Questa recensione è apparsa su "Avvenire" del primo agosto 2014
Molti anni fa Bernard Baruch, consigliere economico di presidenti americani come Woodrow Wilson e Franklin D. Roosevelt, invitava gli elettori a votare “per l’uomo che promette di meno, perché sarà quello vi deluderà di meno”. Naturalmente ben pochi elettori hanno seguito il suo invito, e ancora meno politici si sono attenuti alle sue indicazioni. Nel tentativo di ottenere il favore popolare, chiunque aspiri a conquistare una carica pubblica non può infatti evitare di alimentare le aspettative degli elettori e di accendere le loro speranze. E proprio per questo ogni candidato tende a promettere molto più di quanto sia possibile mantenere.
Se risulta incisa nel codice genetico della democrazia, la disillusione è però diventata nell’ultimo ventennio una sorta di autentico “Zeitgeist”. Benché l’opinione pubblica esprima un sostegno pressoché incondizionato nei confronti dei principi democratici, l’atteggiamento nei confronti dei governanti è infatti ovunque assai meno lusinghiero. E in tutte le democrazie occidentali i politici vengono percepiti dai cittadini come avidi, corrotti, egoisti e incompetenti. Nel suo volume In difesa della politica. Perché credere nella democrazia oggi (Il Mulino, pp. 280, euro 20.00), Matthew Flinders cerca di portare alla luce le radici più profonde dell’odierno “malessere” democratico. E si concentra così su una serie di processi inevitabilmente complessi, come il declino della deferenza nei confronti delle autorità, il sovraccarico di domande indirizzate ai governi, l’offuscamento dell’ideologia, la crescita della globalizzazione e l’impatto del mutamento tecnologico. Fra gli elementi su cui Flinders attira l’attenzione ci sono soprattutto due grandi tendenze davvero cruciali. In primo luogo, il politologo sottolinea le conseguenze dirompenti di quella che definisce come la “democrazia del monitoraggio”: una democrazia in cui il ceto politico è costantemente sottoposto alla sorveglianza da parte dei cittadini e della stampa. Se in teoria questo meccanismo consente che i governanti siano responsabili dinanzi agli elettori, la sua esasperazione rischia di condurre al collasso, perché l’annullamento della distanza tra politici e cittadini di fatto finisce col minare l’efficienza di qualsiasi organizzazione. In secondo luogo, Flinders si rivolge verso il ruolo che svolgono i media nel diffondere il cinismo e la diffidenza. D’altronde, è proprio contro la logica che guida oggi la gran parte dell’informazione che lo studioso britannico indirizza la propria polemica. Per vendere copie e spazi pubblicitari, la stampa non si limita infatti ad amplificare episodi insignificanti, dichiarazioni pubbliche di scarsa rilevanza o veri e propri pettegolezzi, ma consolida anche la cultura del disprezzo nei confronti della politica: una cultura secondo cui chi si impegna in politica può essere spinto solo dal proprio tornaconto o dal proprio egocentrismo.
Il libro di Flinders deve davvero essere considerato come un antidoto alla “politica del cinismo” e come un’accorata perorazione a sostegno di una “politica dell’ottimismo”. Il politologo si colloca d’altronde nel solco tracciato da Bernard Crick più di mezzo secolo fa, nel 1962, con la sua appassionata Difesa della politica. Ma l’ottimismo di cui si fa alfiere Flinders non va confuso con l’ingenuità o con un entusiasmo un po’ velleitario. D’altronde, difendere la politica significa oggi anche riconoscerne realisticamente i limiti. E, dunque, diffidare di tutte le soluzioni palingenetiche che scaldano le campagne elettorali, ma che, all’indomani del voto, rischiano di lasciare il posto alla disillusione, se non addirittura al risentimento.
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