lunedì 30 giugno 2014

La resa dei partiti: Londra 1911. "Partitocrazia" di Hilaire Belloc e Cecil E. Chesterton



di Damiano Palano


Questa recensione al volume  di Hilaire Belloc e Cecil E. Chesterton, Partitocrazia, a cura di Pietro Federico (Rubbettino, pp. 180, euro 12.00), è apparsa su "Avvenire" di venerd' 27 giugno 2014.

Nonostante sia esplosa soprattutto nell’ultimo ventennio, la critica ai partiti ha accompagnato in Italia l’intera storia repubblicana. Lo stesso termine “partitocrazia” venne infatti coniato probabilmente già nel 1944, e da quel momento entrò stabilmente nel lessico politico. Nella loro polemica i critici del nuovo sistema sostenevano – non senza ragioni – che l’ingresso sulla scena dei grandi partiti di massa avesse alterato sostanzialmente la logica del sistema rappresentativo. E se talvolta rimpiangevano i tempi della rappresentanza individuale, spesso rintracciavano nel sistema britannico, fondato sul collegio uninominale e su un saldo bipartitismo, i tratti di un modello virtuoso, capace di opporsi alle tendenze più deleterie della ‘democrazia dei partiti’. L’immagine di Westminster che tornava in quelle analisi era però quantomeno idealizzata. A ben guardare, infatti, anche il Parlamento britannico non era immune da molte degenerazioni. E da questo punto di vista è molto interessante rileggere oggi Partitocrazia, un saggio scritto nel 1911 da Hilaire Belloc e Cecil E. Chesterton, ora tradotto per la prima volta in italiano (a cura di Pietro Federico, Rubbettino, pp. 180, euro 12.00). Il pamphlet nasceva dall’esperienza di deputato liberale di Belloc. Eletto alla Camera dei Comuni nel 1906, Belloc aveva avuto modo di conoscere in prima persona le dinamiche del sistema politico. E proprio la disillusione lo indusse a scrivere insieme a Chesterton (il fratello minore di Gilbert K.) un vibrante attacco contro il “sistema dei partiti”. 
La loro critica in sostanza puntava a mettere in luce come le riforme che avevano esteso il diritto di voto non avessero affatto concesso maggior potere al popolo. Al contrario, in Parlamento si era formata una vera e propria oligarchia, cui si poteva accedere solo per cooptazione. Le motivazioni storiche erano soprattutto due. In primo luogo, il passaggio al sistema del “governo di gabinetto” aveva condotto a una sorta di ‘fusione’ del potere legislativo con il potere esecutivo. E per questo il governo riusciva di fatto a tenere in pugno il Parlamento, riducendo notevolmente l’autonomia dei singoli deputati. In secondo luogo, a livello sociale lo scontro fra grandi proprietari terrieri e nuovi ceti mercantili si era concluso con la vittoria di questi ultimi. Venute meno le basi del vecchio dualismo di tories e whigs, si era allora formata “una plutocrazia non più divisa ma unita”, che deteneva tutto il potere politico ed economico. Dietro la facciata di un apparente bipartitismo si celava così nella realtà un’unica “corporazione oligarchica”, tenuta insieme da interessi comuni e legami di parentela.
Più che verso i partiti, la polemica di Belloc e Chesterton si indirizzava dunque verso gli effetti che la concentrazione della ricchezza aveva prodotto sul sistema britannico. E d’altronde proprio per contrastare la formazione di oligopoli privati e promuovere la piccola proprietà, Belloc teorizzò il “distributismo”, una visione economica ispirata alla dottrina sociale cattolica. Oltre a fornire una formidabile descrizione della realtà del “party system” britannico dei primi del Novecento, il volumetto può servire anche per accostarsi alla odierna crisi dei partiti. Belloc e Chesterton prendevano in effetti in considerazione molti degli strumenti che anche oggi sono indicati come possibili correttivi, dalla modifica del sistema elettorale all’introduzione delle primarie. Ma non cedevano alla seduzione delle soluzioni semplicistiche. Ai loro occhi il primo passo verso ogni riforma rimaneva infatti solo  una reale “educazione politica alla democrazia”. E così – con un monito che dopo un secolo conserva tutta la propria forza – nelle pagine conclusive scrivevano: “qualsiasi cambiamento del sistema politico rimarrà senza effetto o addirittura impossibile, se la coscienza politica del popolo non verrà risvegliata tanto da far prevalere la sua volontà”.

Damiano Palano

lunedì 23 giugno 2014

Usa. Il declino può attendere. Un volume di Josef Joffe



di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa su "Avvenire" di venerdì 20 giugno 2014.

Il 4 ottobre 1957 l’Unione Sovietica lanciò nello spazio lo Sputnik. Il viaggio del piccolo satellite durò meno di due mesi, ma ebbe effetti dirompenti sull’opinione pubblica americana. A partire da quel momento gli Stati Uniti si percepirono infatti come molto più vulnerabili. Nonostante l’Urss non disponesse di un arsenale così insidioso per la sicurezza americana, la necessità di colmare il ‘gap missilistico’ con Mosca divenne una sorta di ossessione. E, soprattutto, molti osservatori iniziarono a ritenere che fosse incominciato il declino dell’America. Un declino che peraltro non nasceva tanto dalla competizione col rivale sovietico, quanto da fattori interni, come la crisi dell’economia, le lacerazioni sociali e l’esplosione di un nuovo disagio giovanile, per indicare il quale proprio in quei mesi – in assonanza con il nome del satellite sovietico – fu coniata la formula beatnik.
A distanza di più di mezzo secolo è piuttosto semplice liquidare come eccessivi quegli allarmi. Ed è in fondo proprio questa l’operazione che compie Josef Joffe nel suo recente Perché l’America non fallirà. Politica, economia e mezzo secolo di false profezie (Utet, pp. 273, euro 16.00).
In effetti Joffe riconosce come la retorica del declino sia una costante della recente storia americana, tanto che ne individua addirittura cinque stagioni. Dopo gli allarmi innescati dal lancio dello Sputnik, l’incubo del declino tornò infatti ad aleggiare altre quattro volte: alla fine degli anni Sessanta, sull’onda della guerra del Vietnam e della contestazione giovanile; alla fine del decennio seguente, nella fase terminale della presidenza Carter; alla metà degli anni Ottanta, quando l’economia americana sembrava destinata a soccombere dinanzi all’ascesa giapponese; e infine, naturalmente, dopo la grande crisi finanziaria del 2008. Joffe non si limita però a mostrare gli errori delle vecchie previsioni. Piuttosto, considera il “declinismo” come una sorta di “profezia che si autosmentisce” e che ha fin dall’inizio un obiettivo politico. In altre parole, il “declinismo” è una risorsa retorica utilizzata da quegli attori politici che puntano a presentarsi come capaci di invertire la rotta, come per esempio John F. Kennedy, Ronald Reagan e Barack Obama.
Naturalmente la critica al “declinismo” non riguarda solo il passato. Perché, secondo Joffe, anche le analisi che sostengono che il sistema internazionale è già oggi diventato “apolare” o “multipolare” enfatizzano tendenze i cui esiti futuri sono tutt’altro che scontati. Considerare per esempio solo i tassi di crescita economica della Cina o dei nuovi paesi emergenti non è infatti sufficiente per affermare che gli Stati Uniti non sono più – o non saranno nei prossimi anni – il centro della politica mondiale. Insieme al potere effettivo (economico, militare e tecnologico), per trasformare uno Stato in una superpotenza globale contano infatti anche le risorse immateriali. Sono così proprio queste risorse che inducono Joffe a sostenere che il sistema ha oggi una struttura “uni-multipolare” e che gli Stati Uniti sono ancora percepiti da buona parte del mondo come la nazione ‘indispensabile’, l’unica superpotenza capace di garantire il funzionamento dell’ordine internazionale liberale.
Benché il “declinismo” sia davvero, come sostiene Joffe, una formidabile risorsa teorica, ciò non significa però che gli Stati Uniti non siano esposti oggi alla tendenza di un declino relativo. O che, quantomeno, non debbano prendere sul serio questo scenario. Anche se, naturalmente, sarebbe quantomeno semplicistico attendersi che il declino americano debba replicare le sequenze che condussero al tramonto le grandi potenze del passato.

Damiano Palano

In nome del popolo italiano? Ripensare il «cinema civile» a partire da un volume curato da Guido Vitiello



di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica

A pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, nel 2013 ci hanno lasciato Damiano Damiani e Carlo Lizzani, due grandi registi italiani che hanno posto un’impronta indelebile su quel genere che è stato spesso definito sbrigativamente come «cinema civile», «cinema di denuncia» o addirittura «cinema politico». Che simili etichette risultino quantomeno fuorvianti, o almeno semplicistiche, diventa però immediatamente evidente appena si incominci a scorrere la filmografia di questi due registi, la cui produzione fatica a essere contenuta all’interno di ben precise coordinate, oltre che di un genere nettamente circoscritto. Proprio per mettere in discussione le interpretazioni più schematiche è molto utile il volume, curato da Guido Vitiello, In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano (Rubbettino, pp. 177, euro 17.00), i cui contributi tentano di ricostruire i diversi modi in cui i registi del nostro paese hanno rappresentato il mondo giudiziario, a partire dalla commedia fino ad arrivare alle fiction televisive più recenti. 
Sebbene l’arco temporale considerato sia molto vasto, e nonostante i generi esaminati siano tra loro differenti, è quasi scontato che l’attenzione si diriga soprattutto a quel cinema che, fra gli anni Sessanta e Settanta, si concentrò sul rapporto problematico tra potere e giustizia. E in questo senso Andrea Minuz, soffermandosi in modo specifico su due film come Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy (1972) e In nome del popolo italiano di Dino Risi (1971), mette giustamente in discussione la stessa formula «cinema politico». Se non altro perché a quell’etichetta venne ricondotta una produzione quantomeno eterogenea, che comprendeva per esempio i film di Francesco Rosi, di Elio Petri, di Giuliano Montaldo e dello stesso Damiani: «Politici, insomma, vennero definiti film assai diversi tra loro ma accomunati da una volontà accusatoria che poteva contare sull’appoggio del pubblico (specie del pubblico progressista) in nome, va da sé, di una comune, radicata diffidenza per le istituzioni e di una cultura del sospetto verso lo Stato che in quel decennio, sulla scia delle stragi e degli attentati, andava inevitabilmente radicalizzandosi» (A. Minuz, Giustizia, cinema politico e ideologia italiana, ivi, p. 66). In altre parole, più che da elementi formali o da una effettiva prossimità ideologica, ad accomunare tutti quei prodotti era più che altro la percezione del pubblico, che vi scorgeva soprattutto gli intenti accusatori, e in special modo la volontà di mettere sotto inchiesta l’utilizzo degli apparati dello Stato (i tribunali e il carcere prima di tutti) come strumenti di difesa dei poteri costituiti. Quei film potevano dunque essere considerati come appartenenti a un filone unitario soprattutto perché riflettevano fedelmente la politicizzazione della società italiana e, dunque, il mutamento nei gusti di un pubblico che richiedeva e mostrava di apprezzare pellicole che affrontavano esplicitamente temi politici. 
D’altronde non mancarono incursioni in questo terreno anche da parte della vera e propria commedia all’italiana, e da questo punto di vista è forse proprio In nome del popolo italiano a sviluppare una lettura politica, che – sfuggendo però alle semplificazioni ideologiche – mette in luce alcuni dei tratti più originali del cinema civile italiano. Nel film di Risi il magistrato progressista interpretato da Ugo Tognazzi indaga sulla figura di un industriale spregiudicato e irrispettoso delle leggi, sospettato di avere ucciso una giovane accompagnatrice. Nella sagoma dell’industriale Santenocito – che nel film ha il volto di Vittorio Gassman – è facile oggi ritrovare l’anticipazione di un certo mondo imprenditoriale, ma anche nel giudice Bonifazi è possibile riconoscere una prefigurazione di una magistratura che si assume il compito politico di ‘purificare’ la società italiana dalla corruzione. Anche per questo In nome del popolo italiano è stato considerato come un profetico annuncio della tempesta di Tangentopoli, nonostante si tratti forse di qualcosa di più. Perché «più che anticipare Tangentopoli», scrive Minuz, «il film di Dino Risi suggella, dall’interno di una questione delicata come quella della giustizia, lo schiacciante primato dell’ideologia sulla istituzioni, della politica sullo Stato, quale motivo dominante della nostra storia nazionale; di un’ideologia italiana che in tal senso appare disponibile tanto a rovinose derive totalitarie quanto alle seduzioni degli eccessi egualitari» (p. 75). E così la sarabanda che Risi mette in scena nella sequenza finale del film – in cui il giudice, alle prese con la più difficile questione di coscienza, vede sfilare davanti a sé, in una sorta di sabba infernale, tutti i mostri dell’italianità più sguaiata, triviale e grottesca – finisce col prefigurare davvero una rappresentazione destinata a imporsi nel dibattito pubblico. Una rappresentazione che riflette, come osserva Minuz, «non tanto e non solo le mutazioni interne alla cultura della sinistra, quanto una radicale trasformazione della democrazia e dell’aspettativa politica della cittadinanza» (p. 80).
Le incursioni della commedia nel terreno del «cinema politico» sono d’altronde solo un piccolo esempio della politicizzazione che attraversa le pellicole in una stagione che rimane senza dubbio una delle più prolifiche e originali della cinematografia italiana. Ancor più frequenti furono d’altronde le incursioni compiute dal cinema di genere e, in particolare, da quei film che spesso vengono etichettati – non sempre generosamente – come «poliziotteschi». A ben vedere infatti, come osserva opportunamente Giovambattista Fatelli all’interno del volume, l’origine del poliziesco all’italiana è contrassegnata da una marcata contaminazione proprio con il «cinema politico». Ad anticipare le coordinate erano stati, già nella seconda metà degli anni Sessanta, alcuni film di Carlo Lizzani, come soprattutto Svegliati e uccidi (1967), ispirato alla vicenda di Luciano Lutring, e Banditi a Milano (1968), costruito invece quasi come una ricostruzione documentaristica della storia criminale della ‘banda Cavallero’. Ma non sono forse da dimenticare alcuni piccoli capolavori – come I ragazzi del massacro (1969) e Milano calibro 9 (1972) – con cui Fernando Di Leo, portando sullo schermo le ambientazioni dei noir di Giorgio Scerbanenco, delineava i contorni della nuova malavita metropolitana, prodotto dalla trasformazione della società italiana. Il vero avvio del genere, soprattutto dal punto di vista commerciale, può essere però considerato La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina, un film che in effetti mostrava ben più di qualche connessione con il «cinema politico», nella misura in cui iniziava a utilizzare l’idea di un ‘complotto’ ordito dietro le istituzioni (e contro di esse) da consorterie criminali e antidemocratiche. Questo stesso schema narrativo sarebbe stato in seguito ripreso e sviluppato da molte altre pellicole, come per esempio Milano trema: la polizia chiede giustizia (1973) di Sergio Martino, La polizia sta a guardare (1973) di Roberto Infascelli, La polizia interviene: ordine di uccidere (1975), Poliziotti violenti (1976) di Michele Massimo Tarantini. 
Nella maggior parte delle produzioni di questo filone della cinematografia degli Settanta sarebbe però prevalso nettamente l’altro elemento che il film di Vanzina prefigurava già, e cioè l’icona di un «commissario di ferro» in costante lotta – oltre che con una delinquenza sempre più spietata – anche con i vincoli del codice, con il garantismo dei giornalisti, con il controllo esercitato da un ceto politico spesso colluso con il mondo criminale. Su un simile binario si sarebbe così rapidamente consumata l’effimera parabola di gran parte del «poliziottesco», legata alle figure di ‘superpoliziotti’ impersonati da Maurizio Merli, Franco Gasparri o Luc Merenda, ed esemplificata da grandi successi commerciali come Roma violenta (1975) di Marino Girolami, Mark il poliziotto (1975) di Stelvio Massi o Napoli violenta (1976) di Umberto Lenzi. E in virtù dell’enfasi riservata ai «commissari di ferro» e ai loro metodi ben al di là del consentito. spesso il «poliziottesco» venne considerato come un genere che strizzava l’occhio alle destre, o quantomeno a quelle posizioni politiche che reclamavano una sterzata in senso autoritario, capace di arginare il disordine morale, sociale e politico. Si trattava certo di una lettura piuttosto semplicistica, ma Fatelli non pare però scartarla interamente, perché quei film, ai suoi occhi, sembrano effettivamente alludere a una sensibilità presente nella società italiana del tempo: «Non è una riflessione lucida, bensì una traccia sotterranea, la registrazione di uno stato d’animo confuso, un grido d’allarme per l’abbandono prematuro del buon senso, per lo scardinamento improvviso dei punti di riferimento tradizionali, per l’abrasione rapida del principio di responsabilità sociale e individuale, per la riduzione dell’uomo a modesto ingranaggio del progresso e della storia o fanatico esecutore delle ipotesi materialiste. Il ‘machismo’ dei loro personaggi palesa prima di tutto il fastidio per l’imperante dileggio del senso comune, dei concetti di onore, merito, lealtà e per i doveri connessi alla difesa della legge, al mantenimento dell’ordine e sicurezza (oggi in gran spolvero), tutti elementi che avrebbero dovuto essere ridimensionati per adattarli alla modernità (nella revisione delle norme come nell’amministrazione della giustizia, nell’ordinamento delle forze di polizia come nel trattamento carcerario) e invece sono stati scalpellati e frantumati con orrenda gioia» (p. 114).
Le difficoltà di ricondurre il «cinema politico» italiano a un’unica prospettiva, o magari a una ben precisa ideologia, sono comunque decisamente insormontabili a proposito della produzione di Damiano Damiani. Se infatti, per quanto riguarda Carlo Lizzani, la sua militanza – una militanza schierata fin dai primi anni della Repubblica al fianco del Partito comunista (Lizzani fu tra l’altro regista di alcuni documentari propagandistici alla fine degli anni Quaranta) – rende all’apparenza più facile piegare la sua filmografia all’interno di una lettura ‘ideologica’, un’operazione del genere diventa del tutto impraticabile per il regista friulano. Non solo perché Damiani sperimentò quasi ogni genere, spingendosi anche verso il western, con Quien sabe? (1967), e verso l’horror, con Amityville Possession (1982), ma forse soprattutto perché i suoi film puntavano, più che a ‘svelare’ la verità, a mettere in discussione il fatto stessa che la verità – un’unica verità – esistesse davvero. Se il suo celebre Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971) poteva per esempio suonare come un atto di denuncia contro la collusione fra politica, giustizia e mafia, il discorso si capovolgeva quasi completamente in Perché si uccide un magistrato (1975), in cui il regista Solaris, alter ego di Damiani, denunciando pubblicamente la corruzione di un magistrato anziano, finiva col deformare la realtà e col fornire una legittimazione a un omicidio con origini molto diverse. 
Osservato con attenzione, quello di Damiani, più che un cinema di denuncia,  appare piuttosto un cinema sulla diffidenza, sul sospetto, sull’indecifrabilità della verità, sui suoi utilizzi strumentali e sulle sue deformazioni. Perché effettivamente, come osserva Anton Giulio Mancino in un saggio molto interessante, «alla falsità soddisfatta e non abbastanza ‘schifata’», evocata dal capitano Bellodi del Giorno della civetta, «Damiani contrappone la falsificazione obbligatoria di ogni teorema euristico solitario ed egoista esteso bene o male alla collettività, in grado di produrre effetti incalcolabili, magari terribili: a partire dalle sentenze private fino a informare di sé la struttura politica dello Stato pronta a instillare il sentimento della vendetta in seno alle masse popolari per far dimenticare altri crimini» (A.G. Mancino, Una verità piuttosto complicata, ivi, p. 93).
Dopo aver vissuto la loro stagione di massimo fulgore attorno agli anni Settanta, le pellicole del «cinema civile» italiano scomparvero quasi completamente dalle sale. A determinare la decadenza di un piccolo ma fortunato genere fu probabilmente – insieme a mille altre componenti – la comprensibile reazione di rigetto alla iper-politicizzazione degli anni Settanta, una reazione che nel decennio seguente indusse molti dei nuovi autori a rivolgersi ai travagli intimistici e alle storie del tutto private di generazioni giovani e meno giovani. Quando al principio degli anni Novanta si tornò a riscoprire la carta dell’‘impegno’, sulla falsariga del cinema di Damiani, Lizzani, Petri, Rosi, quelle che scaturirono furono invece quasi invariabilmente pellicole segnate da una marcata vena didascalica e da uno schematismo manicheo che le rendevano abissalmente distanti dai vecchi modelli. D’altro canto, sebbene l’istanza della denuncia fosse all’apparenza la componente più evidente del «cinema civile», quei film – e soprattutto i più riusciti – erano molto più che un semplice attacco a un sistema di potere, o alle commistioni tra mafia e politica, perché costituivano piuttosto una sorta di esplorazione dentro i ‘misteri del potere’ e delle sue rappresentazioni. Film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica, Il sorriso del grande tentatore o Cadaveri eccellenti non si limitavano infatti a ‘svelare’ una realtà fatta di intrighi, di scandali e corruzione, perché, più in generale, portavano sullo schermo una sorta di labirinto: un labirinto che davvero somigliava molto al sistema politico italiano – in cui ogni scandalo finiva per essere occultato, in cui le trame parevano destinate a rimanere sempre invisibili, in cui ogni critica era invariabilmente insabbiata – ma che diventava anche una grande metafora dell’enigma del potere. 
Nei corridoi di quel labirinto era infatti inevitabile smarrirsi, perché dietro ogni angolo si scopriva sempre un nuovo motivo di diffidenza, se non addirittura un elemento capace di insinuare il dubbio che tutta la ricerca della verità non fosse stata fin dall’inizio altro che un inganno ben orchestrato. E che il labirinto stesso non fosse altro che una messinscena allestita per occultare una partita destinata a giocarsi altrove. 

Damiano Palano

lunedì 16 giugno 2014

L’Europa si divide a Francoforte. Jürgen Habermas contro Wolfgang Streeck


di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica

La storia della Scuola di Francoforte si concluse per molti versi nel 1968. Dinanzi alla contestazione studentesca i membri principali della Scuola assunsero infatti posizioni molto diverse. Se Marcuse divenne il riferimento principale degli studenti antiautoritari, Adorno non lesinò le critiche al metodo e alle stesse tesi dei contestatori. Ma soprattutto iniziò a venire meno la coerenza della prospettiva che, fin dalle origini, aveva contrassegnato la riflessione dei membri raccoltisi negli anni Venti attorno all’Istituto per la Ricerca Sociale (una coerenza che non era stata intaccata neppure dalle vicissitudini del lungo esilio). E fu proprio l’esponente principale della ‘seconda generazione’ della Scuola, Jürgen Habermas, a procedere più energicamente in questa direzione. Nella fase acuta della contestazione, il filosofo accusò infatti il movimento studentesco di adottare strumenti di azione politica che lo facevano assomigliare sempre di più a una sorta di «fascismo rosso». E anche per questo, se Marcuse e lo stesso Adorno rimasero un costante riferimento per i teorici anti-autoritari, Habermas divenne invece il bersaglio privilegiato di un consistente fuoco di critiche, tra cui spiccavano per molti versi quelle di Oskar Negt e di Hans-Jürgen Krahl. 
Alla base di quella divaricazione non stavano però soltanto motivazioni congiunturali o i giudizi sulle prospettive del movimento studentesco. La lacerazione – che di fatto era destinata a sancire la fine della Scuola – aveva un’origine più profonda. Polemizzando proprio contro il movimento studentesco, e contro i più giovani epigoni della ‘teoria critica’, Habermas prese infatti a sottolineare l’autonomia della dimensione comunicativa dalle forze produttive, e proprio percorrendo questo binario sarebbe arrivato a elaborare, negli anni Ottanta e Novanta, una teoria della democrazia deliberativa che nella discussione pubblica avrebbe trovato l’elemento qualificante. Naturalmente la rottura non stava tanto nell’enfasi assegnata alla dimensione culturale e comunicativa, perché tutti i teorici francofortesi avevano fin dal principio rivolto lo sguardo verso le dinamiche dell’«industria culturale». Il punto era però che tutti i grandi esponenti della scuola intesero l’«industria culturale» come un insieme di apparati la cui logica si trovava ad operare nel perimetro dell’assai ridotta autonomia consentita dal capitalismo. In altre parole, quell’autonomia di cui la cultura aveva goduto in passato era destinata a ridursi, schiacciata dalla logica della società del capitalismo di consumo, una società nella quale il soggetto non poteva che tramutarsi in un «uomo a una dimensione». Quando il movimento studentesco tedesco dunque si scagliava contro le istituzioni autoritarie e contro l’industria editoriale di Axel Springer, senza dubbio tendeva a imboccare un sentiero insidioso e politicamente infruttuoso, ma non faceva che sviluppare sul piano dell’azione concreta quei presupposti teorici che la Scuola aveva delineato. E, per molti versi, era piuttosto prevedibile che un pessimismo teorico così radicale dovesse politicamente indirizzare verso il vicolo cieco di una contrapposizione frontale con lo Stato.
Al contrario, Habermas – che pure aveva contribuito alla costruzione di questo quadro pessimista con Storia e critica dell’opinione pubblica, al principio degli anni Sessanta – doveva col tempo riconoscere un’autonomia crescente alla dimensione comunicativa, nella quale la discussione pubblica poteva effettivamente mostrare notevoli potenzialità nella società del capitalismo maturo. Proprio a seguito della ‘svolta linguistica’ compiuta da Habermas, l’ordito della ‘teoria critica’ della società, capace di tenere insieme marxismo e psicanalisi, non poteva però non sfilacciarsi. E così, persino per quegli studiosi che ancora oggi continuano a richiamarsi alla Scuola di Francoforte, la formula è diventata solo un riferimento generico a posizioni in realtà fra loro molto eterogenee, in cui l’eredità hegelo-marxista si trova affiancata a versioni più o meno radicali di post-modernismo filosofico. 
Nell’ultimo anno, la lontana divaricazione che sul finire degli anni Sessanta oppose Habermas ai giovani esponenti del movimento antiautoritario è però sorprendentemente riemersa. Nel dibattito sul futuro dell’Europa che in Germania ha opposto Habermas a sociologi come Claus Offe e, soprattutto, come Wolfang Streeck, non è infatti difficile riconoscere proprio le tracce di quella vecchia contrapposizione. La nuova querelle, innescata dalle Lezioni Adorno tenute da Streeck nel 2012 proprio presso il celebre istituto francofortese (Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013) coinvolge innanzitutto l’interpretazione dei problemi dell’Ue e le strategie possibili di soluzione. Auspicando una «Bretton Woods europea», Streeck sostiene infatti la necessità di tornare alle monete nazionali. Più in generale, alla base della contrapposizione sta però anche un diverso modo di guardare alla società e alle sue trasformazioni. Perché Streeck, rifacendosi all’eredità della Scuola e alla riflessione di Adorno, si concentra sulle tendenze ‘strutturali’ del capitalismo contemporaneo. E in questo senso si contrappone fatalmente alla prospettiva di Habermas, focalizzata invece da sempre sulla costruzione ‘deliberativa’ di una democrazia ‘postnazionale’. Non possono così passare inosservate le formule con cui Streeck – che si laureò a Francoforte nel 1972, e che ebbe modo di frequentare le lezioni sia di Adorno sia dell’allora giovane Habermas – si richiama ai fondamenti della Scuola e al suo radicale pessimismo. «I problemi possono presentare caratteristiche tali per cui non ci sono soluzioni, o comunque non attuabili qui e ora», scrive per esempio al principio di Tempo guadagnato. E non manca di osservare: «Se mi venisse chiesto, dove stia allora il mio contributo ‘positivo’, alla fine avrei ancora l’occasione di richiamarmi ad Adorno, la cui risposta – naturalmente espressa in termini più brillanti – sarebbe senza dubbio: e se di positivo non ci fosse nulla?» (p. 10). Ma, soprattutto, non può passare inosservato il fatto che Streeck – in neppure troppo implicita polemica con la ‘svolta linguistica’ compiuta da Habermas – torni a ribadire la centralità della dimensione ‘materiale’, delle tendenze ‘strutturali’ del capitalismo maturo che le ricerche francofortesi degli anni Sessanta e Settanta avevano tentato di ricostruire: «Anche nella ricerca teorica degli anni di Francoforte», scrive infatti Streeck, emerge con chiarezza quanto le conoscenze delle scienze sociali siano inevitabilmente legate al loro tempo. Nonostante ciò, o addirittura per questo, nell’occuparci degli avvenimenti contemporanei abbiamo la possibilità di ricorrere alle teorie della crisi del ‘tardo capitalismo’ degli anni settanta, e non solo perché oggi si riscopre e si rafferma ciò che per decenni è stato dimenticato e si è considerato come irrilevante: ossia che l’ordine economico e sociale delle democrazie ricche è ancora di tipo capitalistico, e perciò siamo in grado di comprenderlo, se mai questo è possibile, solo con l’aiuto della teoria del capitalismo. A posteriori, si riesce a capire ciò che allora non si poteva comprendere perché sembrava andare da sé, oppure perché non si voleva capire in quanto intralciava progetti di carattere politico. Il fatto che, nonostante tutti gli sforzi teorici, non si sia visto ciò che era più importante e non ci si sia accorti di ciò che si annunciava all’orizzonte serve tra l’altro a ricordare che la società ha davanti a sé un futuro aperto e che la storia è imprevedibile – una condizione di cui i sociologi moderni non hanno ancora piena consapevolezza» (pp. 10-11).
Nel corso dell’ultimo anno Habermas ha avuto modo di considerare in più occasioni la proposta di Streeck, e alcuni di questi interventi sono ora raccolti nel volumetto Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea (Laterza, pp. 112, euro 15.00). Il filosofo, che il 18 giugno 2014 compie ottantacinque anni, non risparmia certo le critiche al vecchio allievo. Per quanto condivida la diagnosi pessimista di Streeck sullo stato di salute del capitalismo democratico, respinge invece l’ipotesi di un ritorno agli Stati e alle monete nazionali come «un’opzione di nostalgica chiusura a riccio», perché la sovranità degli Stati nazionali è secondo Habermas poco più che un involucro vuoto: «Gli Stati nazionali custodiscono una sovranità da tempo svuotata. Evidentemente la loro capacità d’intervento politico non è più in grado di sottrarsi agli imperativi di un settore bancario ipertrofico e disfunzionale. Gli Stati che non si associano in organismi soprannazionali, e dispongono solo dello strumento dei trattati internazionali, falliscono miseramente di fronte alla sfida di rimettere questo settore in sintonia con i bisogni dell’economia reale e di ricondurlo a dimensioni funzionalmente adeguate» (p. 56). Ma Habermas – toccando davvero un nervo scoperto – mette in dubbio la credibilità della proposta di Streeck anche da un altro punto di vista: «alla fine del libro» – scrive infatti – «egli mostra simpatia per l’aggressività cieca di una resistenza autodistruttiva che ha rinunciato a sperare in una soluzione costruttiva. Ciò tradisce un certo scetticismo nei confronti del suo stesso appello a rafforzare quanto ancora resta delle prerogative nazionali. Alla luce di questa rassegnazione la proposta di una ‘Bretton Woods europea’ appare solo di facciata» (pp. 57-58). 
La soluzione, per Habermas, consiste piuttosto nel rafforzamento del processo di integrazione politica, e in particolare nell’irrobustimento dei meccanismi di legittimazione democratica dell’Ue. Più specificamente, Habermas indica la strada che potrebbe consentire di superare lo stallo in cui si trova oggi nella solidarietà civica: una solidarietà che richiederebbe alla Germania di farsi carico, nel breve e nel medio periodo, di una parte dei debiti dei Paesi del Sud. Una condizione indispensabile, per raggiungere questo obiettivo, sarebbe però relativa al modo con cui vengono prese le decisioni, e consisterebbe cioè in un rafforzamento del peso del Parlamento, rispetto a Consiglio e Commissione: «Così la formazione della volontà politica non dipenderebbe più soltanto dagli estenuanti compromessi tra rappresentanti di interessi che si bloccano a vicenda, ma anche, in pari misura, dalle decisioni a maggioranza di parlamentari eletti secondo preferenze di partito. Solo in un Parlamento europeo composto con partiti europei potrebbe prodursi una generalizzazione degli interessi che è trasversale [durchkreuzend] rispetto ai confini nazionali. Solo passando attraverso procedure parlamentari, una prospettiva europea generalizzata – il ‘noi’ dei cittadini della Ue – potrebbe rafforzarsi fino a diventare potere istituzionalizzato» (p. 61). Naturalmente Habermas non si nasconde gli ostacoli che si incontrano su questa strada. Ma, nonostante non sia incline al pessimismo radicale dei vecchi maestri francofortesi, ritiene che – se il Vecchio continente non proseguirà sul terreno di un’ulteriore integrazione politica – si condannerà all’irrilevanza nello scenario globale e a soffocare dentro la «spirale tecnocratica».
È per molti versi scontato che il dibattito tra Habermas e Streeck non sia destinato a rimanere confinato solo al terreno accademico. D’altronde, in ciascuna delle due prospettive le implicazioni politiche – e le stesse prese di posizione pro o contro l’Ue – occupano uno spazio probabilmente molto più significativo di quello riservato alle analisi puramente ‘teoriche’ (se poi è davvero legittimo operare una simile distinzione). Un simile dibattito traduce però in termini di riflessione politica una lacerazione che ha già preso forma negli ultimi anni e che probabilmente è destinata a diventare sempre più profonda nel prossimo futuro. Attorno al ruolo dell’Ue – e a ciò che può essere definito come il processo di costruzione dello Stato ‘post-nazionale’ europeo – la classica dicotomia di ‘destra’ e ‘sinistra’ ha iniziato infatti, più che a dissolversi, a ridefinirsi, perché la nascente frattura è destinata a dividere gli schieramenti esistenti tra ‘europeisti’ e ‘sovranisti’. Gli sviluppi futuri rimangono del tutto aperti, ed è solo una forma di pigrizia intellettuale quella che induce a rappresentare la vittoria del fronte ‘europeista’ come inevitabile, perché – come sempre – nello spazio del ‘possibile’ si trovano molte più varianti di quante gli alfieri del «non c’è alternativa» possano immaginare. Ma, al di là degli sviluppi di una simile contrapposizione, è difficile non ravvisare nelle due posizioni di Habermas e Streeck proprio alcuni dei tratti – o forse dei limiti – che da sempre hanno contrassegnato la riflessione della Scuola. 
La proposta di Habermas appare infatti sempre più simile a una fuga nell’utopia, dal momento che la prospettiva di una democrazia europea viene avanzata nella piena consapevolezza del fatto che oggi sulla scena europea non esiste alcuna forza politica disposta a sostenere gli sforzi che il filosofo indica come indispensabili per superare lo stallo, e al tempo stesso per evitare di rimanere stritolati nella «spirale tecnocratica». E, d’altronde, di quei partiti europei in grado di conquistare un reale potere decisionale, cui Habermas affida la missione di costruire un’Unione effettivamente dotata di legittimazione democratica, nel Parlamento di Strasburgo non sembra esistere neppure l’ombra più sbiadita. Ma, se la prospettiva di Habermas sembra scegliere l’opzione dello slancio utopico dinanzi a uno scenario in cui sembrano mancare segnali che autorizzino all’ottimismo, l’esito cui giunge Streeck non è dal punto di vista teorico in fondo molto diverso, benché opposto in termini politici. A ben vedere, infatti, la diagnosi che Streeck formula sulla crisi contemporanea ricalca davvero l’impronta originaria delle indagini francofortesi e, in special modo, di quella riflessione sulle contraddizioni strutturali del capitalismo maturo condotto tra gli anni Sessanta e Settanta da quei giovani studiosi che si richiamavano – più o meno esplicitamente – all’eredità dell’Istituto per la Ricerca Sociale. Quelle indagini – cui diedero contributi notevoli, oltre ad Habermas, ricercatori come Elmar Altvater, Joachim Hirsch e Claus Offe (per citare solo i più noti) – rifiutavano il ‘crollismo’ che aveva nutrito molte teorie della crisi negli Venti e Trenta, e inoltre riconoscevano un ruolo tutt’altro che residuale allo Stato, alle sue funzioni e alla sua autonomia (ovviamente sempre intesa in termini ‘relativi’, in quanto condizionata dalle basi strutturali del capitalismo postbellico). Ma nel quadro che delineavano quegli autori ciò che sembrava sempre mancare era la politica, intesa come l’insieme dei conflitti e dei soggetti che di volta in volta li attivavano. In altre parole, lo schema interpretativo costruito dal dibattito tedesco di quegli anni tendeva a restituire – quasi senza eccezioni – la rigidità degli schemi funzionalisti. E, così, seppure in forma certo assai più problematica, tendeva a riprodurre un’analisi inevitabilmente determinista, incapace di cogliere come l’insieme dei conflitti potesse incidere – oltre che sull’intensità delle domande –sulla stessa configurazione delle relazioni sociali e dei rapporti politici. Riprendendo quelle analisi oggi, a quattro decenni di distanza, Streeck ha ovviamente buon gioco nel portarne alla luce i vizi e nel segnalare come ciò che allora veniva reputato come un limite ‘invalicabile’ sia stato nel frattempo ampiamente superato. Ma la sua ricostruzione del passaggio dallo Stato fiscale, allo Stato debitore, allo Stato in via di consolidamento, mostra il proprio limite principale nell’assenza di un riferimento alla politica, ossia a quelle dimensioni politiche che vanno – o possono andare – a influire sulle ‘tendenze strutturali’. E proprio per questo l’immagine evocativa di una «Bretton Woods europea» rischia di apparire tanto poco realistica quanto la prospettiva di un’Europa democratica e post-nazionale difesa da Habermas. In effetti, non solo non è affatto chiaro quali siano i soggetti politici capaci di riorientare l’Ue verso un simile percorso. Ma, soprattutto, Streeck – nel momento in cui evoca la «Bretton Woods europea» – sembra per molti versi ritenere che una simile formula sia in grado di richiamare in vita quella autonomia (più o meno relativa) dello Stato di cui tutta la sua indagine sulla crisi quarantennale del capitalismo occidentale tende invece a certificare la morte. E proprio per questo è allora molto difficile sottrarsi alla sensazione che si tratti solo di uno stratagemma con cui mitigare il classico pessimismo francofortese. Perché, a ben vedere, lo slogan che chiama in causa una «Bretton Woods europea», sospeso nel vuoto di determinazione politica che percorre tutta l’indagine di Streeck, rischia davvero di risultare non troppo diversa da una paglietta sbarazzina poggiata da una mano irriverente sul testa di un cadavere.

Damiano Palano




sabato 7 giugno 2014

Quando il capitalismo inventò il tipo umano del "consumatore". Un libro di Cesare Silla



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Cesare Silla, Marketing e desiderio. Una genealogia del capitalismo di consumo (Carocci, pp. 207, euro 21.00), è apparsa in una forma leggermente diversa su "Avvenire" del 6 giugno 2014.

Sul finire del XIX secolo i padri della sociologia scoprivano improvvisamente nelle folle che assiepavano i viali delle metropoli occidentali i tratti di una nuova condizione emotiva. In quegli stessi anni la folla soggiogata dallo spettacolo dalle merci e dalle vetrine sfavillanti dei negozi alla moda diventava però l’oggetto di studio anche di una nuova ‘scienza’, che più tardi avrebbe assunto il nome di “marketing”. Proprio alla ricostruzione delle origini di questa disciplina è dedicato l’originale volume di Cesare Silla, Marketing e desiderio. Una genealogia del capitalismo di consumo (Carocci, pp. 207, euro 21.00). Alla base della ricerca sta una convinzione che attinge esplicitamente a Max Weber. Seguendo le orme del sociologo tedesco, Silla ritiene infatti che le trasformazioni economiche richiedano sempre modificazioni ‘culturali’. Così, anche la nascita del “capitalismo di consumo”, protagonista di buona parte del XX secolo, presuppone la formazione del “consumatore”: un tipo umano che instaura con le merci (e con il desiderio di consumo) un rapporto del tutto nuovo rispetto al passato. Con l’obiettivo di ricostruire la genealogia delle tecnologie che ‘fabbricano’ il consumatore, Silla si sposta ovviamente negli Stati Uniti, dove verso la fine dell’Ottocento inizia a svilupparsi una ‘scienza’ rivolta a organizzare in modo sistematico ogni singola tappa del processo di commercializzazione dei prodotti. Già nei decenni a cavallo tra i due secoli al di là dell’Oceano si punta infatti a rendere lo shopping un’esperienza emotiva. E si elaborano così le tecniche di allestimento delle vetrine e di disposizione delle merci nei grandi magazzini, si sfruttano le potenzialità persuasive delle immagini pubblicitarie e si costruiscono i “marchi” che rendono riconoscibili i prodotti. 
Ma, soprattutto, è già in questa fase che si sviluppano strategie – più o meno rudimentali – volte a far diventare la merce il simbolo di uno stile di vita e, dunque, uno strumento di identità per un individuo sempre più privo di stabili legami. Proprio grazie a questo carattere, il marketing può essere considerato da Silla come il canale attraverso cui si forma un nuovo tipo d’uomo. Per un verso, si tratta infatti di tecniche che devono ‘ascoltare’ il consumatore, intercettandone i desideri. Per l’altro, sono strategie che puntano a ‘educare’ al consumo, a stimolare i bisogni, a coltivare l’emergere di nuove necessità, a richiedere una progressiva ‘personalizzazione’ del prodotto, in cui l’individuo possa trovare una conferma alla propria identità. La potenziale capacità di consumo tende così a diventare sconfinata. Ma, soprattutto, il capitalismo del XX secolo può trovare le proprie basi più solide in un nuovo tipo umano: il “consumatore” vorace e volubile destinato a diventare il protagonista (quasi) incontrastato delle nostre società. 

Damiano Palano