valutare criticamente l’etichetta «Progressisti» che la coalizione di centro-sinistra, guidata dal Partito Democratico della Sinistra e dal suo segretario Achille Occhetto, aveva deciso di inalberare nelle ormai prossime elezioni. In altre parole, i redattori del giornale mettevano in discussione l’idea che proprio il «Progresso» potesse essere il collante non tanto di quella sorta di eterogenea ‘armata Brancaleone’ che Occhetto definì come «gioiosa macchina da guerra», quanto delle diverse anime della «Sinistra». Chiamato a intervenire al dibattito, Luciano Canfora volle però uscire dal coro, e proprio per questo intitolò il proprio contributo Perché non possiamo non dirci progressisti. Forse per ridimensionare la portata della velata critica di Canfora, il testo fu pubblicato con un titolo differente e quantomeno meno diretto (Poteri in campo, il rimosso ricorrente), e l’antichista non mancò di protestare sulle pagine del «Corriere della Sera» per la velata censura, che aveva di fatto oscurato il punto chiave del suo ragionamento. Un ragionamento che non riguardava tanto il significato politico del termine «progresso», quanto la congiuntura storica che l’Italia si trovava a vivere in quel momento. Secondo Canfora si era infatti dinanzi a un’emergenza costituzionale che andava presa sul serio, e che richiedeva che tutte le forze democratiche e ‘progressiste’ si unissero contro il pericolo di una vittoria della coalizione di destra, capeggiata da Forza Italia e dal suo leader. In pericolo, scriveva infatti lo studioso, era la sorte stessa della Costituzione del 1948: «Giacché non è in gioco soltanto la conquista della maggioranza parlamentare. Come ben dice Bossi nella sua rozzezza, è in gioco l'assetto stesso della Repubblica. Il fronte della destra intende cancellare la Costituzione della nostra Repubblica (e perciò pretende a gran voce una ‘seconda’ Repubblica). E intende cancellare proprio quel che di ‘progressista’ è sancito in essa. Ci sono postulati, nei ‘Principi generali’ e nella ‘Prima parte’ della Costituzione, che fanno a pugni col vento iper liberista e ultracapitalista che spira oggi dal fronte Lega Berlusconi. L’articolo 3 sulla necessità di promuovere l'uguaglianza non solo formale dei cittadini, l'articolo 42 sulla priorità della utilità sociale sulla proprietà privata, l'articolo 11 che sancisce il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (già violato ai tempi di Cocciolone). E sono solo alcuni esempi. La nostra Costituzione, varata, non dimentichiamolo, quando ormai, il 18 aprile '48, lo schieramento moderato aveva conseguito la maggioranza assoluta, è tuttavia il miglior frutto dell'incontro tra le forze progressiste e popolari: divise da una dialettica politica anche aspra ma unite, allora, su quei “principi fondamentali”. Principi che potrebbero raccogliersi sotto il binomio “Giustizia e Libertà”, che riassume in sé il contenuto dell'antifascismo. […] Chi oggi arriccia il naso sul concetto di “progressismo” insegue farfalle sotto l' arco di Tito mentre la nuova destra dà l'assalto a quanto resta della “democrazia progressiva”» (Perché dirsi progressisti, in «Corriere della Sera», 3 febbraio 1994, p. 37).

Il dibattito di quei giorni non era certo il primo che si aprisse sul significato del concetto di «sinistra», perché fin dall'inizio del decennio precedente molti interventi – più o meno polemici – avevano iniziato a ripensare la dicotomia destra-sinistra, spingendosi talvolta anche a suggerirne la definitiva archiviazione. A partire dal 1994 quel dibattito doveva però assumere una nuova colorazione, sia perché ciò che rimaneva del vecchio armamentario identitario ereditato dal Partito Comunista appariva sempre più fragile, sia perché i principali eredi di quel partito sposavano con entusiasmo i principi di fondo del nuovo corso liberale e liberista. In altre parole, doveva risultare piuttosto chiaro che a dividere la ‘vecchia’ sinistra dalla ‘nuova’ esisteva un solco ben più profondo di quello che la continuità nella leadership e nelle strutture partitiche potesse suggerire: un solco tanto profondo da far sospettare che del cuore originario della sinistra non esistesse più neppure una pallida traccia. In qualche misura, però, la presenza di un avversario così impetuoso come Silvio Berlusconi doveva mettere la sordina a queste discussioni, fornendo una soluzione politica ‘obbligata’ a tutte i ragionamenti sull’identità perduta della sinistra, o sull’esistenza di qualche valore ‘originariamente’ connotato come patrimonio della sinistra.
Intervenendo proprio in questa discussione, Marco Revelli scrisse alla metà degli anni Novanta che, in realtà, nell’Italia della Seconda Repubblica non esistevano due sinistre, una moderata e un’altra radicale, bensì «due destre»: ciò significava in sostanza, che, a dispetto del nome, il Partito Democratico della Sinistra e l’aggregazione elettorale dell’Ulivo non erano altro che una declinazione della destra liberista. Ma la lettura di Revelli non doveva per questo sfociare in una celebrazione della Sinistra novecentesca, o di ciò che ne restava. Negli anni seguenti egli avrebbe infatti scavato in profondità, mostrando come anche l’ideologia del movimento operaio nel corso del Novecento avesse attinto a piene mani all’immaginario del Progresso, un immaginario centrato sul mito dell’homo faber e sulla incondizionata fiducia nella sua capacità di creare continuo sviluppo economico, sociale, politico. Lungo questo percorso teorico – che si snoda attraverso testi come Le due destre (Bollati Boringhieri, Torino, 1996), La sinistra sociale (Bollati Boringhieri, Torino, 1997), Oltre il Novecento (Einaudi, Torino, 2001), La politica perduta (Einaudi, Torino, 2003), Finale di partito (Einaudi, Torino, 2013) – Revelli è naturalmente tornato in più occasioni a chiedersi quale sia il destino della «sinistra», e se quel concetto, al di là dell’eredità storica, conservi anche ancora qualche significato e qualche potenzialità politica nel XXI secolo. E questa stessa domanda in qualche modo sta anche dietro due volumetti pubblicati negli ultimi mesi da Revelli, Post-sinistra. Cosa resta della politica in un mondo globalizzato (la Repubblica – Laterza, pp. 136, euro 5.90), e «La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi» (Vero!), Laterza, pp. 96, euro 9.00).
In quest’ultimo libro, Revelli si concentra in particolare sulla condizioni di ciò che Norberto Bobbio considerava come specifico dell’identità della sinistra, ossia il valore dell’eguaglianza. In effetti Revelli cerca di capire quali siano stati gli effetti prodotti dalle politiche neoliberiste sul terreno delle diseguaglianze sociali, e in particolare considera la validità della teoria del trickle-down, secondo cui politiche fiscali che avvantaggiano i settori più agiati della popolazione avrebbero effetti positivi sull’intera società, perché i benefici ‘sgocciolerebbero’ dall’alto verso il basso, anche cioè verso gli strati sociali meno abbienti e meno garantiti. Accanto a questa tesi generale, Revelli considera però soprattutto due ipotesi che hanno goduto negli ultimi trent’anni di un certo seguito in ambito politico ed economico: la prima – sintetizzata dalla ‘curva di Laeffer’ – sostiene che l’aumento delle tasse oltre una certa soglia risulta controproducente per l’intera economia nazionale oltre che per gli stessi governi nazionali; la seconda – ricondotta invece alla curva di Kuznets – sostiene invece che un accelerato sviluppo economico produce, in un primo momento, un aumento delle diseguaglianze, per poi invece innescare un certo livellamento.
Rispondere alla seconda domanda non è così semplice, perché misurare la diseguaglianza e le sue variazioni è quantomeno complesso. Ciò nondimeno, scrive Revelli, la curva della povertà sembra «relativamente anelastica, in quanto la forte diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza finisce per neutralizzare i benefici dello sviluppo e per bloccare ‘in alto’ le risorse aggiuntive» (p. 58). Molto più semplice è invece smentire la ‘curva Laeffer’, perché l’alleggerimento del carico fiscale (in particolare del carico posto sugli strati sociali a più alto reddito) non è stato accompagnato da una riduzione della spesa pubblica, quanto da una modificazione della sua struttura, con un consistente aumento del debito pubblico, cui è poi seguito anche l’aumento del debito privato. Ciò si è tradotto in uno strabiliante aumento delle diseguaglianze. Un processo che per esempio ha portato gli 85 grandi multimiliardari globali a detenere una ricchezza pari a quella posseduta dai 3 miliardi della popolazione più povera del pianeta. E che ha condotto una minoranza pari all’1% della popolazione mondiale a detenere una ricchezza pari a 110.000 miliardi di dollari, equivalente a sessantacinque volte le risorse detenute dalla metà più povera della popolazione mondiale.
L’aumento delle diseguaglianze – un processo su cui negli ultimi hanno attirato l’attenzione osservatori di provenienza molto diversa, come, per fare qualche nome, Joseph Stiglitz, Luciano Gallino e Vittorio E. Parsi – ha ovviamente un riflesso piuttosto diretto sul terreno politico, su cui Revelli si sofferma nelle pagine di Post-sinistra. In questo pamphlet, Revelli si trova per molti versi a riprendere e aggiornare le tesi svolte alcuni anni fa in Sinistra-destra. L’identità smarrita (Laterza, Roma – Bari, 2006). In sostanza, l’idea di fondo è che la dicotomia Destra-Sinistra sia messa in crisi da una serie di processi strutturali che investono le nostre società e che dissolvono le stesse basi materiali di ciò che abbiamo a lungo definito come «spazio pubblico». La rivoluzione spaziale della globalizzazione e la contrazione temporale dello spazio cancellano progressivamente la dimensione su cui la politica si era incardinata. Come scrive Revelli a questo proposito: «A franare è la politica come l’avevamo conosciuta fino a ieri, non solo con i propri soggetti e i propri ‘valori’, ma con le sue forme, le sue istituzioni, i suoi principi costitutivi, i suoi codici di legittimazione, i suoi modelli di relazioni, insomma con tutto ciò che costituisce il moderno ‘concetto di politico’. E non solo. La frana si tira dietro anche le più recenti conquiste che hanno caratterizzato la modernità compiuta: la democrazia rappresentativa, l’universalità dei diritti e la sua efficacia, il principio di legalità come condizione di legittimazione del potere» (pp. 43-44).
I sintomi della grande ‘frana’ che Revelli indica sono numerosi, e peraltro difficilmente contestabili nella loro portata. Innanzitutto, proprio l’aumento delle diseguaglianza, o quantomeno l’esaurimento dell’eguaglianza politica come destino: «Appare ormai chiaro quanto grave e profondo sia il vulnus inferto al principio di eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso. Essa infatti non si limita a mettere in discussione solo l’‘eguaglianza materiale’ o ‘economica’ o, appunto, ‘sociale’, ma giunge ad aggredire il livello dell’eguaglianza formale, il set di diritti ‘civili’ e ‘politici’ costitutivi della sfera giuridico-politica moderna e, a tutti gli effetti, fondanti del progetto politico moderno» (p. 49). In secondo luogo, la fine della politica è testimoniata dalla «deriva oligarchica» della democrazia contemporanea: mentre il paradigma egualitario perde la propria forza, prende forma una «oligarchia onnipotente», situata «fuori dai luoghi (al di sopra di essi) e all’incrocio dei flussi (nei loro punti nodali), di cui non fanno parte, evidentemente, solo le élite economiche e finanziarie, ma anche, con gradi diversi di rilevanza, una parte consistente della classe politica di governo, anch’essa sempre meno ‘localizzata’ e sempre più legata da sistemi di relazione reticolari transterritoriali» (p. 50). Ma, insieme a questi processi, la crisi della politica è anche palesata dalla metamorfosi della rappresentanza politica, della possibilità di fissare l’ubi consistam del rapporto fra mandanti e mandatari. E – naturalmente – dalla trasformazione dello spazio politico in uno spazio interamente mediatico, ossia dall’«assorbimento quasi senza residui dello spazio tradizionale della politica dentro lo spazio elettronico dei media» (p. 59). Le conseguenze di questo processo sono in effetti radicali, agli occhi di Revelli: «In questo modo, nel nuovo spazio politico come spazio mediatico, mentre la rappresentanza politica (di mandare) si ritira fin quasi a ridursi a un simulacro, la rappresentazione celebra il proprio trionfo: si totalizza. Il processo appare distorto, se non addirittura rovesciato: non procede più, come all’origine della politica moderna, dal privato verso il pubblico, ma – ormai compiutamente – dal privato al privato. E non permette una qualche forma, sia pur traslata, di emancipazione, ma conferma e certifica lo stato di alienazione che ogni spettacolo determina rispetto alla vita vissuta dei propri spettatori. […] L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo che agisce appare in questo: che i suoi stessi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. È per questa ragione che lo spettatore non si sente chez lui da nessuna parte, perché lo spettacolo è ovunque» (p. 64).
Il pessimismo che affiora dalle pagine di entrambi i volumi di Revelli, forse più che dagli elementi che affollano il quadro, è restituito dagli elementi che mancano. E in questa assenza forse è ravvisabile la principale novità nel percorso di Revelli. Benché in molti dei suoi precedenti lavori non avesse certo esitato a toccare la corda del pessimismo, spesso – quantomeno come nota di speranza conclusiva – Revelli non mancava di evocare qualche possibilità di cambiamento. Quando descriveva le derive politiche del Postfordismo, negli anni Novanta, non rinunciava per esempio a delineare i tratti di una nuova sinistra «sociale», capace di andare oltre lo statalismo della ‘vecchia’ sinistra e di fronteggiare così con nuove armi l’avanzare delle «due destre». In Oltre il Novecento, pronunciando il proprio addio alla sinistra novecentesca, alle iconografie del produttivismo industrialista e al mito dell’Organizzazione politica, Revelli evocava sul finire del proprio percorso i contorni della nuova figura del «Volontario», capace di dare un nuovo senso all’attività politica. E anche nel più recente Finale di partito si poteva riconoscere – proprio nelle pagine conclusive – qualche segnale di pur tiepida speranza, sulla possibilità di costruire una politica e una democrazia oltre i partiti novecenteschi. Nei due ultimi volumetti sembra invece mancare persino il più timido accenno a un’alternativa possibile alla deriva contemporanea. Forse si tratta soltanto di una conseguenza non del tutto volontaria, dovuta alla collocazione editoriale dei due libretti. Ma probabilmente dietro questa assenza c’è di più, forse addirittura la consapevolezza che la parabola storica della sinistra – di quello che è stata nella storia occidentale la sinistra, nelle sue mille declinazioni – si è ormai irrimediabilmente conclusa. E per quanto tutti i tentativi che Revelli compiva nei suoi libri precedenti rompessero con alcune delle coordinate di quella tradizione, essi in realtà rimanevano per molti versi interni a quell’universo, o quantomeno non ne mettevano in questione alcuni pilastri. Ma le conseguenze della “rivoluzione spaziale” sembrerebbero indurre ora Revelli a prendere atto del definitivo esaurimento di una tradizione, e lo stesso titolo Post-Sinistra può forse essere letto come testimonianza della volontà di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle l’eredità della sinistra e di entrare fino in fondo nell’era del «post».
Nei prossimi anni potremo capire se questo commiato sia solo un episodico, o persino solo retorico. Ma è indiscutibile che questa sorta di rassegnazione (teorica) di Revelli alla «deriva oligarchica» e alla tendenza anti-egualitaria trovi un riflesso nella rassegnazione (politica) di buona parte di quell’elettorato che, un po’ enfaticamente, veniva sino a qualche tempo fa definito come il «popolo della sinistra». È infatti piuttosto evidente come negli ultimi cinque anni – dal 2009, quando l’impatto della crisi finanziaria arriva in Europa, fino al 2014, passando per la caduta del governo Berlusconi, la nascita del governo Monti e le vicende alterne delle «larghe intese» - si sia consumato quel poco che rimaneva dell’immaginario e dell’identità della sinistra italiana. Gli ultimi residui dell’egualitarismo e i frammenti superstiti di un’ideologia che assegnava al conflitto sociale una funzione positiva si sono dissolti. Quel vuoto è stato solo molto parzialmente colmato  da ciò che resta del progressismo, di cui Canfora nel 1994 si faceva ancora convinto alfiere, ma che nel frattempo è diventato tanto generico da risolversi quasi invariabilmente solo in una generica estetica del cambiamento. Probabilmente, quel vuoto si è semplicemente tradotto in una sorta di fatalismo postmoderno. Un nichilismo radicale che impedisce di credere davvero in qualsiasi cosa. Ma che talvolta può può persino accendere un effimero entusiasmo. Perché – si sa – quando ormai non si crede più in niente, prima o poi si può finire col credere a tutto.
Damiano Palano





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