di Damiano Palano
In un tempo ormai lontano, che nel ricordo si tinge talvolta dei colori della nostalgia, esisteva l’«intellettuale di sinistra». Non si trattava soltanto di un’etichetta volta a contrassegnare una componente del mondo culturale italiano, anche perché non esistevano gruppi speculari sul versante di destra oppure al centro dello schieramento politico (al massimo c’erano talvolta intellettuali «irregolari», che non avevano rapporti organici e stabili con formazioni partitiche). E non si trattava neppure di un’etichetta destinata a indicare studiosi votati a fornire al movimento operaio – mediante la ricerca teorica – gli strumenti dell’azione politica. L’«intellettuale di sinistra», in altre parole, era tale non tanto per ciò che scriveva o faceva nel proprio specifico campo – fosse la narrativa, il cinema, il teatro, la canzone, l’architettura – quanto per la sua vicinanza (più o meno esplicitamente dichiarata) alla causa del Partito Comunista Italiano. Paradossalmente, ciò che facevano e scrivevano nella pratica questi intellettuali poteva essere persino privo di sostanziali connessioni con l’impostazione ideologica del Pci, e solo nelle rappresentazioni più edulcorate questi operatori della cultura si limitavano ad applicare le direttive definite dal Partito. D’altronde, le provocazioni e le diversioni erano di fatto consentite, sempre che non assumessero la forma di un dissenso organizzato. Ciò che era importante era che quegli intellettuali, in prossimità delle scadenze elettorali, tornassero a schierarsi disciplinatamente sotto le insegne del Partito, e che offrissero una rappresentazione del sostegno del «mondo della cultura» al «cambiamento del Paese». I motivi che consentirono al Pci di conquistare quella che spesso viene definita come un’«egemonia culturale» (certo molto diversa da quella cui pensava Gramsci) furono molti. Gli storici continuano ancora oggi a interrogarsi su quel fenomeno, che ha davvero pochi eguali nel mondo (non solo occidentale), ma è davvero molto difficile negare che qualcosa di simile a un’«egemonia» esistesse effettivamente. Un’egemonia forse più sentimentale che politica, che comunque fece sì che anche una parte di intellettuali che poco avevano a che spartire con la causa del comunismo (e, va da sé, col marxismo) finissero con l’iscriversi – per conformismo, per convinzione, per opportunismo – allo schieramento degli intellettuali di sinistra, nella convinzione che il Pci fosse l’unico reale, credibile, responsabile attore capace di ‘modernizzare’ l’Italia, sotto il profilo politico, economico, culturale e morale.
Che in tutto questo vi fosse qualcosa di paradossale è piuttosto evidente, ma, al di là di ogni dibattito sulle matrici e sui vizi di un simile quadro, è chiaro che oggi non esiste più neppure l’ombra di quel mondo, che cominciò a dissolversi già nella seconda metà degli anni Settanta e che si polverizzò definitivamente negli anni Ottanta. Non esiste più alcun rapporto organico fra intellettuali e partiti (anche perché i partiti di fatto in Italia non esistono più) e non esistono più gli intellettuali come «gruppo», internamente articolato ma compatto nella sua collocazione. Ma, naturalmente, anche oggi esistono degli intellettuali di sinistra, e soprattutto il cosiddetto «popolo della sinistra» continua ad avere alcuni punti di riferimento (seppur sempre più sbiaditi). E anche se è difficile ricostruirne le coordinate ideologiche e teoriche, una buona esemplificazione si trova nelle opere narrative di Walter Veltroni, oltre che nelle sue fatiche saggistiche, in cui si trova condensato molto di quello stile di pensiero che negli ultimi mesi è diventato familiare a molti come «renzismo». Per chi fosse interessato a decifrare il codice genetico di questa galassia – che in verità, più che l’espressione di un mondo organizzato, appare spesso come una sorta di magmatica mucillagine intellettuale – una fonte estremamente preziosa è senza dubbio il romanzo-saggio-autobiografia di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, Torino, 2013), libro pluri-premiato, le cui fortune – largamente anticipate dagli ambienti letterari – hanno in qualche modo accompagnato in parallelo l’ascesa al potere dell’attuale Presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Il titolo del libro di Piccolo – che può apparire in parte enigmatico – è in realtà una citazione di Natalia Ginzburg, posta dall’autore a epigrafe del volume: «Ora noi possiamo sentirci, in mezzo alla comunità, soli e diversi, ma il desiderio di rassomigliare ai nostri simili e il desiderio di condividere il più possibile il destino comune è qualcosa che dobbiamo custodire nel corso della nostra esistenza e che se si spegne è male. Di diversità e solitudine, e di desiderio di essere come tutti, è fatta la nostra infelicità e tuttavia sentiamo che tale infelicità forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai». Per molti versi, la citazione di Ginzburg rimane la cosa migliore dell’intero volume, che – adottando un registro variabile – è difficilmente collocabile all’interno di uno specifico genere letterario. Costruito da Piccolo come un’autobiografia, nel libro l’autore accosta la propria formazione personale alle vicende della politica italiana dell’ultimo quarantennio. Proprio per il messaggio politico che scaturisce dalle sue pagine, il testo, più che un vero e proprio romanzo, può essere considerato come un saggio politico. Un saggio costruito – come vuole lo Zeitgeist – senza alcun riguardo per l’argomentazione logica, ma grazie all’accostamento analogico di situazioni, di scene sentimentali, eventi politici, e all’utilizzo di materiali della culturale popolare (strategia in cui Veltroni era maestro e che Renzi sfrutta certo con minore eleganza ma forse con più efficacia). E, soprattutto, un saggio che punta in una direzione precisa.
Il momento iniziale del racconto-saggio di Piccolo è costituito dal gol di Jürgen Sparwasser, il centravanti della Germania Est, che decide le sorti dello scontro diretto contro la Repubblica Federale, ai mondiali del 1974. Proprio quel momento – ed è questa la trovata più simpatica del volume – decide il destino futuro del protagonista, il quale decide di diventare «comunista», e cioè di schierarsi dalla parte del Partito Comunista Italiano guidato da Enrico Berlinguer: «il 22 giugno 1974, al settantesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista» (p. 33), scrive Piccolo, anche se, per la verità, al lettore non è consentito di capire cosa implichi davvero la scelta del protagonista, il quale non si iscriverà mai al Pci, non svolgerà mai alcuna attività politica, se non – da ciò che è dato capire – quella consistente nel seguire la fidanzatina, ai tempi del liceo, ad alcune riunioni di un gruppo studentesco di estrema sinistra. D’altronde – ed è questo, si badi, l’elemento più significativo del racconto di Piccolo – la vicinanza del protagonista alla sinistra si svolge tutta in un mondo interiore, del tutto immaginario, che non ha di fatto alcuna connessione con la realtà. Nella vita reale, il giovane Piccolo appare infatti impegnato in attività del tutto prive di qualsiasi connotazione politica, e le sue energie sembrano dedicate quasi interamente alla partecipazione a «feste», la cui evocazione ricorre ossessivamente nella prima parte della narrazione. Ciò nondimeno, il protagonista Piccolo instaura un forte rapporto emotivo con la figura di Berlinguer, nella quale proietta un ideale di purezza, non solo politica. Il Piccolo-narratore trova però una simmetria tra la purezza ricercata dal protagonista e il reale Berlinguer, quello che, dopo il fallimento del compromesso storico, getta sul piatto la «questione morale» e innesca un confronto-scontro con il Psi di Bettino Craxi. Viene così ricostruita la vicenda del referendum sulla scala mobile, voluto da Berlinguer proprio per rispondere a un attacco che considerava personale, e che segnò per molti versi la definitiva sconfitta del Partito Comunista. Di lì a poco, Berlinguer sarebbe scomparso e il Pci – privo di qualsiasi bussola e preda delle faide interne – sarebbe sopravvissuto in uno stato quasi letargico fino alla fine degli anni Ottanta. Ma c’è un episodio che Piccolo ricorda in particolare, quello dei fischi a Berlinguer in occasione del Congresso socialista di Verona del 1984.
Allora, quei fischi parvero a Piccolo un incredibile affronto a un uomo politico indiscutibile, e quell’affronto diventa addirittura l’episodio che innesca una totale identificazione: «L’11 maggio 1984, nel momento in cui è entrato nel palazzetto dello sport di Verona, e tutto il pubblico ha cominciato a fischiare, io sono diventato Enrico Berlinguer. È stato il momento esatto in cui il mio sentimento pubblico e il mio sentimento privato, che in quei mesi di scontro avevano aderito ogni giorno, sono balzati via da me per infilarsi dentro lo sguardo perduto del segretario del mio partito – che stava davanti a quella gente con la stessa incapacità di organizzare un’espressione che avevo avuto io davanti a Elena che strappava la carta da regalo; ha sentito che mi riguardava così tanto, mi faceva soffrire così tanto, richiamava così precisamente il dolore mio personale, che non ci poteva essere più nessuna distanza tra me e lui; guardavo il suo viso teso, sperduto, e sentivo che con lui c’ero anch’io, anche se non ero lì» (pp. 131-132). E quello stesso episodio – in particolare, la dichiarazione con cui Craxi affermava di non essersi unito ai fischi solo perché non era in grado di fischiare – muta anche l’atteggiamento nei confronti del leader socialista: «Tutto quello che è venuto dopo, e che riguarda Craxi e il suo disfacimento personale e politico, non mi ha più toccato nel profondo; certo, mi sono indignato come quasi tutti gli italiani, mi è stato chiaro che i modi di fare politica erano inaccettabili – ma nulla di tutto questo mi ha davvero più toccato. Il mio rapporto con Craxi, di simpatia o antipatia, di speranza per un’alleanza tra socialisti e comunisti, e il resto che (non) ne conseguì, è finito nell’attimo in cui ha detto, studiando così bene le pause, che non aveva fischiato anche lui soltanto perché non sapeva fischiare» (p. 134-135).
Se la rievocazione di questo episodio e la ricostruzione delle più minute ripercussioni che esso ebbe sul Piccolo-protagonista possono persino risultare sconcertanti per qualche lettore, è evidente che il senso di questa insistenza emerge chiaramente con lo sviluppo del racconto. I fischi a Berlinguer e il suo funerale, così come la famosa intervista sulla questione morale, diventavano il simbolo della «purezza». «Nella sostanza le caratteristiche erano diventate due: essere diversi dagli altri – in un modo che è possibile definire: la purezza; frenare il forsennato ammodernamento della società – un atto che è impossibile non definire: la reazionarietà» (p. 139). E questo secondo elemento già fa trapelare un giudizio politico non da poco, perché in fondo Piccolo riconosce che allora aveva ragione Craxi e che Berlinguer era dalla parte sbagliata della storia. In altre parole, Berlinguer aveva scelto la strada della «purezza», e per rimanere «puro» il Pci aveva rinunciato a fare politica, al contrario del Psi di Craxi. In sostanza, secondo il ragionamento di Piccolo, con la sconfitta del compromesso storico, la sinistra italiana (o almeno quella rappresentata dal Pci), aveva scelto di mantenere un’idea di «purezza» anche se questa implicava necessariamente la sconfitta politica, e – oltre tutto – aveva da quel momento visto nella sconfitta una conferma della propria «purezza». Come scrive il narratore al termine della prima parte, in un passaggio fondamentale del suo saggio in forma di romanzo: «La questione definitiva della sinistra alla quale mi sentivo di appartenere senza alcun dubbio, fu questa: Craxi rappresentava un’innovazione troppo cinica, disinvolta, corruttibile, poco oggettiva e famelica; di conseguenza – e questa è stata una transizione di pensiero del tutto decisiva per la storia della sinistra italiana – fu l’innovazione stessa a significare cinismo, disinvoltura, corruttibilità, famelicità. La sinistra si ritirava per sempre, e con assoluta convinzione – sicura di stare dalla parte della ragione – dal proposito del progresso per trasformarsi in forza reazionaria. Dall’entrata mancata nel governo e dal rapimento di Moro, nasce un’idea di purezza – interpretata come un destino – che non morirà più. Quello che Moro aveva temuto, si verifica alla lettera: il Pci diventa interlocutore esterno della realtà. Ma quello che Moro indicava come un pericoloso punto di forza, diventa una condanna alla marginalità, alla sconfitta. È qui che sta il grande cambiamento: della vittoria non importava più nulla; bisognava soltanto segnare una volta e per sempre una linea di demarcazione, un’idea definitiva di diversità; bisognava sfilarsi dalla vita pubblica reale e rappresentare un’alternativa astratta, pulita, arroccata. Un’alternativa pura» (pp. 154-155).
La caduta del governo Prodi, invece di rappresentare un nuovo lutto, diventa per Piccolo il momento di una vera liberazione, di una svolta anche individuale, perché rompe davvero con quell’immagine di «purezza» con cui aveva convissuto dal tempo dei fischi a Berlinguer e, prima ancora, dal momento del gol di Sparwasser. Il protagonista del romanzo-saggio decide di sposare la propria compagna, denominata con la formula «Chesaramai», per la capacità di sdrammatizzare eventi all’apparenza gravissimi. Ma, soprattutto, inizia a vedere le cose in modo diverso, si arrende finalmente alla «forza delle cose». E alla fine – anzi molto presto – scopre che ci si trova benissimo a navigare insieme a quella «forza delle cose», che tutto sommato fregarsene dei grandi problemi del mondo e della «purezza» era scritto fin dalle origini nel suo Dna.
Nel Conformista di Moravia il protagonista lottava tutta la vita per reprimere la propria diversità, cercava in ogni modo di confondersi nella massa, diventando un piccolo-borghese, un convinto fascista, addirittura un agente dell’Ovra. Ma alla fine doveva soccombere, e quando il fascismo crollava, riemergeva ciò che era sempre stato. Nel libro di Piccolo, il percorso è esattamente l’opposto. Il protagonista cerca di reprimere in ogni modo il proprio conformismo, il «desiderio di essere come tutti», trovando in Sparwasser, in Berlinguer, nel Pci, nell’antiberlusconismo dei simboli di «purezza» da seguire. Ma alla fine – e non è forse casuale che il libro venga concepito e sia pubblicato nel momento in cui Silvio Berlusconi esce sostanzialmente dal proscenio della politica italiana – anche in questo caso riemerge tutto ciò si era tentato di reprimere. Finalmente libero da ogni fantasma di purezza, il protagonista può finalmente esplodere nel classico, godereccio «checcefrega». Può rivendicare così con orgoglio la propria vorace superficialità, il proprio menefreghismo, l’ingorda piccola felicità domestica, il proprio inguaribile familismo amorale. Il Robert Redford che in Come eravamo dice a Barbra Streisand, il giorno della morte di Roosevelt, che tutto ciò accade nel mondo «non accade a te personalmente», diventa un piccolo inno a profittare delle piccole gioie della vita, a disinteressandoci del nostro vicino, ad arraffare ogni piccolo possibile godimento, dimenticando ogni ‘grande causa’ e ogni nobile ideale. Come scrive Piccolo nelle pagine conclusive: «La superficialità ha diritto di esistere, quanto la profondità. La vita politica, la vita contemplativa e la vita dedita ai piaceri sono sempre esistite contemporaneamente, e la capacità di farle convivere è il compito di ogni individuo e di ogni comunità. […] La sinistra, mi pare, ha imparato a conoscere a fondo i grandi problemi di questo Paese (senza peraltro che questa conoscenza bastasse a risolverli); mentre è geneticamente maldisposta verso un’altra parte di Paese, preponderante per costume e forza, superficiale, spensierata. Ed è così geneticamente maldisposta, che non sa nemmeno più che Paese è. Finora questa lacuna era stata combattuta dicendo: stanno dall’altra parte del confine, non ci riguardano. Ma poiché questo è un solo Paese; poiché la Storia ha insegnato che la corresponsabilità degli accadimenti è di coloro che vincono e di coloro che perdono, anche se non in parti uguali; poiché probabilmente in ognuno di noi al di qua del confine c’è una percentuale di superficialità, di spensieratezza e anche di mostruosità – che siamo sicuri di non avere, ma che abbiamo – è bene oltrepassarlo questo confine e andare a capire di là chi c’è, come si ragiona, cosa si fa. Portando il proprio sapere, i propri ragionamenti, le proprie soluzioni» (pp. 255-256).
È molto difficile immaginare oggi cosa penseranno i posteri di un saggio come quello di Piccolo, e soprattutto è difficile come riusciranno a spiegarsi il successo che gli è stato tributato dal mondo culturale italiano, o quantomeno da ciò che ne rimane ancora. Ma forse nelle pagine di Piccolo – in cui i più malevoli lettori potrebbero divertirsi a ritrovare svariate centinaia di frasi fatte, oltre che le più fruste banalità che da almeno un trentennio circolano nel «sinistrese» italiano – si può trovare davvero il segno di un grande mutamento culturale, contemporaneo ovviamente alla svolta compiuta a livello politico al principio del 2014. Il libro di Piccolo, al di là dei meriti letterari (che il futuro giudicherà più saggiamente di quanto oggi si possa fare), offre infatti la testimonianza di un viaggio sentimentale comune a una parte consistente di ciò che sono diventati gli «intellettuali di sinistra» nel corso dell’ultimo trentennio, ed è probabilmente questo dato che può contribuire a spiegare il successo del libro. Quella formidabile esaltazione della «superficialità» - che certo trova la sua più efficace esemplificazione nella ricostruzione della recente storia italiana compiuta da Piccolo – è infatti un punto di approdo in cui molti si possono riconoscere, liberandosi con soddisfazione dei fardelli del passato. In altre parole, il libro di Piccolo è davvero l’ultimo capitolo di una mutazione genetica che conduce il vecchio «intellettuale di sinistra» a spogliarsi della propria diversità e a indossare finalmente i panni dell’«italiano medio» tante volte impersonato da Alberto Sordi: un personaggio senza dubbio simpatico, ma soprattutto ingordo, addirittura vorace nel soddisfare i propri ancestrali appetiti, dimentico di ogni causa collettiva, ma sempre ossessivamente impegnato a soddisfare il proprio «particulare», e, va da sé, a cogliere l’attimo fuggente dei più effimeri piaceri materiali.
In questa metamorfosi ben poco rimane della vecchia convinzione di stare – nonostante tutto, nonostante le difficoltà, gli errori, le crisi, le sconfitte – dalla parte giusta della Storia. Nel senso che la Storia smarrisce ovviamente ogni residua teleologia, per diventare semplicemente ciò che accade, o per identificarsi addirittura – come scrive Piccolo – con la «forza delle cose». Una «forza delle cose» che non si coincide con nulla di preciso, ma che comunque è bene assecondare, adagiandosi nella corrente e lasciandosi trasportare. Forse a qualcuno il libro di Piccolo sembrerà per questo una sorta di legittimazione della vecchia, vecchissima tradizione nazionale dei «voltagabbana», sempre pronti a capire in quale direzione tira il vento e ad aggiustare il tiro, assecondando i potenti di turno. Ma in verità si tratta di qualcosa di più. È il punto terminale (e coerente) di un nichilismo integrale. Un nichilismo che, rifiutando ogni teleologia e abbandonando qualsiasi tensione etica, si limita a riconoscere che l’unica realtà è quella che accade. E che non esiste alcuna alternativa, né lontana né vicina, all’impetuosa, trascinante, irresistibile «forza delle cose».
Damiano Palano