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sabato 15 novembre 2014

Il simulacro della democrazia italiana. Un pamphlet politico-filosofico di Stefano G. Azzarà




di Damiano Palano

Nel 1991 l’editore Datanews dava alle stampe il primo libro di Fausto Bertinotti, allora ancora dirigente della sinistra della Cgil, ma destinato a entrare di lì a poco nell’agone politico come segretario di Rifondazione comunista. Il libro raccoglieva una serie di interventi, rivisti e curati dal fedele Alfonso Gianni, ed era preceduto da una prefazione di Rossana Rossanda, che in qualche modo forniva una sorta di legittimazione al nuovo ruolo di leader della sinistra che Bertinotti avrebbe assunto di lì a qualche mese. Il titolo del volume – La democrazia autoritaria – era quantomeno evocativo, anche se a ben vedere i testi compresi nel libro erano piuttosto dedicati alle trasformazioni del sindacato e a un rilancio di quella visione democratica del «sindacato dei consigli» che aveva avuto la propria stagione aurea negli anni Settanta ma che, proprio in contrasto con la linea ‘neo-corporativa’ adottata da Cgil, Cisl e Uil all’inizio degli anni Novanta, sembrava conoscere una riscoperta, rivelatasi poi del tutto effimera. Negli interventi accolti nel libro, Bertinotti ripercorreva alcuni snodi cruciali della storia italiana, e si soffermava in particolare sulle dinamiche che, a partire dagli anni Ottanta, avevano di fatto neutralizzato la richiesta di partecipazione e di democrazia degli anni Settanta. In altre parole, la «democrazia autoritaria» aveva investito al loro interno anche i sindacati, in cui le decisioni erano ormai assunte dai vertici nazionali, senza che la base fosse neppure consultata. Questo processo era però il riflesso di una trasformazione molto più generale, che coinvolgeva tutte le istituzioni sociali. Come scriveva il futuro leader di Rifondazione comunista e Presidente della Camera dei deputati: «Oggi siamo di fronte a un fatto drammaticamente connesso ad una sconfitta: si sono rotti i meccanismi di cultura politica omogenea, grandi aggregati, domande politiche forti. Si può discutere se l’individualismo, che da qui nasce, prenda le pieghe, per usare i termini di Pietro Barcellona, dell’egoismo maturo oppure della parcellizzazione mercificata. Ma non c’è dubbio che siamo di fronte ad una frantumazione ed individualizzazione delle domande. Questa condizione dà ragione, nel suo insieme, a quel fenomeno che chiamo la crisi del sistema rappresentativo, la crisi della rappresentanza democratica. In molti casi siamo già di fronte non più alla democrazia, ma al suo simulacro, ad un’architettura che ha le apparenze della costruzione democratica che si è svuotata, nella sua anima, della capacità reale di operare un procedimento in grado di coinvolgere la maggioranza delle persone interessate alla costruzione di una scelta. Siamo di fronte ad un passaggio difficilissimo che riguarda gli assetti della democrazia. E lo siamo al punto che la domanda di Alice nel paese delle meraviglie, oggi, sarebbe senza una risposta convincente. Chi comanda qui? Chi è il sovrano? Nella incertezza della risposta c’è il sintomo più evidente della condizione di simulacro della democrazia, dell’assenza di una democrazia realmente vissuta» (F. Bertinotti, La democrazia autoritaria, Datanews, Roma, 1991; IV ed. 2006, p. 69).
Pubblicati prima ancora che la “Prima Repubblica” fosse investita dalla bufera giudiziaria che ne avrebbe sancito la fine, i saggi di Bertinotti articolavano una tesi che di lì a pochi anni, con l’ingresso sulla scena politica di Silvio Berlusconi, sarebbe diventata dominante. Nella “Seconda Repubblica”, il riconoscimento del logoramento delle istituzioni democratiche, dell’impoverimento del ruolo del Parlamento, della personalizzazione della politica, della crisi della democraticità di partiti e sindacati sarebbe diventato quasi una sorta di luogo comune, almeno presso quella larga schiera del mondo intellettuale più o meno prossimo alla sinistra. Probabilmente si potrebbe infatti riempire un’intera biblioteca domestica mettendo insieme tutti i titoli usciti nel corso del ‘ventennio berlusconiano’ che, a partire dalla cronaca politica e giudiziaria, autorizzavano l’idea che le istituzioni rappresentative fossero ormai ridotte a un palcoscenico che di democratico mostrava ben poco. E, da questo punto di vista, è sufficiente pensare anche solo a quei testi che – negli ultimi anni di governo di Silvio Berlusconi – ricostruivano le «cene eleganti» del premier, ricostruivano la genesi dell’«egemonia sottoculturale» che aveva preparato il successo politico del Cavaliere, o che biasimavano le mille nefandezze di un paese ormai diventato «triviale».
Giuste o sbagliate che fossero quelle diagnosi, è piuttosto sorprendente che molti dei critici della personalizzazione e del decisionismo berlusconiani rimangano oggi silenziosi dinanzi alla marcia trionfale di Matteo Renzi, una marcia che – è quasi superfluo sottolinearlo – riduce il «berlusconismo» al semplice ruolo di ‘precursore’, di ‘anticipazione’ storica. Molti di quei progetti che i governi di Silvio Berlusconi iniziarono a formulare, senza poi condurli in porto (almeno fino alle loro conseguenze più radicali), sono infatti oggi ripresi e declinati integralmente dal governo Renzi. Al di là di ogni valutazione sugli effetti delle misure adottate, o annunciate, dal governo presieduto da Matteo Renzi, ciò che risulta più sconcertante – anche se, a ben vedere, del tutto comprensibile – è proprio il repentino mutamento di criteri di giudizio da parte di osservatori, commentatori e intellettuali più o meno titolati. Mentre non esitavano neppure un minuto a denunciare l’attacco alle istituzioni democratiche perpetrate dal Cavaliere e dalle sue truppe, oggi quegli stessi intellettuali assistono sostanzialmente passivi ad attacchi ben più energici, spesso persino sguaiati, alla sovranità del Parlamento, al diritto di sciopero, alla legittimità dei sindacati, e qualche volta finiscono anche con lo strizzare l’occhio allo sbrigativo decisionismo del Presidente del Consiglio e alla sua insofferenza per i rituali della democrazia parlamentare, per le lungaggini della concertazione, per i borbottii di vecchi «parrucconi».
Da questo panorama fuoriesce invece con decisione il nuovo volume di Stefano G. Azzarà, Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia (Imprimatur, pp. 333, euro 16.00), forse il primo testo che in modo articolato utilizza la categoria di «bonapartismo» per interpretare il «renzismo». Azzarà non nasconde la propria impostazione marxista, un’impostazione teorica che naturalmente per molti sarebbe un motivo sufficiente per non sfogliare nemmeno il suo libro. Anche se il marxismo di Azzarà – un marxismo che guarda soprattutto a Gramsci, ma anche ad autori contemporanei come Domenico Losurdo – talvolta finisce con l’imbrigliare l’analisi in una terminologia ingombrante, è invece difficile non concordare con molte delle tesi di Democrazia cercasi, o quantomeno con la rilettura della storia italiana degli ultimi trent’anni che propone, soprattutto quando rifiuta di attribuire l’avvio della ‘crisi’ della democrazia italiana solo a Silvio Berlusconi: «Il declino della politica e della democrazia in Italia non può […] essere imputato a una sola persona, per quanto potente e influente, ma è l’esito prevedibile di trasformazioni molto complesse. Di sommovimenti che hanno a che fare non con la superficie della rappresentazione e della comunicazione politica alla quale siamo abituati e che occupa i discorsi da bar o da format televisivo, né con la persistenza di un fantomatico statalismo oppressivo del quale cianciano tuttora i liberali immaginari di casa nostra, bensì con gli spostamenti molecolari avvenuti nell’oscurità dei rapporti di classe e di produzione nel corso di lunghi anni. Così come hanno a che fare con una dialettica concomitante, che da un secolo e mezzo contrappone la democrazia moderna a quel particolare tipo di regime […] che dai tempi di Marx viene chiamato con il nome oggi desueto di ‘bonapartismo’» (p. 41). In sostanza, secondo Azzarà, non è oggi in atto in Italia una «fascistizzazione», bensì proprio «la fine della ‘democrazia moderna’», e cioè la fine «della democrazia così come l’abbiamo sinora conosciuta» (p. 67). La democrazia non è infatti, per Azzarà, un risultato conseguito una volta per tutte, bensì «un processo dialettico che attraversa fasi di emancipazione e di de-emancipazione che possono essere a volte persino simultanee» (p. 67). Ma il punto è che la democrazia esiste – e resiste – solo come regolazione di un conflitto, col risultato che, se quel conflitto svanisce del tutto, e se svaniscono i soggetti che rendevano reale quel conflitto, allora anche la democrazia è destinata a dissolversi. Dunque, la democrazia moderna non consiste soltanto in una serie di istituzioni formali, ma anche in qualcosa in più: «un sistema politico, economico e sociale complesso che non comprende soltanto le regole formali del gioco della rappresentanza e della separazione, limitazione e distribuzione dei poteri, che pure sono importantissime. Democrazia in senso pieno è democrazia integrale, vale a dire che essa comporta anche la partecipazione autonoma di tutti i gruppi e le classi sociali alla vita politica di un paese. E implica anche quella pienezza di diritti economici e sociali, risultato di lotte storiche ben precise, che di tale partecipazione sono il presupposto. Alla base della democrazia c’è dunque un grande compromesso, o una grande costellazione di compromessi che sono stati resi possibili dal raggiungimento di un equilibrio relativo ma corposo dei rapporti di forza nel conflitto di classe» (p. 97).
Alla base dell’idea di Azzarà, si trova la tesi formulata alcuni anni fa da Alfio Mastropaolo, secondo cui la democrazia postbellica – dal 1945 fino al 1980 circa – fu soprattutto il risultato di un «armistizio», più ancora che di un compromesso (si veda a questo proposito La crisi della "democrazia organizzata"). Negli ultimi trent’anni, quell’armistizio ha però visto scomparire uno dei suoi protagonisti, e ciò ha inevitabilmente comportato un graduale ma incessante svuotamento delle istituzioni democratiche, come sintetizza Azzarà nelle pagine introduttive: «Nata solo dopo il 1945, al termine della Seconda guerra dei Trent’anni, alla fine della Guerra fredda la democrazia cessa perciò di esistere nella sua figura moderna e ne prende una postmoderna. Per poi assumere nuove forme sempre più ‘autoritarie’: non certo nel senso del fascismo, bensì in quello di un bonpartismo soft che si modella secondo le esigenze dell’apparente oggettività economica e tecno-scientifica (quella della tecnocrazia in senso stretto ma anche quella delle reti telematiche, con la loro apparenza di partecipazione attiva dei cittadini atomizzati). E che si fa forte della capacità onnipervasiva di manipolazione del reale e delle coscienze offerta da quella potenza ineffabile che è la società dello spettacolo» (pp. 17-18).
Il libro di Azzarà non è naturalmente – o comunque non è solo – un libro di analisi delle trasformazioni contemporanee. È soprattutto un pamphlet di critica politica, che non rinuncia a individuare delle responsabilità, sia nella sinistra istituzionale, divenuta a partire dagli anni Novanta una delle artefici principali della deriva in senso autoritario della democrazia italiana, sia nella cultura filosofica del «postmodernismo», troppo incline a dimenticare la realtà (e soprattutto la realtà dei conflitti). Ed è un pamphlet che non esita neppure a tratteggiare persino il disegno di una possibile alternativa, la sua cui sagoma rimane ovviamente solo accennata prudentemente nelle pagine di Azzarà. Se la lettura della modificazione della democrazia postbellica appare difficilmente contestabile, nelle sue coordinate essenziali, la critica filosofica e il progetto ‘politico’ articolati da Azzarà possono invece risultare criticabili agli occhi di molti (e soprattutto da parte di chi ritenga che il «postmodernismo», al di là delle innumerevoli deformazioni, costituisca comunque una sfida non eludibile dal punto di vista teorico). C’è però un punto su cui il discorso sembra piuttosto debole, e forse non casualmente si tratta di un punto che affiora tanto sul versante della ‘diagnosi’ quanto su quello della ‘prognosi’. Benché Azzarà non faccia mistero della propria formazione marxista, non può non risultare sorprendente che nelle trecento pagine del suo testo l’attenzione sia pressoché interamente rivolta alla metamorfosi delle forze politiche della sinistra e al dibattito filosofico: cose molto importanti, sia ben chiaro, e che dunque meritano tutto l’interesse che Azzarà riserva loro; ma che – isolate dal contesto ‘sociale’ ed ‘economico’, e dunque da un’analisi di quegli «spostamenti molecolari», per utilizzare l’espressione dello stesso Azzarà, che si svolgono al livello dei rapporti sociali di produzione, nel laboratorio segreto della produzione – rischiano di dare l’impressione di un mondo che si muove ‘a testa in giù’. In effetti, nonostante Azzarà segua Mastropaolo a proposito dell’«armistizio democratico», e benché faccia pressoché costante riferimento alla centralità del conflitto, sembra sempre evadere (o quantomeno lasciare sottintesa) la questione dei motivi che hanno condotto al tramonto di quell’«armistizio», per consunzione di una delle due parti in causa. Naturalmente, una simile assenza può trovare una giustificazione nel profilo del libro di Azzarà, centrato in fondo su una lettura ‘filosofica’ della crisi della democrazia (e forse dell’ascesa del «renzismo»), o anche nella ‘specializzazione’ disciplinare dell’autore del volume, che ha dedicato molte interessanti e stimolanti pagine al «postmodernismo» (e in particolare a quella variante nostrana che è stato il «pensiero debole» di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti). Ciò nondimeno, monca dei suoi riferimenti a quanto avviene sul terreno dei rapporti sociali e delle relazioni produttive, la lettura della trasformazione della democrazia contemporanea tende a slittare in direzioni che finiscono con l’enfatizzare aspetti che – per quanto oggettivamente presenti – vengono però probabilmente sopravvalutati. Uno di questi effetti consiste per esempio nella tentazione di imputare la trasformazione della democrazia a un difetto di volontà, o meglio alla decisione dei gruppi dirigenti della sinistra italiana di abbandonare ogni residuo legame con la tradizione del marxismo e del socialismo novecentesco. E il problema di una simile interpretazione non consiste nella valutazione della buona o della cattiva fede dei dirigenti dell’ex Partito Comunista, o nell’implicita introduzione nell’analisi di un criterio morale in virtù del quale sono i ‘traditori’ i veri responsabili della catastrofe politica dell’ultimo trentennio. Il problema consiste invece, probabilmente, nella sopravvalutazione dello stesso terreno ‘politico’, o meglio di quel terreno su cui si svolge la contesa dei grandi soggetti della politica democratica: i partiti e i loro leader. Con la conseguenza implicita che – se è vera la diagnosi – allora è ‘sufficiente’ dar vita a un nuovo soggetto politico, che, conquistando la tribuna parlamentare, possa ‘rappresentare’ di nuovo quel fronte del lavoro che ha ormai smarrito da decenni i propri alfieri.
D’altronde, se della vecchia tradizione marxista qualcosa di vitale rimane, probabilmente non lo si deve cercare nella teleologia o nelle esercitazioni dialettiche, ma piuttosto nel tentativo di spiegare le grandi tendenze economiche, sociali e politiche a partire da ciò che avviene nel «segreto laboratorio della produzione». Il rischio che altrimenti si finisce col correre è infatti quello di trovare una scorciatoia ‘politica’ a problemi che non possono trovare una soluzione solo a questo livello. E, a ben guardare, era proprio questa la trappola in cui sarebbe miseramente caduto anche l’autore di quel vecchio pamphlet sulla Democrazia autoritaria, pubblicato più di vent’anni fa. Naturalmente è oggi sin troppo facile considerare Bertinotti solo come una modesta comparsa della recente storia italiana, ed è quasi scontato riconoscere nei suoi tratti, nei suoi vezzi, nel suo verboso narcisismo la sagoma di una caricatura degna solo dell’attenzione degli umoristi. Dovremmo però forse anche riconoscere che Bertinotti in quelle pagine coglieva – o forse intuiva – come le radici del processo di involuzione democratica affondassero persino dentro le strutture sindacali, e nella riduzione degli spazi di partecipazione dentro le organizzazioni dei lavoratori. E proprio per questo rilevava come la crisi della democrazia rappresentativa coinvolgesse modificazioni che incidevano in profondità su ambiti anche molto distanti dalla ribalta politica. Smessi i panni del leader sindacale e indossati quelli del segretario di partito, Bertinotti avrebbe invece imboccato una strada che non poteva che contrastare con l’analisi che aveva in precedenza articolato. Non tanto per il ruolo che avrebbe incarnato all’interno del partito, quanto perché avrebbe confidato che una politica spettacolare – e cioè condotta interamente sulla ribalta dello spettacolo politico – potesse riuscire a colmare il vuoto di potere determinatosi nella società. Al di là del nefasto ricordo che quel singolare leader della sinistra italiana ha lasciato di sé, dovremmo avere l’onestà intellettuale di riconoscere come il suo errore tenda a essere l’errore che quasi invariabilmente si compie, anche oggi, quando, alla formulazione di diagnosi persuasive, si fanno seguire proposte interamente ‘politiciste’, ossia fondate in termini quasi esclusivi sulla convinzione che alla frammentazione sociale si possa porre rimedio semplicemente grazie a una ‘sintesi’ garantita da una forza politica capace di approdare sui banchi di Montecitorio. Il libro di Azzarà non cade in un questo schema, ma è comunque possibile intravedere tra i presupposti impliciti di questa discussione una convinzione di questo tipo. Le cose però non sono mai così semplici. E questo non significa certo che chi ha tenuto in mano le ‘leve del potere’ negli ultimi vent’anni – fosse espressione di una coalizione di centro-destra o di centro-sinistra – non abbia contributo a modificare le relazioni produttive. Piuttosto, significa forse che quanto avviene al livello politico non può essere considerato come decisivo ‘in ultima istanza’ rispetto a ciò che avviene al livello delle relazioni sociali, sul terreno dei rapporti di produzione, nella dimensione microfisica in cui si svolgono i conflitti quotidiani. Senza dubbio non si può tornare a scindere la dimensione ‘culturale’ dalla dimensione ‘economica’. E così sarebbe grottesco pensare di poter distinguere la ‘sovrastruttura’ dalla ‘base’ produttiva (d’altronde proprio qui la lezione di una parte del postmodernismo rimane fondamentale). Ma non si può neppure dimenticare che le case non si costruiscono partendo dal tetto. E che le bandiere senza esercito non servono neppure per le parate. 

Damiano Palano

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