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lunedì 19 maggio 2014

Una politica antipolitica. La sfida di Václav Havel




di Damiano Palano

Nel maggio 1984, quando il crollo dell’impero sovietico era ancora lontano, l’Università di Tolosa decise di conferire una Laurea Honoris Causa a Václav Havel. Il grande intellettuale ceco, che aveva pagato il suo impegno nel movimento Charta 77 con cinque anni di reclusione, naturalmente non poté lasciare il paese. E così non poté mai pronunciare il testo che aveva scritto in vista della cerimonia. A trent’anni esatti dalla stesura di quel documento, ripubblicato proprio in questi giorni (La politica dell’uomo, Castelvecchi, pp. 51, euro 7.50), non si può non rimanere sorpresi dalla profondità di una riflessione che non ha smarrito nulla della propria forza. Nella lezione risuonano senza dubbio l’insegnamento di Jan Patočka, il filosofo che più aveva influito sull’esperienza di Charta 77, e (almeno indirettamente) anche la critica alla deriva delle scienze europee pronunciata da Husserl. Il discorso di Havel non riflette infatti solo sulla realtà del regime totalitario, ma sviluppa una critica all’intero progetto della politica moderna e ai suoi fallimenti. I sistemi totalitari sono considerati da Havel solo come «uno specchio convesso delle inevitabili conseguente del razionalismo». Ed è per questo che l’esperimento drammatico di un potere totalizzante diventa un formidabile monito per l’intera civiltà occidentale. 
La scienza moderna ha infatti reciso la relazione con il «mondo vitale», ha cioè separato il soggetto dall’esperienza vissuta nel mondo. «La scienza moderna, nel costruire la sua immagine universalmente valida del mondo», osserva Havel, «distrugge i confini del mondo naturale, che può comprendere solo come una prigione di pregiudizi da cui dobbiamo evadere per raggiungere la luce della verità oggettivamente verificata. Il mondo naturale appare ad essa come un avanzo infelice dei nostri antenati, una fantasia della loro infantile immaturità. In tal modo, è indubbio, essa elimina, come mera Finzione, anche il fondamento più profondo del nostro mondo naturale; uccide Dio e prende il suo posto sul trono vacante, cosicché per l’avvenire sarà la scienza a stringere nelle proprie mani l’ordine dell’esistenza in qualità di unico, legittimo guardiano e ad essere l’unico, legittimo arbitro di tutta la verità che conta. Perché, dopotutto, è solo la scienza a ergersi al di sopra di tutte le verità soggettive dell’individuo, sostituendole con una verità superiore, sovraoggettiva e sovrapersonale, che sia veramente oggettiva e universale» (p. 15). Sviluppando questa prospettiva, Havel può riconoscere la medesima deformazione genetica anche alle origini della politica moderna. Sulle orme del filosofo ceco Václav Bělohradský, definisce infatti la politica moderna – costruita a partire da Machiavelli, in sostanziale simmetria con Galileo – come «tecnologia razionale del potere». Ma, proprio percorrendo questo binario, il potere diventa «anonimo e spersonalizzato». L’origine della politica moderna si colloca infatti nel momento in cui «la ragione umana comincia a ‘liberarsi’ dall’uomo in quanto tale, dalla sua esperienza personale, dalla coscienza personale e dalla responsabilità personale e, in tal modo, anche da ciò a cui, entro la cornice del mondo naturale, tutta la responsabilità si relaziona in modo esclusivo: il suo orizzonte. Così, come gli scienziati moderni separano il vero uomo dal soggetto dell’esperienza vissuta del mondo, allo stesso modo si comportano lo stato moderno e la politica moderna, e in maniera ancora più evidente» (p. 25). 
La più perfetta realizzazione di questa «tecnologia razionale del potere» si trova proprio nei sistemi totalitari. Ma la stessa logica – avverte Havel – si può riconoscere anche nei sistemi democratici occidentali, perché anche in questo caso il potere tende a tramutarsi in un potere anonimo e spersonalizzato. «Un politico moderno», in qualsiasi sistema, è infatti «trasparente: dietro la sua maschera giudiziosa e la sua dizione affettata, non c’è traccia dell’uomo radicato nell’ordine del mondo naturale e dai suoi amori, dalle sue passioni, dai suoi interessi, dalle sue opinioni personali, dal suo disprezzo, dal suo coraggio e dalla sua crudeltà. […] Se non intravediamo nulla dietro la maschera, sarà solo un tecnico del potere più o meno competente. Il sistema, l’ideologia, l’apparato ci hanno privato – tanto i governanti quanto i governati – della nostra coscienza, del nostro senso comune e del nostro linguaggio naturale e, in tal modo, della nostra vera umanità» (p. 27).
Il discorso svolto nella Politica dell’uomo costituisce naturalmente uno sviluppo del Potere dei senza potere, il formidabile pamphlet, scritto a ridosso dell’esperienza di Charta 77, in cui Havel ragionava sulla logica del post-totalitarismo (oltre che di ciò che già allora chiamava «post-democrazia»). Anche nella lezione del 1984 non rinuncia così a cercare un’alternativa al destino di una politica intesa solo come «tecnica razionale del potere». Ed è per questo che Havel indica la strada di una possibile resistenza in una paradossale «politica antipolitica». Ovviamente Havel non si riferisce a quell’insieme di retoriche demagogiche che per noi è diventato familiare chiamare «antipolitica». Con quella formula l’intellettuale ceco intende piuttosto «una politica dell’uomo e non dell’apparato». L’obiettivo della «politica antipolitica» è infatti la ricostruzione di una relazione con il Lebenswelt, con il «mondo vitale». Si tratta cioè di «ricostruire il mondo naturale come vero terreno», di «riabilitare l’esperienza personale degli uomini come misura prima delle cose», di «dare significato alla comunità degli uomini, a restituire il contenuto al linguaggio umano, a ricostituire l’‘Io’-uomo, autonomo, integrale, dignitoso come fulcro dell’azione sociale». E, dunque, di una difesa contro il potere impersonale, rappresentato dai tecnici dell’apparato o da quelli dell’economia: «Fintantoché, comunque, la nostra umanità resta indifesa, non saremo al sicuro dai trucchi tecnici e organizzativi progettati per produrre un migliore funzionamento economico, così come nessun filtro posto sulla ciminiera di una fabbrica sarà in grado di prevenire una generale disumanizzazione» (p. 37).
È proprio per il richiamo alla funzione di una «politica antipolitica» che la lezione di Havel continua a costituire una sfida preziosa. Ed è l’affermazione della relazione con il Lebenswelt, con la vita quotidiana, che consente di cogliere un legame – sottile ma comunque reale – fra l’aspirazione «antipolitica» che nutriva i movimenti del dissenso nei paesi del socialismo reale e l’istanza «antipolitica» che alimenta oggi quei movimenti eterogenei, uniti solo dalla protesta contro la classe politica e contro il potere impersonale della «tecnocrazia». Ma non è certo una sfida che, al di là della retorica, sia facile da raccogliere. Perché la politica moderna è effettivamente una formidabile «bottega di maschere», un’officina in cui nel corso dei secoli giuristi e filosofi si sono impegnati a ‘spersonalizzare’ il potere, a separare la figura concreta del sovrano dal suo ufficio e dunque dalle prerogative associate alla sua carica. Questo sforzo non ha certo prodotto solo conseguenze negative, perché, imbrigliando il potere in regole, procedure e meccanismi ‘impersonali’, ha consentito almeno in parte di vincolare il potere dei capi e, dunque, di costruire l’ossatura dello Stato di diritto. Ma la «bottega di maschere» della politica moderna ha anche indirizzato verso la costruzione di grandi, immense macchine burocratiche, capaci di ‘spersonalizzare’ persino il più terrificante dei poteri. E il punto non è costituito soltanto dal fatto che la costruzione di regole impersonali e di macchine politiche ‘efficienti’ rimane probabilmente una necessità inaggirabile per le società contemporanee. In termini più radicali, le «maschere» politiche, le «finzioni», le astrazioni ideologiche sono per molti versi indispensabili per pensare la politica. O, quantomeno, sono indispensabili per pensare un soggetto collettivo, un «Noi» il cui obiettivo sia anche semplicemente quello di opporsi al potere impersonale di un regime tirannico. E proprio per questo ogni movimento e ogni partito – nel momento stesso in cui diventa ‘politico’ – non può che rinunciare alla propria istanza «antipolitica», almeno nel senso in cui Havel la intendeva. La necessità di dotarsi di un’organizzazione efficiente e soprattutto l’esigenza di dotarsi di una coerenza e di un’unità interna (anche soltanto sotto il profilo simbolico) non possono infatti non innescare la costruzione di maschere, di grandi astrazioni teoriche: maschere costruite con i materiali ideologici più diversi, che però tendono sempre a riprodurre la logica fatale che Havel ritrovava alle origini della trasformazione della politica in una «tecnologia razionale del potere».
La «politica antipolitica» di Havel costituisce così davvero un enorme paradosso, un rompicapo probabilmente senza soluzione. Perché le maschere sono indispensabili alla politica, ma perché, al tempo stesso, la politica – all’interno di un partito, o all’interno delle istituzioni pubbliche – non può che smarrire il proprio significato più radicale ed esistenziale se rinuncia all’istanza «antipolitica», ossia al radicamento nel mondo vitale: una politica intesa «non come tecnologia del potere e della manipolazione, del dominio cibernetico sugli uomini o come tecnica strumentale», bensì come «uno dei modi di realizzare un vita sensata, di proteggerla e di servirla». Ed è d’altronde per questo che l’idea di una «politica antipolitica», destinata a rivivere ogni volta dentro il brulicare della vita quotidiana e nel potere costituente dei mondi vitali, non ha perso dopo trent’anni neppure un grammo della propria portata critica. 

Damiano Palano

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