di Damiano Palano
Questa recensione a Byung-Chul Han, La società della trasparenza (nottetempo, Roma, 2014) è apparsa con il titolo Con la globalizzazione la trasparenza non è più una virtù, su «Avvenire» del 2 agosto 2014.
“Il segreto”, ha scritto Elias Canetti, “sta nel nucleo più interno del potere”. E proprio per questo il pensiero democratico ha sempre rivendicato la necessità di strappare il velo che occulta gli arcana imperii. Un secolo fa la richiesta riguardava soprattutto la politica estera e dunque i patti segreti che gli Stati siglavano all’insaputa dell’opinione pubblica. Oggi l’imperativo della ‘trasparenza’ investe anche la politica interna. E così si chiede che ogni trattativa si svolga alla luce del sole, che si possa conoscere ogni dettaglio della vita degli uomini di Stato, o che persino le conversazioni più private – e spesso assai poco rilevanti – vengano portate a conoscenza del pubblico. Ma, a ben vedere, l’obbligo della ‘trasparenza’ non riguarda più solo la politica o l’economia, perché investe persino la nostra quotidianità, quando ci invita a rinunciare alla nostra sfera privata e a pubblicare costantemente sui social media le nostre immagini e i nostri più fugaci stati d’animo.
Un potente attacco a questo mito viene ora dal filosofo sud-coerano Byung-Chul Han, che nel suo La società della trasparenza (nottetempo, pp. 94, euro 11.00) si scaglia con forza contro l’ideologia che ci induce a esibire la nostra vita più intima. Alla base della spasmodica ricerca di trasparenza, secondo il filosofo, sta principalmente la convinzione secondo cui, solo eliminando le barriere che ci separano dall’Altro, possa emergere la “verità” di ciascun essere umano. In questo modo, “tutti gli spazi riservati in cui ritirarsi sono eliminati in nome della trasparenza”. Con la stessa logica della pornografia, la società della trasparenza ‘esibisce’ però facce che sono in realtà ‘nude’, private del tutto della loro personalità, in uno sterminato mercato nel quale le intimità sono esposte, comprate e consumate. Portando alla luce i sentimenti più intimi e gli stati emotivi, si ritiene di rendere trasparente l’anima, di metterla a nudo. E ciascuno di noi – come in un enorme Panopticon digitale – è indotto dunque a esibire se stesso, non sulla base di una costrizione esterna, ma per effetto di un bisogno auto-indotto che lo spinge a mostrare la propria ‘verità’. Ma ovviamente la trasparenza e l’esposizione quotidiana dell’intimità non possono condurre alla scoperta di alcuna verità.
“Trasparenza e verità”, scrive infatti Byung-Chul Han, “non sono identiche”. L’intimità distrugge la distanza e, dunque, annulla le stesse condizioni dell’alterità. Ma soprattutto, osserva, nella società della trasparenza manca del tutto la luce proveniente dalla trascendenza, l’unica luce davvero in grado di ‘rischiarare’. Così, “l’iper-informazione e l’ipoercomunicazione non gettano alcuna luce nella tenebra”. E l’assoluta trasparenza non può allora con coincidere con un vuoto di senso che la massa di notizie non può colmare. Lo straordinario accumulo di informazioni della nostra società tecnologica non sarà infatti mai in grado produrre una verità. Ma si limiterà a restituire ogni volta il vuoto. Perché in fondo solo il vuoto è davvero trasparente.
Damiano Palano