di Damiano Palano Questa recensione al volume di Pierre Manent, Le metamorfosi della città. Saggio sulla dinamica dell’Occidente (Rubbettino, a cura di Giulio De Ligio, pp. 496, euro 29.00), è apparsa su "Avvenire" del 18 luglio 2014.
Cento anni dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale la nazione torna oggi ancora una volta sul banco degli imputati. Nella discussione sul futuro del processo di integrazione del Vecchio continente le appartenenze nazionali sono infatti spesso considerate come il retaggio di egoismi ormai anacronistici, e dunque come ostacoli alla nascita di un’autentica identità europea. Se certo questa lettura coglie alcuni aspetti delle tensioni che vive oggi l’Ue, è però facile riconoscere alla base di un simile ragionamento un fraintendimento sostanziale. La “nazione” viene in questo caso fatta coincidere interamente con il “nazionalismo”, e cioè con un specifica ideologia politica. In diverse occasioni Pierre Manent, allievo di Raymond Aron e tra i più originali intellettuali francesi di oggi, ha messo invece in guardia contro questa equiparazione.
Nel suo In difesa della nazione (2008) ha per esempio criticato la convinzione che le appartenenze consolidate da secoli di storia possano essere rapidamente superate, e che dunque l’Europa unita possa essere costruita ‘scavalcando’ le identità nazionali. Proprio le domande sull’assetto futuro della costruzione europea hanno però suggerito a Manent quesiti ancora più radicali, che l’hanno indotto a volgersi al passato. I frutti di questa approfondita interrogazione sono accolti in Le metamorfosi della città. Saggio sulla dinamica dell’Occidente (Rubbettino, pp. 496, euro 29.00), un testo nel quale vengono per molti versi a confluire i risultati di un’intera vita studi.
In questo denso lavoro Manent, tra i fondatori dell’Accademia cattolica di Francia, si interroga sulle tre forme politiche principali che l’Occidente ha conosciuto nel corso della sua storia: la città, l’impero e la Chiesa. Manent non intende però la “forma” semplicemente come l’assetto organizzativo di cui una comunità si serve per raggiungere degli obiettivi. L’affascinante indagine dell’intellettuale francese, come osserva il curatore Giulio De Ligio, è infatti un tentativo di comprendere le diverse risposte che l’esperienza occidentale ha fornito alla domanda “cosa è il comune?”. Nella prospettiva di Manent il “comune” non è infatti un dato originario, una caratteristica che scaturisce per esempio da un’omogeneità culturale o etnica, ma corrisponde piuttosto alla produzione di un ordine all’interno del quale gli esseri umani possono condurre la loro vita. E la “forma” è proprio la cornice capace di produrre una nuova forma di vita, la vita politica. Nella polis greca, la forma politica originaria, gli uomini non trovano così soltanto uno strumento, una ‘macchina politica’ con cui conseguire potenza o ricchezza, ma scoprono soprattutto una nuova realtà nella quale possono autogovernarsi (e imparare a farlo).
Non è così affatto sorprendente che lo studioso si volga soprattutto alla scienza politica degli antichi, capace di comprendere come la città sia il contesto in grado di “mettere in forma” la vita umana e di far apparire il “comune”. Al contrario, la scienza politica dei moderni concepisce il soggetto come una realtà che si costituisce senza alcun riferimento alla legge politica e a quella religiosa. Così intende lo Stato solo come lo strumento capace di garantire la sopravvivenza e la sicurezza dell’individuo, e non più come la “forma” capace di produrre quella “cosa comune” che gli uomini sono chiamati a governare. Ma in questo stesso vizio originario si può ritrovare per Manent anche la causa dell’“atonia politica e morale” che contrassegna le società europee. Come scrive infatti nella prefazione all’edizione italiana, “l’Europa si sforza oggi di vivere senza far posto alle due leggi – repubblicana e cristiana – che facevano parte della sua composizione”. E ciò comporta ben più di un banale inconveniente. Perché staccarsi dalla legge “tende a paralizzare l’azione, a farne deperire i motivi”. Damiano Palano
di Damiano Palano In un museo della storia del pensiero politico occidentale una delle sezioni principali sarebbe senz’altro occupata dalle celebri visioni di repubbliche ideali. In questa galleria avrebbero infatti un posto d’onore la polis prefigurata da Platone, l’isola di Utopia disegnata da Tommaso Moro e la democrazia cittadina vagheggiata da Jean-Jacques Rousseau. Molto probabilmente alla gran parte dei progetti di ordinamento politico elaborati nel corso dei secoli da sognatori, congiurati e polemisti non spetterebbe però neppure una minuscola menzione. E le migliaia di bozze di costituzioni cadute nell’oblio prima ancora di essere discusse finirebbero così accatastate nei sotterranei, insieme ai loro meriti e alle loro bizzarrie. È per molti versi proprio dai polverosi depositi di questo museo immaginario che oggi viene riportato alla luce il Progetto di costituzione confederale europea ed interna (Aragno, pp. 207, euro 12.00), scritto da Duccio Galimberti e Antonino Rèpaci fra il 1942 e il 1943. Di pochi mesi successivo al ben più famoso Manifesto di Ventotene redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, quel documento fu concepito dai due giovani intellettuali antifascisti come un contributo alla discussione sul futuro assetto democratico. E, soprattutto, come un tentativo di superare lo Stato nazionale, considerato la causa primaria dei conflitti che laceravano l’Europa. La discussione e la stesura del testo dovettero però arrestarsi con la caduta del fascismo. Il lavoro comune ebbe termine infatti l’8 settembre 1943, quando l’armistizio indusse i due intellettuali piemontesi ad accantonare la riflessione per entrare attivamente nella lotta partigiana. Ma toccò al solo Rèpaci, all’indomani del conflitto, dare alle stampe il Progetto e rievocare il “sogno europeo”, concepito in un momento in cui il Vecchio continente si trovava dinanzi a “una questione di vita o di morte”. Divenuto comandante delle brigate “Giustizia e Libertà”, nel dicembre 1944 Galimberti era stato infatti catturato dalle truppe della Repubblica Sociale e abbattuto con una raffica di mitra. A suggerire di sottrarre alla polvere la vecchia proposta di costituzione, sprofondata da allora nell’oblio, non è soltanto l’intento di riscoprire un tassello dimenticato del pensiero europeista. Come mostrano i preziosi commenti al testo di Luigi Bonanate, Lorenzo Ornaghi e Gustavo Zagrebelsky, ci sono infatti anche altri motivi per rileggere oggi il Progetto di Galimberti e Rèpaci. Uno di questi è per esempio l’inversione, operata dai due autori, del rapporto fra gli Stati nazionali e la dimensione sovranazionale. Il primo articolo – che, come segnala Bonanate, rende il testo davvero originale e precoce – recita infatti: «Il continente europeo è costituito in unità politico-giuridica in forma di Confederazione». In tal modo la Confederazione risulta dotata di una piena sovranità, mentre ai singoli Stati spetta solo un’autonomia interna. E corollari di questa impostazione sono sia l’abbandono del principio di non ingerenza negli affari interni, sia la rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale. Ovviamente il Progetto di costituzione riflette il contesto teorico e politico in cui venne concepito. E anche per questo nei suoi centosettantadue articoli non mancano affatto le ingenuità, gli equivoci e persino alcuni anacronismi piuttosto singolari (come per esempio la conservazione delle colonie e il divieto di costituzione di partiti politici). Ma forse il merito principale del “sogno” di Galimberti e Rèpaci va rinvenuto, come sottolinea Ornaghi, nella “visione” del ruolo politico di una Costituzione. E cioè nell’idea che una Costituzione – anche oggi – possa innescare “processi politici nuovi, tali da far lasciare alle spalle quel crinale ‘di vita e di morte’ lungo cui l’Europa continua a procedere affannosamente, senza più le speranze e le idee, ma anche senza le sofferte convinzioni e il coraggio, di ieri”. Damiano Palano