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domenica 30 novembre 2014

Viaggio sentimentale intorno al nulla. Quando l'intellettuale diventa Piccolo




di Damiano Palano

Questa riflessione, dedicata al romanzo-saggio di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), è stata pubblicata anche su Tysm Magazine, con il titolo Viaggio sentimentale intorno al nulla: Francesco Piccolo.

In un tempo ormai lontano, che nel ricordo si tinge talvolta dei colori della nostalgia, esisteva l’«intellettuale di sinistra». Non si trattava soltanto di un’etichetta volta a contrassegnare una componente del mondo culturale italiano, anche perché non esistevano gruppi speculari sul versante di destra oppure al centro dello schieramento politico (al massimo c’erano talvolta intellettuali «irregolari», che non avevano rapporti organici e stabili con formazioni partitiche). E non si trattava neppure di un’etichetta destinata a indicare studiosi votati a fornire al movimento operaio – mediante la ricerca teorica – gli strumenti dell’azione politica. L’«intellettuale di sinistra», in altre parole, era tale non tanto per ciò che scriveva o faceva nel proprio specifico campo – fosse la narrativa, il cinema, il teatro, la canzone, l’architettura – quanto per la sua vicinanza (più o meno esplicitamente dichiarata) alla causa del Partito Comunista Italiano. Paradossalmente, ciò che facevano e scrivevano nella pratica questi intellettuali poteva essere persino privo di sostanziali connessioni con l’impostazione ideologica del Pci, e solo nelle rappresentazioni più edulcorate questi operatori della cultura si limitavano ad applicare le direttive definite dal Partito. D’altronde, le provocazioni e le diversioni erano di fatto consentite, sempre che non assumessero la forma di un dissenso organizzato. Ciò che era importante era che quegli intellettuali, in prossimità delle scadenze elettorali, tornassero a schierarsi disciplinatamente sotto le insegne del Partito, e che offrissero una rappresentazione del sostegno del «mondo della cultura» al «cambiamento del Paese». I motivi che consentirono al Pci di conquistare quella che spesso viene definita come un’«egemonia culturale» (certo molto diversa da quella cui pensava Gramsci) furono molti. Gli storici continuano ancora oggi a interrogarsi su quel fenomeno, che ha davvero pochi eguali nel mondo (non solo occidentale), ma è davvero molto difficile negare che qualcosa di simile a un’«egemonia» esistesse effettivamente. Un’egemonia forse più sentimentale che politica, che comunque fece sì che anche una parte di intellettuali che poco avevano a che spartire con la causa del comunismo (e, va da sé, col marxismo) finissero con l’iscriversi – per conformismo, per convinzione, per opportunismo – allo schieramento degli intellettuali di sinistra, nella convinzione che il Pci fosse l’unico reale, credibile, responsabile attore capace di ‘modernizzare’ l’Italia, sotto il profilo politico, economico, culturale e morale.
Che in tutto questo vi fosse qualcosa di paradossale è piuttosto evidente, ma, al di là di ogni dibattito sulle matrici e sui vizi di un simile quadro, è chiaro che oggi non esiste più neppure l’ombra di quel mondo, che cominciò a dissolversi già nella seconda metà degli anni Settanta e che si polverizzò definitivamente negli anni Ottanta. Non esiste più alcun rapporto organico fra intellettuali e partiti (anche perché i partiti di fatto in Italia non esistono più) e non esistono più gli intellettuali come «gruppo», internamente articolato ma compatto nella sua collocazione. Ma, naturalmente, anche oggi esistono degli intellettuali di sinistra, e soprattutto il cosiddetto «popolo della sinistra» continua ad avere alcuni punti di riferimento (seppur sempre più sbiaditi). E anche se è difficile ricostruirne le coordinate ideologiche e teoriche, una buona esemplificazione si trova nelle opere narrative di Walter Veltroni, oltre che nelle sue fatiche saggistiche, in cui si trova condensato molto di quello stile di pensiero che negli ultimi mesi è diventato familiare a molti come «renzismo». Per chi fosse interessato a decifrare il codice genetico di questa galassia – che in verità, più che l’espressione di un mondo organizzato, appare spesso come una sorta di magmatica mucillagine intellettuale – una fonte estremamente preziosa è senza dubbio il romanzo-saggio-autobiografia di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, Torino, 2013), libro pluri-premiato, le cui fortune – largamente anticipate dagli ambienti letterari – hanno in qualche modo accompagnato in parallelo l’ascesa al potere dell’attuale Presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Il titolo del libro di Piccolo – che può apparire in parte enigmatico – è in realtà una citazione di Natalia Ginzburg, posta dall’autore a epigrafe del volume: «Ora noi possiamo sentirci, in mezzo alla comunità, soli e diversi, ma il desiderio di rassomigliare ai nostri simili e il desiderio di condividere il più possibile il destino comune è qualcosa che dobbiamo custodire nel corso della nostra esistenza e che se si spegne è male. Di diversità e solitudine, e di desiderio di essere come tutti, è fatta la nostra infelicità e tuttavia sentiamo che tale infelicità forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai». Per molti versi, la citazione di Ginzburg rimane la cosa migliore dell’intero volume, che – adottando un registro variabile – è difficilmente collocabile all’interno di uno specifico genere letterario. Costruito da Piccolo come un’autobiografia, nel libro l’autore accosta la propria formazione personale alle vicende della politica italiana dell’ultimo quarantennio. Proprio per il messaggio politico che scaturisce dalle sue pagine, il testo, più che un vero e proprio romanzo, può essere considerato come un saggio politico. Un saggio costruito – come vuole lo Zeitgeist – senza alcun riguardo per l’argomentazione logica, ma grazie all’accostamento analogico di situazioni, di scene sentimentali, eventi politici, e all’utilizzo di materiali della culturale popolare (strategia in cui Veltroni era maestro e che Renzi sfrutta certo con minore eleganza ma forse con più efficacia). E, soprattutto, un saggio che punta in una direzione precisa.
Il momento iniziale del racconto-saggio di Piccolo è costituito dal gol di Jürgen Sparwasser, il centravanti della Germania Est, che decide le sorti dello scontro diretto contro la Repubblica Federale, ai mondiali del 1974. Proprio quel momento – ed è questa la trovata più simpatica del volume – decide il destino futuro del protagonista, il quale decide di diventare «comunista», e cioè di schierarsi dalla parte del Partito Comunista Italiano guidato da Enrico Berlinguer: «il 22 giugno 1974, al settantesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista» (p. 33), scrive Piccolo, anche se, per la verità, al lettore non è consentito di capire cosa implichi davvero la scelta del protagonista, il quale non si iscriverà mai al Pci, non svolgerà mai alcuna attività politica, se non – da ciò che è dato capire – quella consistente nel seguire la fidanzatina, ai tempi del liceo, ad alcune riunioni di un gruppo studentesco di estrema sinistra. D’altronde – ed è questo, si badi, l’elemento più significativo del racconto di Piccolo – la vicinanza del protagonista alla sinistra si svolge tutta in un mondo interiore, del tutto immaginario, che non ha di fatto alcuna connessione con la realtà. Nella vita reale, il giovane Piccolo appare infatti impegnato in attività del tutto prive di qualsiasi connotazione politica, e le sue energie sembrano dedicate quasi interamente alla partecipazione a «feste», la cui evocazione ricorre ossessivamente nella prima parte della narrazione. Ciò nondimeno, il protagonista Piccolo instaura un forte rapporto emotivo con la figura di Berlinguer, nella quale proietta un ideale di purezza, non solo politica. Il Piccolo-narratore trova però una simmetria tra la purezza ricercata dal protagonista e il reale Berlinguer, quello che, dopo il fallimento del compromesso storico, getta sul piatto la «questione morale» e innesca un confronto-scontro con il Psi di Bettino Craxi. Viene così ricostruita la vicenda del referendum sulla scala mobile, voluto da Berlinguer proprio per rispondere a un attacco che considerava personale, e che segnò per molti versi la definitiva sconfitta del Partito Comunista. Di lì a poco, Berlinguer sarebbe scomparso e il Pci – privo di qualsiasi bussola e preda delle faide interne – sarebbe sopravvissuto in uno stato quasi letargico fino alla fine degli anni Ottanta. Ma c’è un episodio che Piccolo ricorda in particolare, quello dei fischi a Berlinguer in occasione del Congresso socialista di Verona del 1984. 
Allora, quei fischi parvero a Piccolo un incredibile affronto a un uomo politico indiscutibile, e quell’affronto diventa addirittura l’episodio che innesca una totale identificazione: «L’11 maggio 1984, nel momento in cui è entrato nel palazzetto dello sport di Verona, e tutto il pubblico ha cominciato a fischiare, io sono diventato Enrico Berlinguer. È stato il momento esatto in cui il mio sentimento pubblico e il mio sentimento privato, che in quei mesi di scontro avevano aderito ogni giorno, sono balzati via da me per infilarsi dentro lo sguardo perduto del segretario del mio partito – che stava davanti a quella gente con la stessa incapacità di organizzare un’espressione che avevo avuto io davanti a Elena che strappava la carta da regalo; ha sentito che mi riguardava così tanto, mi faceva soffrire così tanto, richiamava così precisamente il dolore mio personale, che non ci poteva essere più nessuna distanza tra me e lui; guardavo il suo viso teso, sperduto, e sentivo che con lui c’ero anch’io, anche se non ero lì» (pp. 131-132). E quello stesso episodio – in particolare, la dichiarazione con cui Craxi affermava di non essersi unito ai fischi solo perché non era in grado di fischiare – muta anche l’atteggiamento nei confronti del leader socialista: «Tutto quello che è venuto dopo, e che riguarda Craxi e il suo disfacimento personale e politico, non mi ha più toccato nel profondo; certo, mi sono indignato come quasi tutti gli italiani, mi è stato chiaro che i modi di fare politica erano inaccettabili – ma nulla di tutto questo mi ha davvero più toccato. Il mio rapporto con Craxi, di simpatia o antipatia, di speranza per un’alleanza tra socialisti e comunisti, e il resto che (non) ne conseguì, è finito nell’attimo in cui ha detto, studiando così bene le pause, che non aveva fischiato anche lui soltanto perché non sapeva fischiare» (p. 134-135).
Se la rievocazione di questo episodio e la ricostruzione delle più minute ripercussioni che esso ebbe sul Piccolo-protagonista possono persino risultare sconcertanti per qualche lettore, è evidente che il senso di questa insistenza emerge chiaramente con lo sviluppo del racconto. I fischi a Berlinguer e il suo funerale, così come la famosa intervista sulla questione morale, diventavano il simbolo della «purezza». «Nella sostanza le caratteristiche erano diventate due: essere diversi dagli altri – in un modo che è possibile definire: la purezza; frenare il forsennato ammodernamento della società – un atto che è impossibile non definire: la reazionarietà» (p. 139). E questo secondo elemento già fa trapelare un giudizio politico non da poco, perché in fondo Piccolo riconosce che allora aveva ragione Craxi e che Berlinguer era dalla parte sbagliata della storia. In altre parole, Berlinguer aveva scelto la strada della «purezza», e per rimanere «puro» il Pci aveva rinunciato a fare politica, al contrario del Psi di Craxi. In sostanza, secondo il ragionamento di Piccolo, con la sconfitta del compromesso storico, la sinistra italiana (o almeno quella rappresentata dal Pci), aveva scelto di mantenere un’idea di «purezza» anche se questa implicava necessariamente la sconfitta politica, e – oltre tutto – aveva da quel momento visto nella sconfitta una conferma della propria «purezza». Come scrive il narratore al termine della prima parte, in un passaggio fondamentale del suo saggio in forma di romanzo: «La questione definitiva della sinistra alla quale mi sentivo di appartenere senza alcun dubbio, fu questa: Craxi rappresentava un’innovazione troppo cinica, disinvolta, corruttibile, poco oggettiva e famelica; di conseguenza – e questa è stata una transizione di pensiero del tutto decisiva per la storia della sinistra italiana – fu l’innovazione stessa a significare cinismo, disinvoltura, corruttibilità, famelicità. La sinistra si ritirava per sempre, e con assoluta convinzione – sicura di stare dalla parte della ragione – dal proposito del progresso per trasformarsi in forza reazionaria. Dall’entrata mancata nel governo e dal rapimento di Moro, nasce un’idea di purezza – interpretata come un destino – che non morirà più. Quello che Moro aveva temuto, si verifica alla lettera: il Pci diventa interlocutore esterno della realtà. Ma quello che Moro indicava come un pericoloso punto di forza, diventa una condanna alla marginalità, alla sconfitta. È qui che sta il grande cambiamento: della vittoria non importava più nulla; bisognava soltanto segnare una volta e per sempre una linea di demarcazione, un’idea definitiva di diversità; bisognava sfilarsi dalla vita pubblica reale e rappresentare un’alternativa astratta, pulita, arroccata. Un’alternativa pura» (pp. 154-155).
Dopo la «vita pura», si apre però la «vita impura», in cui Piccolo ricostruisce la propria autobiografia sentimentale nella Seconda Repubblica. Anche in questo caso, la realtà ha poco a che vedere con il vissuto emotivo del protagonista, che anzi appare del tutto disinteressato a ciò che accade nella lunga «transizione» italiana. Piccolo trasforma infatti il sistema politico italiano nel teatro di una drammatica tauromachia, in cui a Romano Prodi spetta il ruolo di eroe positivo, impegnato in una battaglia senza esclusione di colpi con Fausto Bertinotti, il quale diventa addirittura una sorta di Titano politico, seppur incaricato di rappresentare le forze del male. Il momento in cui Rifondazione comunista ritira l’appoggio esterno al primo governo Prodi è infatti considerato come l’inizio del cataclisma politico italiano. Naturalmente, a Piccolo non interessa la realtà dell’operato del governo Prodi, come d’altronde appare sostanzialmente indifferente a considerare in profondità la vicenda delle privatizzazioni, le implicazioni del Trattato di Maastricht sulla politica italiana, la lungimiranza della decisione di procedere sulla strada dell’unificazione monetaria, la costruzione di nuovi blocchi di potere, la demolizione dell’amministrazione pubblica, la proliferazione di legami clientelari a ogni livello di governo, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, e cioè tutti quegli aspetti che riguardano la realtà della politica italiana (e dell’operato del primo governo guidato da Romano Prodi). Nell’economia di una storia sentimentale, ciò che preme a Piccolo è rappresentare Bertinotti come l’erede della sinistra «pura» voluta da Berlinguer: una sinistra ‘reazionaria’, ostile al corso ‘naturale’ della Storia, e invece desiderosa di sempre nuove sconfitte, capaci di confermare la propria purezza. Il giudizio politico di Piccolo, da questo punto di vista, è senza appello: «Il gesto di Bertinotti è compiuto in nome della purezza, segue la sorda etica dei principî. Il governo Prodi era stato il riscatto da questa purezza senza fertilità; se avesse portato a termine il suo mandato, probabilmente adesso vivremmo in un paese diverso. […] In quel momento finisce, si consuma, si esaurisce in un tempo brevissimo la rinascita dell’ultima spinta riformatrice del nuovo corso del centrosinistra e il Paese viene consegnato in mano a Berlusconi» (pp. 177-178). Ma è anche qualcosa di più: «Quel giorno è cambiato il mio atteggiamento verso la vita – per sempre. La purezza, il senso di giustizia, non sono state mai più il mio criterio, nemmeno come amico, o come amante; ed è cambiato perfino il mio modo di scrivere, il mio interesse per le storie […] Ho capito una volta per tutte che non soltanto non mi piaceva il fatto che Bertinotti e i suoi sentissero di essere dalla parte della ragione, ma soprattutto che se pure lo fossero davvero stati, la mia inquietudine non si sarebbe più modificata. Quindi non c’entrava con la ragione o il torto; ma con l’uso che si fa della ragione o del torto» (pp. 184-185).
La caduta del governo Prodi, invece di rappresentare un nuovo lutto, diventa per Piccolo il momento di una vera liberazione, di una svolta anche individuale, perché rompe davvero con quell’immagine di «purezza» con cui aveva convissuto dal tempo dei fischi a Berlinguer e, prima ancora, dal momento del gol di Sparwasser. Il protagonista del romanzo-saggio decide di sposare la propria compagna, denominata con la formula «Chesaramai», per la capacità di sdrammatizzare eventi all’apparenza gravissimi. Ma, soprattutto, inizia a vedere le cose in modo diverso, si arrende finalmente alla «forza delle cose». E alla fine – anzi molto presto – scopre che ci si trova benissimo a navigare insieme a quella «forza delle cose», che tutto sommato fregarsene dei grandi problemi del mondo e della «purezza» era scritto fin dalle origini nel suo Dna. 
Nel Conformista di Moravia il protagonista lottava tutta la vita per reprimere la propria diversità, cercava in ogni modo di confondersi nella massa, diventando un piccolo-borghese, un convinto fascista, addirittura un agente dell’Ovra. Ma alla fine doveva soccombere, e quando il fascismo crollava, riemergeva ciò che era sempre stato. Nel libro di Piccolo, il percorso è esattamente l’opposto. Il protagonista cerca di reprimere in ogni modo il proprio conformismo, il «desiderio di essere come tutti», trovando in Sparwasser, in Berlinguer, nel Pci, nell’antiberlusconismo dei simboli di «purezza» da seguire. Ma alla fine – e non è forse casuale che il libro venga concepito e sia pubblicato nel momento in cui Silvio Berlusconi esce sostanzialmente dal proscenio della politica italiana – anche in questo caso riemerge tutto ciò si era tentato di reprimere. Finalmente libero da ogni fantasma di purezza, il protagonista  può finalmente esplodere nel classico, godereccio «checcefrega». Può rivendicare così con orgoglio la propria vorace superficialità, il proprio menefreghismo, l’ingorda piccola felicità domestica, il proprio inguaribile familismo amorale. Il Robert Redford che in Come eravamo dice a Barbra Streisand, il giorno della morte di Roosevelt, che tutto ciò accade nel mondo «non accade a te personalmente», diventa un piccolo inno a profittare delle piccole gioie della vita, a disinteressandoci del nostro vicino, ad arraffare ogni piccolo possibile godimento, dimenticando ogni ‘grande causa’ e ogni nobile ideale. Come scrive Piccolo nelle pagine conclusive: «La superficialità ha diritto di esistere, quanto la profondità. La vita politica, la vita contemplativa e la vita dedita ai piaceri sono sempre esistite contemporaneamente, e la capacità di farle convivere è il compito di ogni individuo e di ogni comunità. […] La sinistra, mi pare, ha imparato a conoscere a fondo i grandi problemi di questo Paese (senza peraltro che questa conoscenza bastasse a risolverli); mentre è geneticamente maldisposta verso un’altra parte di Paese, preponderante per costume e forza, superficiale, spensierata. Ed è così geneticamente maldisposta, che non sa nemmeno più che Paese è. Finora questa lacuna era stata combattuta dicendo: stanno dall’altra parte del confine, non ci riguardano. Ma poiché questo è un solo Paese; poiché la Storia ha insegnato che la corresponsabilità degli accadimenti è di coloro che vincono e di coloro che perdono, anche se non in parti uguali; poiché probabilmente in ognuno di noi al di qua del confine c’è una percentuale di superficialità, di spensieratezza e anche di mostruosità – che siamo sicuri di non avere, ma che abbiamo – è bene oltrepassarlo questo confine e andare a capire di là chi c’è, come si ragiona, cosa si fa. Portando il proprio sapere, i propri ragionamenti, le proprie soluzioni» (pp. 255-256).
È molto difficile immaginare oggi cosa penseranno i posteri di un saggio come quello di Piccolo, e soprattutto è difficile come riusciranno a spiegarsi il successo che gli è stato tributato dal mondo culturale italiano, o quantomeno da ciò che ne rimane ancora. Ma forse nelle pagine di Piccolo – in cui i più malevoli lettori potrebbero divertirsi a ritrovare svariate centinaia di frasi fatte, oltre che le più fruste banalità che da almeno un trentennio circolano nel «sinistrese» italiano – si può trovare davvero il segno di un grande mutamento culturale, contemporaneo ovviamente alla svolta compiuta a livello politico al principio del 2014. Il libro di Piccolo, al di là dei meriti letterari (che il futuro giudicherà più saggiamente di quanto oggi si possa fare), offre infatti la testimonianza di un viaggio sentimentale comune a una parte consistente di ciò che sono diventati gli «intellettuali di sinistra» nel corso dell’ultimo trentennio, ed è probabilmente questo dato che può contribuire a spiegare il successo del libro. Quella formidabile esaltazione della «superficialità» - che certo trova la sua più efficace esemplificazione nella ricostruzione della recente storia italiana compiuta da Piccolo – è infatti un punto di approdo in cui molti si possono riconoscere, liberandosi con soddisfazione dei fardelli del passato. In altre parole, il libro di Piccolo è davvero l’ultimo capitolo di una mutazione genetica che conduce il vecchio «intellettuale di sinistra» a spogliarsi della propria diversità e a indossare finalmente i panni dell’«italiano medio» tante volte impersonato da Alberto Sordi: un personaggio senza dubbio simpatico, ma soprattutto ingordo, addirittura vorace nel soddisfare i propri ancestrali appetiti, dimentico di ogni causa collettiva, ma sempre ossessivamente impegnato a soddisfare il proprio «particulare», e, va da sé, a cogliere l’attimo fuggente dei più effimeri piaceri materiali.
In questa metamorfosi ben poco rimane della vecchia convinzione di stare – nonostante tutto, nonostante le difficoltà, gli errori, le crisi, le sconfitte – dalla parte giusta della Storia. Nel senso che la Storia smarrisce ovviamente ogni residua teleologia, per diventare semplicemente ciò che accade, o per identificarsi addirittura – come scrive Piccolo – con la «forza delle cose». Una «forza delle cose» che non si coincide con nulla di preciso, ma che comunque è bene assecondare, adagiandosi nella corrente e lasciandosi trasportare. Forse a qualcuno il libro di Piccolo sembrerà per questo una sorta di legittimazione della vecchia, vecchissima tradizione nazionale dei «voltagabbana», sempre pronti a capire in quale direzione tira il vento e ad aggiustare il tiro, assecondando i potenti di turno. Ma in verità si tratta di qualcosa di più. È il punto terminale (e coerente) di un nichilismo integrale. Un nichilismo che, rifiutando ogni teleologia e abbandonando qualsiasi tensione etica, si limita a riconoscere che l’unica realtà è quella che accade. E che non esiste alcuna alternativa, né lontana né vicina, all’impetuosa, trascinante, irresistibile «forza delle cose». 

Damiano Palano


lunedì 24 novembre 2014

Gli inconvenienti dell'agonismo. Un libro di Chantal Mouffe



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Chantal Mouffe, Agonistics. Thinking the world politically (Verso, London, 2013), in «Filosofia politica», n. 2, 2014. 

Il principale punto di snodo nel percorso intellettuale di Chantal Mouffe è senza dubbio rappresentato da Hegemony and Socialist Strategy, un volume pubblicato insieme a Ernesto Laclau a metà degli anni Ottanta nel quale sono delineati gli elementi fondamentali di un progetto teorico definito esplicitamente come «post-marxista». In quel lavoro Laclau e Mouffe abbandonano la pretesa della teoria marxista di poter cogliere e rappresentare la struttura ‘oggettiva’ della società, e dunque anche l’idea che i soggetti sociali – e in primo luogo le classi – affondino le loro radici nel terreno ‘oggettivo’ della struttura economica. All’interno di una simile operazione, ogni identità collettiva viene concepita come il risultato di pratiche discorsive e articolatorie, e proprio in questo senso Laclau e Mouffe assegnano un ruolo chiave alla nozione gramsciana di «egemonia», ovviamente privata di ogni residuo ‘essenzialista’ (e cioè di qualsiasi richiamo all’idea che la fisionomia delle classi e dei gruppi sia un riflesso dell’assetto della struttura economica). La totalità sociale è intesa infatti soltanto come il prodotto di una «pratica articolatoria» capace di costituire e organizzare le relazioni sociali, di cui l’egemonia rappresenta un caso specifico. Ciò che dunque emerge è un radicale rovesciamento del classico rapporto di subordinazione del ‘politico’ all’‘economico’ propria del marxismo ortodosso, perché i soggetti sociali vengono considerati come il risultato di un processo sostanzialmente ‘politico’ di costruzione delle identità collettive e delle linee conflittuali. E non è così affatto sorprendente che Laclau e Mouffe si siano dedicati ad approfondire ulteriormente questo rovesciamento e a riflettere con sempre maggiore insistenza sul ‘politico’, oltre che sulle dinamiche di costituzione delle identità collettive. Anche se nel loro discorso sono intervenute nel corso del tempo modificazioni non del tutto secondarie, negli ultimi trent’anni Laclau e Mouffe si sono infatti per molti versi limitati a svolgere il programma enunciato in Hegemony and Socialist Strategy. 
La riflessione sul «populismo» sviluppata da Laclau riprende per esempio proprio la distinzione tra «lotte democratiche» e «lotte popolari» già delineata nel lavoro degli anni Ottanta, mentre il percorso di Mouffe – scandito da testi come The Return of the Political, The Democratic Paradox On the Political – si è configurato soprattutto come ricerca sull’«essenza» del ‘politico’, e proprio percorrendo questo binario la studiosa belga ha incrociato Carl Schmitt e il Begriff des Politischen, in cui ha ritrovato gli elementi basilari di una di «ontologia» del ‘politico’. Ovviamente, così come Laclau usa con grande disinvoltura alcune formule di Jacques Lacan all’interno della sua teoria delle identità politiche, anche Mouffe utilizza le ipotesi di Schmitt per procedere – consapevolmente – in una direzione molto differente da quella del giurista tedesco. La visione forte del ‘politico’ serve innanzitutto come grimaldello teorico per mostrare le lacune genetiche di tutte quelle teorie liberali che riducono la politica (e la democrazia) all’etica o all’economia, alla discussione pubblica o alla scelta razionale, ma, soprattutto, costituisce il presupposto della costruzione di un modello agonistico di democrazia, alla cui definizione Mouffe ha dedicato le proprie energie nel corso dell’ultimo decennio. Ed è proprio alla precisazione dei caratteri di questa teoria della democrazia che sono dedicate le pagine di Agonistics.
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sabato 15 novembre 2014

Il simulacro della democrazia italiana. Un pamphlet politico-filosofico di Stefano G. Azzarà




di Damiano Palano

Nel 1991 l’editore Datanews dava alle stampe il primo libro di Fausto Bertinotti, allora ancora dirigente della sinistra della Cgil, ma destinato a entrare di lì a poco nell’agone politico come segretario di Rifondazione comunista. Il libro raccoglieva una serie di interventi, rivisti e curati dal fedele Alfonso Gianni, ed era preceduto da una prefazione di Rossana Rossanda, che in qualche modo forniva una sorta di legittimazione al nuovo ruolo di leader della sinistra che Bertinotti avrebbe assunto di lì a qualche mese. Il titolo del volume – La democrazia autoritaria – era quantomeno evocativo, anche se a ben vedere i testi compresi nel libro erano piuttosto dedicati alle trasformazioni del sindacato e a un rilancio di quella visione democratica del «sindacato dei consigli» che aveva avuto la propria stagione aurea negli anni Settanta ma che, proprio in contrasto con la linea ‘neo-corporativa’ adottata da Cgil, Cisl e Uil all’inizio degli anni Novanta, sembrava conoscere una riscoperta, rivelatasi poi del tutto effimera. Negli interventi accolti nel libro, Bertinotti ripercorreva alcuni snodi cruciali della storia italiana, e si soffermava in particolare sulle dinamiche che, a partire dagli anni Ottanta, avevano di fatto neutralizzato la richiesta di partecipazione e di democrazia degli anni Settanta. In altre parole, la «democrazia autoritaria» aveva investito al loro interno anche i sindacati, in cui le decisioni erano ormai assunte dai vertici nazionali, senza che la base fosse neppure consultata. Questo processo era però il riflesso di una trasformazione molto più generale, che coinvolgeva tutte le istituzioni sociali. Come scriveva il futuro leader di Rifondazione comunista e Presidente della Camera dei deputati: «Oggi siamo di fronte a un fatto drammaticamente connesso ad una sconfitta: si sono rotti i meccanismi di cultura politica omogenea, grandi aggregati, domande politiche forti. Si può discutere se l’individualismo, che da qui nasce, prenda le pieghe, per usare i termini di Pietro Barcellona, dell’egoismo maturo oppure della parcellizzazione mercificata. Ma non c’è dubbio che siamo di fronte ad una frantumazione ed individualizzazione delle domande. Questa condizione dà ragione, nel suo insieme, a quel fenomeno che chiamo la crisi del sistema rappresentativo, la crisi della rappresentanza democratica. In molti casi siamo già di fronte non più alla democrazia, ma al suo simulacro, ad un’architettura che ha le apparenze della costruzione democratica che si è svuotata, nella sua anima, della capacità reale di operare un procedimento in grado di coinvolgere la maggioranza delle persone interessate alla costruzione di una scelta. Siamo di fronte ad un passaggio difficilissimo che riguarda gli assetti della democrazia. E lo siamo al punto che la domanda di Alice nel paese delle meraviglie, oggi, sarebbe senza una risposta convincente. Chi comanda qui? Chi è il sovrano? Nella incertezza della risposta c’è il sintomo più evidente della condizione di simulacro della democrazia, dell’assenza di una democrazia realmente vissuta» (F. Bertinotti, La democrazia autoritaria, Datanews, Roma, 1991; IV ed. 2006, p. 69).
Pubblicati prima ancora che la “Prima Repubblica” fosse investita dalla bufera giudiziaria che ne avrebbe sancito la fine, i saggi di Bertinotti articolavano una tesi che di lì a pochi anni, con l’ingresso sulla scena politica di Silvio Berlusconi, sarebbe diventata dominante. Nella “Seconda Repubblica”, il riconoscimento del logoramento delle istituzioni democratiche, dell’impoverimento del ruolo del Parlamento, della personalizzazione della politica, della crisi della democraticità di partiti e sindacati sarebbe diventato quasi una sorta di luogo comune, almeno presso quella larga schiera del mondo intellettuale più o meno prossimo alla sinistra. Probabilmente si potrebbe infatti riempire un’intera biblioteca domestica mettendo insieme tutti i titoli usciti nel corso del ‘ventennio berlusconiano’ che, a partire dalla cronaca politica e giudiziaria, autorizzavano l’idea che le istituzioni rappresentative fossero ormai ridotte a un palcoscenico che di democratico mostrava ben poco. E, da questo punto di vista, è sufficiente pensare anche solo a quei testi che – negli ultimi anni di governo di Silvio Berlusconi – ricostruivano le «cene eleganti» del premier, ricostruivano la genesi dell’«egemonia sottoculturale» che aveva preparato il successo politico del Cavaliere, o che biasimavano le mille nefandezze di un paese ormai diventato «triviale».
Giuste o sbagliate che fossero quelle diagnosi, è piuttosto sorprendente che molti dei critici della personalizzazione e del decisionismo berlusconiani rimangano oggi silenziosi dinanzi alla marcia trionfale di Matteo Renzi, una marcia che – è quasi superfluo sottolinearlo – riduce il «berlusconismo» al semplice ruolo di ‘precursore’, di ‘anticipazione’ storica. Molti di quei progetti che i governi di Silvio Berlusconi iniziarono a formulare, senza poi condurli in porto (almeno fino alle loro conseguenze più radicali), sono infatti oggi ripresi e declinati integralmente dal governo Renzi. Al di là di ogni valutazione sugli effetti delle misure adottate, o annunciate, dal governo presieduto da Matteo Renzi, ciò che risulta più sconcertante – anche se, a ben vedere, del tutto comprensibile – è proprio il repentino mutamento di criteri di giudizio da parte di osservatori, commentatori e intellettuali più o meno titolati. Mentre non esitavano neppure un minuto a denunciare l’attacco alle istituzioni democratiche perpetrate dal Cavaliere e dalle sue truppe, oggi quegli stessi intellettuali assistono sostanzialmente passivi ad attacchi ben più energici, spesso persino sguaiati, alla sovranità del Parlamento, al diritto di sciopero, alla legittimità dei sindacati, e qualche volta finiscono anche con lo strizzare l’occhio allo sbrigativo decisionismo del Presidente del Consiglio e alla sua insofferenza per i rituali della democrazia parlamentare, per le lungaggini della concertazione, per i borbottii di vecchi «parrucconi».
Da questo panorama fuoriesce invece con decisione il nuovo volume di Stefano G. Azzarà, Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia (Imprimatur, pp. 333, euro 16.00), forse il primo testo che in modo articolato utilizza la categoria di «bonapartismo» per interpretare il «renzismo». Azzarà non nasconde la propria impostazione marxista, un’impostazione teorica che naturalmente per molti sarebbe un motivo sufficiente per non sfogliare nemmeno il suo libro. Anche se il marxismo di Azzarà – un marxismo che guarda soprattutto a Gramsci, ma anche ad autori contemporanei come Domenico Losurdo – talvolta finisce con l’imbrigliare l’analisi in una terminologia ingombrante, è invece difficile non concordare con molte delle tesi di Democrazia cercasi, o quantomeno con la rilettura della storia italiana degli ultimi trent’anni che propone, soprattutto quando rifiuta di attribuire l’avvio della ‘crisi’ della democrazia italiana solo a Silvio Berlusconi: «Il declino della politica e della democrazia in Italia non può […] essere imputato a una sola persona, per quanto potente e influente, ma è l’esito prevedibile di trasformazioni molto complesse. Di sommovimenti che hanno a che fare non con la superficie della rappresentazione e della comunicazione politica alla quale siamo abituati e che occupa i discorsi da bar o da format televisivo, né con la persistenza di un fantomatico statalismo oppressivo del quale cianciano tuttora i liberali immaginari di casa nostra, bensì con gli spostamenti molecolari avvenuti nell’oscurità dei rapporti di classe e di produzione nel corso di lunghi anni. Così come hanno a che fare con una dialettica concomitante, che da un secolo e mezzo contrappone la democrazia moderna a quel particolare tipo di regime […] che dai tempi di Marx viene chiamato con il nome oggi desueto di ‘bonapartismo’» (p. 41). In sostanza, secondo Azzarà, non è oggi in atto in Italia una «fascistizzazione», bensì proprio «la fine della ‘democrazia moderna’», e cioè la fine «della democrazia così come l’abbiamo sinora conosciuta» (p. 67). La democrazia non è infatti, per Azzarà, un risultato conseguito una volta per tutte, bensì «un processo dialettico che attraversa fasi di emancipazione e di de-emancipazione che possono essere a volte persino simultanee» (p. 67). Ma il punto è che la democrazia esiste – e resiste – solo come regolazione di un conflitto, col risultato che, se quel conflitto svanisce del tutto, e se svaniscono i soggetti che rendevano reale quel conflitto, allora anche la democrazia è destinata a dissolversi. Dunque, la democrazia moderna non consiste soltanto in una serie di istituzioni formali, ma anche in qualcosa in più: «un sistema politico, economico e sociale complesso che non comprende soltanto le regole formali del gioco della rappresentanza e della separazione, limitazione e distribuzione dei poteri, che pure sono importantissime. Democrazia in senso pieno è democrazia integrale, vale a dire che essa comporta anche la partecipazione autonoma di tutti i gruppi e le classi sociali alla vita politica di un paese. E implica anche quella pienezza di diritti economici e sociali, risultato di lotte storiche ben precise, che di tale partecipazione sono il presupposto. Alla base della democrazia c’è dunque un grande compromesso, o una grande costellazione di compromessi che sono stati resi possibili dal raggiungimento di un equilibrio relativo ma corposo dei rapporti di forza nel conflitto di classe» (p. 97).
Alla base dell’idea di Azzarà, si trova la tesi formulata alcuni anni fa da Alfio Mastropaolo, secondo cui la democrazia postbellica – dal 1945 fino al 1980 circa – fu soprattutto il risultato di un «armistizio», più ancora che di un compromesso (si veda a questo proposito La crisi della "democrazia organizzata"). Negli ultimi trent’anni, quell’armistizio ha però visto scomparire uno dei suoi protagonisti, e ciò ha inevitabilmente comportato un graduale ma incessante svuotamento delle istituzioni democratiche, come sintetizza Azzarà nelle pagine introduttive: «Nata solo dopo il 1945, al termine della Seconda guerra dei Trent’anni, alla fine della Guerra fredda la democrazia cessa perciò di esistere nella sua figura moderna e ne prende una postmoderna. Per poi assumere nuove forme sempre più ‘autoritarie’: non certo nel senso del fascismo, bensì in quello di un bonpartismo soft che si modella secondo le esigenze dell’apparente oggettività economica e tecno-scientifica (quella della tecnocrazia in senso stretto ma anche quella delle reti telematiche, con la loro apparenza di partecipazione attiva dei cittadini atomizzati). E che si fa forte della capacità onnipervasiva di manipolazione del reale e delle coscienze offerta da quella potenza ineffabile che è la società dello spettacolo» (pp. 17-18).
Il libro di Azzarà non è naturalmente – o comunque non è solo – un libro di analisi delle trasformazioni contemporanee. È soprattutto un pamphlet di critica politica, che non rinuncia a individuare delle responsabilità, sia nella sinistra istituzionale, divenuta a partire dagli anni Novanta una delle artefici principali della deriva in senso autoritario della democrazia italiana, sia nella cultura filosofica del «postmodernismo», troppo incline a dimenticare la realtà (e soprattutto la realtà dei conflitti). Ed è un pamphlet che non esita neppure a tratteggiare persino il disegno di una possibile alternativa, la sua cui sagoma rimane ovviamente solo accennata prudentemente nelle pagine di Azzarà. Se la lettura della modificazione della democrazia postbellica appare difficilmente contestabile, nelle sue coordinate essenziali, la critica filosofica e il progetto ‘politico’ articolati da Azzarà possono invece risultare criticabili agli occhi di molti (e soprattutto da parte di chi ritenga che il «postmodernismo», al di là delle innumerevoli deformazioni, costituisca comunque una sfida non eludibile dal punto di vista teorico). C’è però un punto su cui il discorso sembra piuttosto debole, e forse non casualmente si tratta di un punto che affiora tanto sul versante della ‘diagnosi’ quanto su quello della ‘prognosi’. Benché Azzarà non faccia mistero della propria formazione marxista, non può non risultare sorprendente che nelle trecento pagine del suo testo l’attenzione sia pressoché interamente rivolta alla metamorfosi delle forze politiche della sinistra e al dibattito filosofico: cose molto importanti, sia ben chiaro, e che dunque meritano tutto l’interesse che Azzarà riserva loro; ma che – isolate dal contesto ‘sociale’ ed ‘economico’, e dunque da un’analisi di quegli «spostamenti molecolari», per utilizzare l’espressione dello stesso Azzarà, che si svolgono al livello dei rapporti sociali di produzione, nel laboratorio segreto della produzione – rischiano di dare l’impressione di un mondo che si muove ‘a testa in giù’. In effetti, nonostante Azzarà segua Mastropaolo a proposito dell’«armistizio democratico», e benché faccia pressoché costante riferimento alla centralità del conflitto, sembra sempre evadere (o quantomeno lasciare sottintesa) la questione dei motivi che hanno condotto al tramonto di quell’«armistizio», per consunzione di una delle due parti in causa. Naturalmente, una simile assenza può trovare una giustificazione nel profilo del libro di Azzarà, centrato in fondo su una lettura ‘filosofica’ della crisi della democrazia (e forse dell’ascesa del «renzismo»), o anche nella ‘specializzazione’ disciplinare dell’autore del volume, che ha dedicato molte interessanti e stimolanti pagine al «postmodernismo» (e in particolare a quella variante nostrana che è stato il «pensiero debole» di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti). Ciò nondimeno, monca dei suoi riferimenti a quanto avviene sul terreno dei rapporti sociali e delle relazioni produttive, la lettura della trasformazione della democrazia contemporanea tende a slittare in direzioni che finiscono con l’enfatizzare aspetti che – per quanto oggettivamente presenti – vengono però probabilmente sopravvalutati. Uno di questi effetti consiste per esempio nella tentazione di imputare la trasformazione della democrazia a un difetto di volontà, o meglio alla decisione dei gruppi dirigenti della sinistra italiana di abbandonare ogni residuo legame con la tradizione del marxismo e del socialismo novecentesco. E il problema di una simile interpretazione non consiste nella valutazione della buona o della cattiva fede dei dirigenti dell’ex Partito Comunista, o nell’implicita introduzione nell’analisi di un criterio morale in virtù del quale sono i ‘traditori’ i veri responsabili della catastrofe politica dell’ultimo trentennio. Il problema consiste invece, probabilmente, nella sopravvalutazione dello stesso terreno ‘politico’, o meglio di quel terreno su cui si svolge la contesa dei grandi soggetti della politica democratica: i partiti e i loro leader. Con la conseguenza implicita che – se è vera la diagnosi – allora è ‘sufficiente’ dar vita a un nuovo soggetto politico, che, conquistando la tribuna parlamentare, possa ‘rappresentare’ di nuovo quel fronte del lavoro che ha ormai smarrito da decenni i propri alfieri.
D’altronde, se della vecchia tradizione marxista qualcosa di vitale rimane, probabilmente non lo si deve cercare nella teleologia o nelle esercitazioni dialettiche, ma piuttosto nel tentativo di spiegare le grandi tendenze economiche, sociali e politiche a partire da ciò che avviene nel «segreto laboratorio della produzione». Il rischio che altrimenti si finisce col correre è infatti quello di trovare una scorciatoia ‘politica’ a problemi che non possono trovare una soluzione solo a questo livello. E, a ben guardare, era proprio questa la trappola in cui sarebbe miseramente caduto anche l’autore di quel vecchio pamphlet sulla Democrazia autoritaria, pubblicato più di vent’anni fa. Naturalmente è oggi sin troppo facile considerare Bertinotti solo come una modesta comparsa della recente storia italiana, ed è quasi scontato riconoscere nei suoi tratti, nei suoi vezzi, nel suo verboso narcisismo la sagoma di una caricatura degna solo dell’attenzione degli umoristi. Dovremmo però forse anche riconoscere che Bertinotti in quelle pagine coglieva – o forse intuiva – come le radici del processo di involuzione democratica affondassero persino dentro le strutture sindacali, e nella riduzione degli spazi di partecipazione dentro le organizzazioni dei lavoratori. E proprio per questo rilevava come la crisi della democrazia rappresentativa coinvolgesse modificazioni che incidevano in profondità su ambiti anche molto distanti dalla ribalta politica. Smessi i panni del leader sindacale e indossati quelli del segretario di partito, Bertinotti avrebbe invece imboccato una strada che non poteva che contrastare con l’analisi che aveva in precedenza articolato. Non tanto per il ruolo che avrebbe incarnato all’interno del partito, quanto perché avrebbe confidato che una politica spettacolare – e cioè condotta interamente sulla ribalta dello spettacolo politico – potesse riuscire a colmare il vuoto di potere determinatosi nella società. Al di là del nefasto ricordo che quel singolare leader della sinistra italiana ha lasciato di sé, dovremmo avere l’onestà intellettuale di riconoscere come il suo errore tenda a essere l’errore che quasi invariabilmente si compie, anche oggi, quando, alla formulazione di diagnosi persuasive, si fanno seguire proposte interamente ‘politiciste’, ossia fondate in termini quasi esclusivi sulla convinzione che alla frammentazione sociale si possa porre rimedio semplicemente grazie a una ‘sintesi’ garantita da una forza politica capace di approdare sui banchi di Montecitorio. Il libro di Azzarà non cade in un questo schema, ma è comunque possibile intravedere tra i presupposti impliciti di questa discussione una convinzione di questo tipo. Le cose però non sono mai così semplici. E questo non significa certo che chi ha tenuto in mano le ‘leve del potere’ negli ultimi vent’anni – fosse espressione di una coalizione di centro-destra o di centro-sinistra – non abbia contributo a modificare le relazioni produttive. Piuttosto, significa forse che quanto avviene al livello politico non può essere considerato come decisivo ‘in ultima istanza’ rispetto a ciò che avviene al livello delle relazioni sociali, sul terreno dei rapporti di produzione, nella dimensione microfisica in cui si svolgono i conflitti quotidiani. Senza dubbio non si può tornare a scindere la dimensione ‘culturale’ dalla dimensione ‘economica’. E così sarebbe grottesco pensare di poter distinguere la ‘sovrastruttura’ dalla ‘base’ produttiva (d’altronde proprio qui la lezione di una parte del postmodernismo rimane fondamentale). Ma non si può neppure dimenticare che le case non si costruiscono partendo dal tetto. E che le bandiere senza esercito non servono neppure per le parate. 

Damiano Palano

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martedì 4 novembre 2014

Se l’oligarchia uccide la politica. La fine dell’eguaglianza in due libri di Marco Revelli





di Damiano Palano

Nel 1994, mentre si avvicinavano le elezioni politiche, il quotidiano «il Manifesto» dedicava il proprio supplemento domenicale a un ripensamento del concetto di «Progresso». La scelta non era ovviamente dettata da un puro interesse speculativo. Al fondo di quella discussione stava infatti la volontà di valutare criticamente l’etichetta «Progressisti» che la coalizione di centro-sinistra, guidata dal Partito Democratico della Sinistra e dal suo segretario Achille Occhetto, aveva deciso di inalberare nelle ormai prossime elezioni. In altre parole, i redattori del giornale mettevano in discussione l’idea che proprio il «Progresso» potesse essere il collante non tanto di quella sorta di eterogenea ‘armata Brancaleone’ che Occhetto definì come «gioiosa macchina da guerra», quanto delle diverse anime della «Sinistra». Chiamato a intervenire al dibattito, Luciano Canfora volle però uscire dal coro, e proprio per questo intitolò il proprio contributo Perché non possiamo non dirci progressisti. Forse per ridimensionare la portata della velata critica di Canfora, il testo fu pubblicato con un titolo differente e quantomeno meno diretto (Poteri in campo, il rimosso ricorrente), e l’antichista non mancò di protestare sulle pagine del «Corriere della Sera» per la velata censura, che aveva di fatto oscurato il punto chiave del suo ragionamento. Un ragionamento che non riguardava tanto il significato politico del termine «progresso», quanto la congiuntura storica che l’Italia si trovava a vivere in quel momento. Secondo Canfora si era infatti dinanzi a un’emergenza costituzionale che andava presa sul serio, e che richiedeva che tutte le forze democratiche e ‘progressiste’ si unissero contro il pericolo di una vittoria della coalizione di destra, capeggiata da Forza Italia e dal suo leader. In pericolo, scriveva infatti lo studioso, era la sorte stessa della Costituzione del 1948: «Giacché non è in gioco soltanto la conquista della maggioranza parlamentare. Come ben dice Bossi nella sua rozzezza, è in gioco l'assetto stesso della Repubblica. Il fronte della destra intende cancellare la Costituzione della nostra Repubblica (e perciò pretende a gran voce una ‘seconda’ Repubblica). E intende cancellare proprio quel che di ‘progressista’ è sancito in essa. Ci sono postulati, nei ‘Principi generali’ e nella ‘Prima parte’ della Costituzione, che fanno a pugni col vento iper liberista e ultracapitalista che spira oggi dal fronte Lega Berlusconi. L’articolo 3 sulla necessità di promuovere l'uguaglianza non solo formale dei cittadini, l'articolo 42 sulla priorità della utilità sociale sulla proprietà privata, l'articolo 11 che sancisce il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (già violato ai tempi di Cocciolone). E sono solo alcuni esempi. La nostra Costituzione, varata, non dimentichiamolo, quando ormai, il 18 aprile '48, lo schieramento moderato aveva conseguito la maggioranza assoluta, è tuttavia il miglior frutto dell'incontro tra le forze progressiste e popolari: divise da una dialettica politica anche aspra ma unite, allora, su quei “principi fondamentali”. Principi che potrebbero raccogliersi sotto il binomio “Giustizia e Libertà”, che riassume in sé il contenuto dell'antifascismo. […] Chi oggi arriccia il naso sul concetto di “progressismo” insegue farfalle sotto l' arco di Tito mentre la nuova destra dà l'assalto a quanto resta della “democrazia progressiva”» (Perché dirsi progressisti, in «Corriere della Sera», 3 febbraio 1994, p. 37).

Il dibattito di quei giorni non era certo il primo che si aprisse sul significato del concetto di «sinistra», perché fin dall'inizio del decennio precedente molti interventi – più o meno polemici – avevano iniziato a ripensare la dicotomia destra-sinistra, spingendosi talvolta anche a suggerirne la definitiva archiviazione. A partire dal 1994 quel dibattito doveva però assumere una nuova colorazione, sia perché ciò che rimaneva del vecchio armamentario identitario ereditato dal Partito Comunista appariva sempre più fragile, sia perché i principali eredi di quel partito sposavano con entusiasmo i principi di fondo del nuovo corso liberale e liberista. In altre parole, doveva risultare piuttosto chiaro che a dividere la ‘vecchia’ sinistra dalla ‘nuova’ esisteva un solco ben più profondo di quello che la continuità nella leadership e nelle strutture partitiche potesse suggerire: un solco tanto profondo da far sospettare che del cuore originario della sinistra non esistesse più neppure una pallida traccia. In qualche misura, però, la presenza di un avversario così impetuoso come Silvio Berlusconi doveva mettere la sordina a queste discussioni, fornendo una soluzione politica ‘obbligata’ a tutte i ragionamenti sull’identità perduta della sinistra, o sull’esistenza di qualche valore ‘originariamente’ connotato come patrimonio della sinistra.
Intervenendo proprio in questa discussione, Marco Revelli scrisse alla metà degli anni Novanta che, in realtà, nell’Italia della Seconda Repubblica non esistevano due sinistre, una moderata e un’altra radicale, bensì «due destre»: ciò significava in sostanza, che, a dispetto del nome, il Partito Democratico della Sinistra e l’aggregazione elettorale dell’Ulivo non erano altro che una declinazione della destra liberista. Ma la lettura di Revelli non doveva per questo sfociare in una celebrazione della Sinistra novecentesca, o di ciò che ne restava. Negli anni seguenti egli avrebbe infatti scavato in profondità, mostrando come anche l’ideologia del movimento operaio nel corso del Novecento avesse attinto a piene mani all’immaginario del Progresso, un immaginario centrato sul mito dell’homo faber e sulla incondizionata fiducia nella sua capacità di creare continuo sviluppo economico, sociale, politico. Lungo questo percorso teorico – che si snoda attraverso testi come Le due destre (Bollati Boringhieri, Torino, 1996), La sinistra sociale (Bollati Boringhieri, Torino, 1997), Oltre il Novecento (Einaudi, Torino, 2001), La politica perduta (Einaudi, Torino, 2003), Finale di partito (Einaudi, Torino, 2013) – Revelli è naturalmente tornato in più occasioni a chiedersi quale sia il destino della «sinistra», e se quel concetto, al di là dell’eredità storica, conservi anche ancora qualche significato e qualche potenzialità politica nel XXI secolo. E questa stessa domanda in qualche modo sta anche dietro due volumetti pubblicati negli ultimi mesi da Revelli, Post-sinistra. Cosa resta della politica in un mondo globalizzato (la Repubblica – Laterza, pp. 136, euro 5.90), e «La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi» (Vero!), Laterza, pp. 96, euro 9.00).
In quest’ultimo libro, Revelli si concentra in particolare sulla condizioni di ciò che Norberto Bobbio considerava come specifico dell’identità della sinistra, ossia il valore dell’eguaglianza. In effetti Revelli cerca di capire quali siano stati gli effetti prodotti dalle politiche neoliberiste sul terreno delle diseguaglianze sociali, e in particolare considera la validità della teoria del trickle-down, secondo cui politiche fiscali che avvantaggiano i settori più agiati della popolazione avrebbero effetti positivi sull’intera società, perché i benefici ‘sgocciolerebbero’ dall’alto verso il basso, anche cioè verso gli strati sociali meno abbienti e meno garantiti. Accanto a questa tesi generale, Revelli considera però soprattutto due ipotesi che hanno goduto negli ultimi trent’anni di un certo seguito in ambito politico ed economico: la prima – sintetizzata dalla ‘curva di Laeffer’ – sostiene che l’aumento delle tasse oltre una certa soglia risulta controproducente per l’intera economia nazionale oltre che per gli stessi governi nazionali; la seconda – ricondotta invece alla curva di Kuznets – sostiene invece che un accelerato sviluppo economico produce, in un primo momento, un aumento delle diseguaglianze, per poi invece innescare un certo livellamento.
Rispondere alla seconda domanda non è così semplice, perché misurare la diseguaglianza e le sue variazioni è quantomeno complesso. Ciò nondimeno, scrive Revelli, la curva della povertà sembra «relativamente anelastica, in quanto la forte diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza finisce per neutralizzare i benefici dello sviluppo e per bloccare ‘in alto’ le risorse aggiuntive» (p. 58). Molto più semplice è invece smentire la ‘curva Laeffer’, perché l’alleggerimento del carico fiscale (in particolare del carico posto sugli strati sociali a più alto reddito) non è stato accompagnato da una riduzione della spesa pubblica, quanto da una modificazione della sua struttura, con un consistente aumento del debito pubblico, cui è poi seguito anche l’aumento del debito privato. Ciò si è tradotto in uno strabiliante aumento delle diseguaglianze. Un processo che per esempio ha portato gli 85 grandi multimiliardari globali a detenere una ricchezza pari a quella posseduta dai 3 miliardi della popolazione più povera del pianeta. E che ha condotto una minoranza pari all’1% della popolazione mondiale a detenere una ricchezza pari a 110.000 miliardi di dollari, equivalente a sessantacinque volte le risorse detenute dalla metà più povera della popolazione mondiale.
L’aumento delle diseguaglianze – un processo su cui negli ultimi hanno attirato l’attenzione osservatori di provenienza molto diversa, come, per fare qualche nome, Joseph Stiglitz, Luciano Gallino e Vittorio E. Parsi – ha ovviamente un riflesso piuttosto diretto sul terreno politico, su cui Revelli si sofferma nelle pagine di Post-sinistra. In questo pamphlet, Revelli si trova per molti versi a riprendere e aggiornare le tesi svolte alcuni anni fa in Sinistra-destra. L’identità smarrita (Laterza, Roma – Bari, 2006). In sostanza, l’idea di fondo è che la dicotomia Destra-Sinistra sia messa in crisi da una serie di processi strutturali che investono le nostre società e che dissolvono le stesse basi materiali di ciò che abbiamo a lungo definito come «spazio pubblico». La rivoluzione spaziale della globalizzazione e la contrazione temporale dello spazio cancellano progressivamente la dimensione su cui la politica si era incardinata. Come scrive Revelli a questo proposito: «A franare è la politica come l’avevamo conosciuta fino a ieri, non solo con i propri soggetti e i propri ‘valori’, ma con le sue forme, le sue istituzioni, i suoi principi costitutivi, i suoi codici di legittimazione, i suoi modelli di relazioni, insomma con tutto ciò che costituisce il moderno ‘concetto di politico’. E non solo. La frana si tira dietro anche le più recenti conquiste che hanno caratterizzato la modernità compiuta: la democrazia rappresentativa, l’universalità dei diritti e la sua efficacia, il principio di legalità come condizione di legittimazione del potere» (pp. 43-44).
I sintomi della grande ‘frana’ che Revelli indica sono numerosi, e peraltro difficilmente contestabili nella loro portata. Innanzitutto, proprio l’aumento delle diseguaglianza, o quantomeno l’esaurimento dell’eguaglianza politica come destino: «Appare ormai chiaro quanto grave e profondo sia il vulnus inferto al principio di eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso. Essa infatti non si limita a mettere in discussione solo l’‘eguaglianza materiale’ o ‘economica’ o, appunto, ‘sociale’, ma giunge ad aggredire il livello dell’eguaglianza formale, il set di diritti ‘civili’ e ‘politici’ costitutivi della sfera giuridico-politica moderna e, a tutti gli effetti, fondanti del progetto politico moderno» (p. 49). In secondo luogo, la fine della politica è testimoniata dalla «deriva oligarchica» della democrazia contemporanea: mentre il paradigma egualitario perde la propria forza, prende forma una «oligarchia onnipotente», situata «fuori dai luoghi (al di sopra di essi) e all’incrocio dei flussi (nei loro punti nodali), di cui non fanno parte, evidentemente, solo le élite economiche e finanziarie, ma anche, con gradi diversi di rilevanza, una parte consistente della classe politica di governo, anch’essa sempre meno ‘localizzata’ e sempre più legata da sistemi di relazione reticolari transterritoriali» (p. 50). Ma, insieme a questi processi, la crisi della politica è anche palesata dalla metamorfosi della rappresentanza politica, della possibilità di fissare l’ubi consistam del rapporto fra mandanti e mandatari. E – naturalmente – dalla trasformazione dello spazio politico in uno spazio interamente mediatico, ossia dall’«assorbimento quasi senza residui dello spazio tradizionale della politica dentro lo spazio elettronico dei media» (p. 59). Le conseguenze di questo processo sono in effetti radicali, agli occhi di Revelli: «In questo modo, nel nuovo spazio politico come spazio mediatico, mentre la rappresentanza politica (di mandare) si ritira fin quasi a ridursi a un simulacro, la rappresentazione celebra il proprio trionfo: si totalizza. Il processo appare distorto, se non addirittura rovesciato: non procede più, come all’origine della politica moderna, dal privato verso il pubblico, ma – ormai compiutamente – dal privato al privato. E non permette una qualche forma, sia pur traslata, di emancipazione, ma conferma e certifica lo stato di alienazione che ogni spettacolo determina rispetto alla vita vissuta dei propri spettatori. […] L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo che agisce appare in questo: che i suoi stessi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. È per questa ragione che lo spettatore non si sente chez lui da nessuna parte, perché lo spettacolo è ovunque» (p. 64).
Il pessimismo che affiora dalle pagine di entrambi i volumi di Revelli, forse più che dagli elementi che affollano il quadro, è restituito dagli elementi che mancano. E in questa assenza forse è ravvisabile la principale novità nel percorso di Revelli. Benché in molti dei suoi precedenti lavori non avesse certo esitato a toccare la corda del pessimismo, spesso – quantomeno come nota di speranza conclusiva – Revelli non mancava di evocare qualche possibilità di cambiamento. Quando descriveva le derive politiche del Postfordismo, negli anni Novanta, non rinunciava per esempio a delineare i tratti di una nuova sinistra «sociale», capace di andare oltre lo statalismo della ‘vecchia’ sinistra e di fronteggiare così con nuove armi l’avanzare delle «due destre». In Oltre il Novecento, pronunciando il proprio addio alla sinistra novecentesca, alle iconografie del produttivismo industrialista e al mito dell’Organizzazione politica, Revelli evocava sul finire del proprio percorso i contorni della nuova figura del «Volontario», capace di dare un nuovo senso all’attività politica. E anche nel più recente Finale di partito si poteva riconoscere – proprio nelle pagine conclusive – qualche segnale di pur tiepida speranza, sulla possibilità di costruire una politica e una democrazia oltre i partiti novecenteschi. Nei due ultimi volumetti sembra invece mancare persino il più timido accenno a un’alternativa possibile alla deriva contemporanea. Forse si tratta soltanto di una conseguenza non del tutto volontaria, dovuta alla collocazione editoriale dei due libretti. Ma probabilmente dietro questa assenza c’è di più, forse addirittura la consapevolezza che la parabola storica della sinistra – di quello che è stata nella storia occidentale la sinistra, nelle sue mille declinazioni – si è ormai irrimediabilmente conclusa. E per quanto tutti i tentativi che Revelli compiva nei suoi libri precedenti rompessero con alcune delle coordinate di quella tradizione, essi in realtà rimanevano per molti versi interni a quell’universo, o quantomeno non ne mettevano in questione alcuni pilastri. Ma le conseguenze della “rivoluzione spaziale” sembrerebbero indurre ora Revelli a prendere atto del definitivo esaurimento di una tradizione, e lo stesso titolo Post-Sinistra può forse essere letto come testimonianza della volontà di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle l’eredità della sinistra e di entrare fino in fondo nell’era del «post».
Nei prossimi anni potremo capire se questo commiato sia solo un episodico, o persino solo retorico. Ma è indiscutibile che questa sorta di rassegnazione (teorica) di Revelli alla «deriva oligarchica» e alla tendenza anti-egualitaria trovi un riflesso nella rassegnazione (politica) di buona parte di quell’elettorato che, un po’ enfaticamente, veniva sino a qualche tempo fa definito come il «popolo della sinistra». È infatti piuttosto evidente come negli ultimi cinque anni – dal 2009, quando l’impatto della crisi finanziaria arriva in Europa, fino al 2014, passando per la caduta del governo Berlusconi, la nascita del governo Monti e le vicende alterne delle «larghe intese» - si sia consumato quel poco che rimaneva dell’immaginario e dell’identità della sinistra italiana. Gli ultimi residui dell’egualitarismo e i frammenti superstiti di un’ideologia che assegnava al conflitto sociale una funzione positiva si sono dissolti. Quel vuoto è stato solo molto parzialmente colmato  da ciò che resta del progressismo, di cui Canfora nel 1994 si faceva ancora convinto alfiere, ma che nel frattempo è diventato tanto generico da risolversi quasi invariabilmente solo in una generica estetica del cambiamento. Probabilmente, quel vuoto si è semplicemente tradotto in una sorta di fatalismo postmoderno. Un nichilismo radicale che impedisce di credere davvero in qualsiasi cosa. Ma che talvolta può può persino accendere un effimero entusiasmo. Perché – si sa – quando ormai non si crede più in niente, prima o poi si può finire col credere a tutto.
Damiano Palano