di Damiano Palano
Nel 1994, mentre si
avvicinavano le elezioni politiche, il quotidiano «il Manifesto» dedicava il
proprio supplemento domenicale a un ripensamento del concetto di «Progresso».
La scelta non era ovviamente dettata da un puro interesse speculativo. Al fondo
di quella discussione stava infatti la volontà di valutare criticamente
l’etichetta «Progressisti» che la coalizione di centro-sinistra, guidata dal
Partito Democratico della Sinistra e dal suo segretario Achille Occhetto, aveva
deciso di inalberare nelle ormai prossime elezioni. In altre parole, i
redattori del giornale mettevano in discussione l’idea che proprio il
«Progresso» potesse essere il collante non tanto di quella sorta di eterogenea
‘armata Brancaleone’ che Occhetto definì come «gioiosa macchina da guerra»,
quanto delle diverse anime della «Sinistra». Chiamato a intervenire al
dibattito, Luciano Canfora volle però uscire dal coro, e proprio per questo
intitolò il proprio contributo Perché non
possiamo non dirci progressisti. Forse per ridimensionare la portata della
velata critica di Canfora, il testo fu pubblicato con un titolo differente e
quantomeno meno diretto (Poteri in campo,
il rimosso ricorrente), e l’antichista non mancò di protestare sulle pagine
del «Corriere della Sera» per la velata censura, che aveva di fatto oscurato il
punto chiave del suo ragionamento. Un ragionamento che non riguardava tanto il
significato politico del termine «progresso», quanto la congiuntura storica che
l’Italia si trovava a vivere in quel momento. Secondo Canfora si era infatti dinanzi
a un’emergenza costituzionale che andava presa sul serio, e che richiedeva che
tutte le forze democratiche e ‘progressiste’ si unissero contro il pericolo di
una vittoria della coalizione di destra, capeggiata da Forza Italia e dal suo
leader. In pericolo, scriveva infatti lo studioso, era la sorte stessa della
Costituzione del 1948: «Giacché non è in gioco soltanto la conquista della
maggioranza parlamentare. Come ben dice Bossi nella sua rozzezza, è in gioco
l'assetto stesso della Repubblica. Il fronte della destra intende cancellare la
Costituzione della nostra Repubblica (e perciò pretende a gran voce una
‘seconda’ Repubblica). E intende cancellare proprio quel che di ‘progressista’
è sancito in essa. Ci sono postulati, nei ‘Principi generali’ e nella ‘Prima
parte’ della Costituzione, che fanno a pugni col vento iper liberista e
ultracapitalista che spira oggi dal fronte Lega Berlusconi. L’articolo 3 sulla
necessità di promuovere l'uguaglianza non solo formale dei cittadini,
l'articolo 42 sulla priorità della utilità sociale sulla proprietà privata,
l'articolo 11 che sancisce il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali (già violato ai tempi di Cocciolone). E sono
solo alcuni esempi. La nostra Costituzione, varata, non dimentichiamolo, quando
ormai, il 18 aprile '48, lo schieramento moderato aveva conseguito la
maggioranza assoluta, è tuttavia il miglior frutto dell'incontro tra le forze
progressiste e popolari: divise da una dialettica politica anche aspra ma
unite, allora, su quei “principi fondamentali”. Principi che potrebbero
raccogliersi sotto il binomio “Giustizia e Libertà”, che riassume in sé il
contenuto dell'antifascismo. […] Chi oggi arriccia il naso sul concetto di
“progressismo” insegue farfalle sotto l' arco di Tito mentre la nuova destra dà
l'assalto a quanto resta della “democrazia progressiva”» (Perché dirsi progressisti, in «Corriere della Sera», 3 febbraio
1994, p. 37).
Il
dibattito di quei giorni non era certo il primo che si aprisse sul significato
del concetto di «sinistra», perché fin dall'inizio del decennio precedente molti
interventi – più o meno polemici – avevano iniziato a ripensare la dicotomia
destra-sinistra, spingendosi talvolta anche a suggerirne la definitiva
archiviazione. A partire dal 1994 quel dibattito doveva però assumere una nuova
colorazione, sia perché ciò che rimaneva del vecchio armamentario identitario
ereditato dal Partito Comunista appariva sempre più fragile, sia perché i
principali eredi di quel partito sposavano con entusiasmo i principi di fondo
del nuovo corso liberale e liberista. In altre parole, doveva risultare
piuttosto chiaro che a dividere la ‘vecchia’ sinistra dalla ‘nuova’ esisteva un
solco ben più profondo di quello che la continuità nella leadership e nelle
strutture partitiche potesse suggerire: un solco tanto profondo da far
sospettare che del cuore originario della sinistra non esistesse più neppure
una pallida traccia. In qualche misura, però, la presenza di un avversario così
impetuoso come Silvio Berlusconi doveva mettere la sordina a queste
discussioni, fornendo una soluzione politica ‘obbligata’ a tutte i ragionamenti
sull’identità perduta della sinistra, o sull’esistenza di qualche valore
‘originariamente’ connotato come patrimonio della sinistra.
Intervenendo
proprio in questa discussione, Marco Revelli scrisse alla metà degli anni
Novanta che, in realtà, nell’Italia della Seconda Repubblica non esistevano due
sinistre, una moderata e un’altra radicale, bensì «due destre»: ciò significava
in sostanza, che, a dispetto del nome, il Partito Democratico della Sinistra e
l’aggregazione elettorale dell’Ulivo non erano altro che una declinazione della
destra liberista. Ma la lettura di Revelli non doveva per questo sfociare in
una celebrazione della Sinistra novecentesca, o di ciò che ne restava. Negli
anni seguenti egli avrebbe infatti scavato in profondità, mostrando come anche
l’ideologia del movimento operaio nel corso del Novecento avesse attinto a
piene mani all’immaginario del Progresso, un immaginario centrato sul mito
dell’homo faber e sulla
incondizionata fiducia nella sua capacità di creare continuo sviluppo
economico, sociale, politico. Lungo questo percorso teorico – che si snoda
attraverso testi come Le due destre (Bollati
Boringhieri, Torino, 1996), La sinistra
sociale (Bollati Boringhieri, Torino, 1997), Oltre il Novecento (Einaudi, Torino, 2001), La politica perduta (Einaudi, Torino, 2003), Finale di partito (Einaudi, Torino, 2013) – Revelli è naturalmente
tornato in più occasioni a chiedersi quale sia il destino della «sinistra», e
se quel concetto, al di là dell’eredità storica, conservi anche ancora qualche
significato e qualche potenzialità politica nel XXI secolo. E questa stessa
domanda in qualche modo sta anche dietro due volumetti pubblicati negli ultimi
mesi da Revelli, Post-sinistra. Cosa
resta della politica in un mondo globalizzato (la Repubblica – Laterza, pp.
136, euro 5.90), e «La lotta di classe
esiste e l’hanno vinta i ricchi» (Vero!), Laterza, pp. 96, euro 9.00).
In
quest’ultimo libro, Revelli si concentra in particolare sulla condizioni di ciò
che Norberto Bobbio considerava come specifico dell’identità della sinistra, ossia
il valore dell’eguaglianza. In effetti Revelli cerca di capire quali siano
stati gli effetti prodotti dalle politiche neoliberiste sul terreno delle
diseguaglianze sociali, e in particolare considera la validità della teoria del
trickle-down, secondo cui politiche
fiscali che avvantaggiano i settori più agiati della popolazione avrebbero
effetti positivi sull’intera società, perché i benefici ‘sgocciolerebbero’
dall’alto verso il basso, anche cioè verso gli strati sociali meno abbienti e
meno garantiti. Accanto a questa tesi generale, Revelli considera però
soprattutto due ipotesi che hanno goduto negli ultimi trent’anni di un certo
seguito in ambito politico ed economico: la prima – sintetizzata dalla ‘curva
di Laeffer’ – sostiene che l’aumento delle tasse oltre una certa soglia risulta
controproducente per l’intera economia nazionale oltre che per gli stessi
governi nazionali; la seconda – ricondotta invece alla curva di Kuznets –
sostiene invece che un accelerato sviluppo economico produce, in un primo
momento, un aumento delle diseguaglianze, per poi invece innescare un certo
livellamento.
Rispondere
alla seconda domanda non è così semplice, perché misurare la diseguaglianza e
le sue variazioni è quantomeno complesso. Ciò nondimeno, scrive Revelli, la
curva della povertà sembra «relativamente anelastica, in quanto la forte
diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza finisce per neutralizzare i
benefici dello sviluppo e per bloccare ‘in alto’ le risorse aggiuntive» (p.
58). Molto più semplice è invece smentire la ‘curva Laeffer’, perché
l’alleggerimento del carico fiscale (in particolare del carico posto sugli
strati sociali a più alto reddito) non è stato accompagnato da una riduzione
della spesa pubblica, quanto da una modificazione della sua struttura, con un
consistente aumento del debito pubblico, cui è poi seguito anche l’aumento del
debito privato. Ciò si è tradotto in uno strabiliante aumento delle
diseguaglianze. Un processo che per esempio ha portato gli 85 grandi
multimiliardari globali a detenere una ricchezza pari a quella posseduta dai 3
miliardi della popolazione più povera del pianeta. E che ha condotto una
minoranza pari all’1% della popolazione mondiale a detenere una ricchezza pari
a 110.000 miliardi di dollari, equivalente a sessantacinque volte le risorse
detenute dalla metà più povera della popolazione mondiale.
L’aumento
delle diseguaglianze – un processo su cui negli ultimi hanno attirato
l’attenzione osservatori di provenienza molto diversa, come, per fare qualche
nome, Joseph Stiglitz, Luciano Gallino e Vittorio E. Parsi – ha ovviamente un
riflesso piuttosto diretto sul terreno politico, su cui Revelli si sofferma
nelle pagine di Post-sinistra. In
questo pamphlet, Revelli si trova per
molti versi a riprendere e aggiornare le tesi svolte alcuni anni fa in Sinistra-destra. L’identità smarrita (Laterza,
Roma – Bari, 2006). In sostanza, l’idea di fondo è che la dicotomia
Destra-Sinistra sia messa in crisi da una serie di processi strutturali che
investono le nostre società e che dissolvono le stesse basi materiali di ciò
che abbiamo a lungo definito come «spazio pubblico». La rivoluzione spaziale
della globalizzazione e la contrazione temporale dello spazio cancellano
progressivamente la dimensione su cui la politica si era incardinata. Come
scrive Revelli a questo proposito: «A franare è la politica come l’avevamo
conosciuta fino a ieri, non solo con i propri soggetti e i propri ‘valori’, ma
con le sue forme, le sue istituzioni, i suoi principi costitutivi, i suoi
codici di legittimazione, i suoi modelli di relazioni, insomma con tutto ciò
che costituisce il moderno ‘concetto di politico’. E non solo. La frana si tira
dietro anche le più recenti conquiste che hanno caratterizzato la modernità
compiuta: la democrazia rappresentativa, l’universalità dei diritti e la sua
efficacia, il principio di legalità come condizione di legittimazione del
potere» (pp. 43-44).
I
sintomi della grande ‘frana’ che Revelli indica sono numerosi, e peraltro
difficilmente contestabili nella loro portata. Innanzitutto, proprio l’aumento
delle diseguaglianza, o quantomeno l’esaurimento dell’eguaglianza politica come
destino: «Appare ormai chiaro quanto grave e profondo sia il vulnus inferto al principio di
eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso. Essa infatti non si limita
a mettere in discussione solo l’‘eguaglianza materiale’ o ‘economica’ o,
appunto, ‘sociale’, ma giunge ad aggredire il livello dell’eguaglianza formale,
il set di diritti ‘civili’ e ‘politici’ costitutivi della sfera giuridico-politica
moderna e, a tutti gli effetti, fondanti del progetto politico moderno» (p.
49). In secondo luogo, la fine della politica è testimoniata dalla «deriva
oligarchica» della democrazia contemporanea: mentre il paradigma egualitario
perde la propria forza, prende forma una «oligarchia onnipotente», situata
«fuori dai luoghi (al di sopra di essi) e all’incrocio dei flussi (nei loro
punti nodali), di cui non fanno parte, evidentemente, solo le élite economiche
e finanziarie, ma anche, con gradi diversi di rilevanza, una parte consistente
della classe politica di governo, anch’essa sempre meno ‘localizzata’ e sempre
più legata da sistemi di relazione reticolari transterritoriali» (p. 50). Ma,
insieme a questi processi, la crisi della politica è anche palesata dalla
metamorfosi della rappresentanza politica, della possibilità di fissare l’ubi consistam del rapporto fra mandanti
e mandatari. E – naturalmente – dalla trasformazione dello spazio politico in
uno spazio interamente mediatico, ossia dall’«assorbimento quasi senza residui
dello spazio tradizionale della politica dentro lo spazio elettronico dei
media» (p. 59). Le conseguenze di questo processo sono in effetti radicali,
agli occhi di Revelli: «In questo modo, nel nuovo spazio politico come spazio
mediatico, mentre la rappresentanza politica (di mandare) si ritira fin quasi a
ridursi a un simulacro, la rappresentazione celebra il proprio trionfo: si
totalizza. Il processo appare distorto, se non addirittura rovesciato: non
procede più, come all’origine della politica moderna, dal privato verso il
pubblico, ma – ormai compiutamente – dal privato al privato. E non permette una
qualche forma, sia pur traslata, di emancipazione, ma conferma e certifica lo
stato di alienazione che ogni spettacolo determina rispetto alla vita vissuta
dei propri spettatori. […] L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo
che agisce appare in questo: che i suoi stessi gesti non sono più suoi, ma di
un altro che glieli rappresenta. È per questa ragione che lo spettatore non si
sente chez lui da nessuna parte,
perché lo spettacolo è ovunque» (p. 64).
Il
pessimismo che affiora dalle pagine di entrambi i volumi di Revelli, forse più
che dagli elementi che affollano il quadro, è restituito dagli elementi che
mancano. E in questa assenza forse è ravvisabile la principale novità nel
percorso di Revelli. Benché in molti dei suoi precedenti lavori non avesse
certo esitato a toccare la corda del pessimismo, spesso – quantomeno come nota
di speranza conclusiva – Revelli non mancava di evocare qualche possibilità di
cambiamento. Quando descriveva le derive politiche del Postfordismo, negli anni
Novanta, non rinunciava per esempio a delineare i tratti di una nuova sinistra
«sociale», capace di andare oltre lo statalismo della ‘vecchia’ sinistra e di
fronteggiare così con nuove armi l’avanzare delle «due destre». In Oltre il Novecento, pronunciando il
proprio addio alla sinistra novecentesca, alle iconografie del produttivismo
industrialista e al mito dell’Organizzazione politica, Revelli evocava sul
finire del proprio percorso i contorni della nuova figura del «Volontario»,
capace di dare un nuovo senso all’attività politica. E anche nel più recente Finale di partito si poteva riconoscere
– proprio nelle pagine conclusive – qualche segnale di pur tiepida speranza,
sulla possibilità di costruire una politica e una democrazia oltre i partiti
novecenteschi. Nei due ultimi volumetti sembra invece mancare persino il più
timido accenno a un’alternativa possibile alla deriva contemporanea. Forse si
tratta soltanto di una conseguenza non del tutto volontaria, dovuta alla
collocazione editoriale dei due libretti. Ma probabilmente dietro questa
assenza c’è di più, forse addirittura la consapevolezza che la parabola storica
della sinistra – di quello che è stata nella storia occidentale la sinistra,
nelle sue mille declinazioni – si è ormai irrimediabilmente conclusa. E per
quanto tutti i tentativi che Revelli compiva nei suoi libri precedenti
rompessero con alcune delle coordinate di quella tradizione, essi in realtà
rimanevano per molti versi interni a quell’universo, o quantomeno non ne
mettevano in questione alcuni pilastri. Ma le conseguenze della “rivoluzione
spaziale” sembrerebbero indurre ora Revelli a prendere atto del definitivo
esaurimento di una tradizione, e lo stesso titolo Post-Sinistra può forse essere letto come testimonianza della
volontà di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle l’eredità della sinistra e
di entrare fino in fondo nell’era del «post».
Nei
prossimi anni potremo capire se questo commiato sia solo un episodico, o
persino solo retorico. Ma è indiscutibile che questa sorta di rassegnazione
(teorica) di Revelli alla «deriva oligarchica» e alla tendenza anti-egualitaria
trovi un riflesso nella rassegnazione (politica) di buona parte di
quell’elettorato che, un po’ enfaticamente, veniva sino a qualche tempo fa
definito come il «popolo della sinistra». È infatti piuttosto evidente come
negli ultimi cinque anni – dal 2009, quando l’impatto della crisi finanziaria
arriva in Europa, fino al 2014, passando per la caduta del governo Berlusconi, la
nascita del governo Monti e le vicende alterne delle «larghe intese» - si sia
consumato quel poco che rimaneva dell’immaginario e dell’identità della sinistra
italiana. Gli ultimi residui dell’egualitarismo e i frammenti superstiti di
un’ideologia che assegnava al conflitto sociale una funzione positiva si sono
dissolti. Quel vuoto è stato solo molto parzialmente colmato da ciò che resta del progressismo, di cui
Canfora nel 1994 si faceva ancora convinto alfiere, ma che nel frattempo è
diventato tanto generico da risolversi quasi invariabilmente solo in una generica estetica
del cambiamento. Probabilmente, quel vuoto si è semplicemente tradotto in una
sorta di fatalismo postmoderno. Un nichilismo radicale che impedisce di credere
davvero in qualsiasi cosa. Ma che talvolta può può persino accendere un
effimero entusiasmo. Perché – si sa – quando ormai non si crede più in niente,
prima o poi si può finire col credere a tutto.
Damiano
Palano
Nessun commento:
Posta un commento