di Damiano Palano
La sera del 25 maggio il responso delle urne chiarirà quale sarà la composizione del Parlamento di Strasburgo e se l’ascesa degli euroscettici, prevista da molti sondaggi, sarà effettivamente confermata dalla scelta dei cittadini europei. Al di là di ogni considerazione sui toni e sulle modalità della campagna elettorale (e soprattutto di quella italiana), è piuttosto chiaro che la discussione che ha preceduto negli ultimi mesi l’appuntamento elettorale si è concentrata – molto più che in passato – proprio sul futuro dell’Ue. Ma se questo dato può essere interpretato come un segnale di maggiore interesse nei confronti della costruzione europea, è anche difficilmente contestabile che il riferimento all’Europa non è stato quello che gli europeisti più convinti auspicavano. Perché, nel discorso pubblico, l’Europa è andata a coincidere con l’«eurocrazia», e cioè con una sorta di governo tecnocratico, totalmente estraneo – per non dire ostile – ai singoli popoli europei. E, d’altronde, sarebbe ingenuo non riconoscere che la percezione e la valutazione dell’Ue si sia notevolmente modificata negli ultimi dieci anni, in seguito all’introduzione della moneta unica e, naturalmente, a causa dell’impatto della crisi economica.
Secondo una rilevazione di Demos & Pi condotta nel febbraio 2014 (e dunque prima che la campagna per le Europee entrasse nel vivo), il 32% del campione intervistato, rappresentativo dell’elettorato italiano, si dichiarava d’accordo con l’ipotesi di uscire dall’euro e di tornare alla lira. Ma ciò che è forse ancora più rilevante è il calo della fiducia nell’Ue registrato nell’arco di un quindicennio. Nel 2000, coloro che dichiaravano di avere molta o moltissima fiducia nell’Ue erano il 57%, mentre – dopo un calo costante, acceleratosi bruscamente dopo il 2011 – nel 2014 risultano essere solo il 29%. E, cioè, una quota più o meno equivalente a quella dei veri e propri anti-europei (27%), e molto al di sotto di quella componente che invece si attesta su posizioni scettiche o eurocritiche (44%). «L’Europa», come ha scritto Ilvo Diamanti commentando questi dati, «si è trasformata in un soggetto freddo, lontano. Una moneta senza Stato e senza politica. Senza identità e senza passione. È stata percepita, dunque, come un problema più che una risorsa. Un Grande Esattore, senza volto, se non quello della Merkel (e delle Banche), che esige senza garantire nulla» (I. Diamanti, L’Europa al tempo dell’impopolarità, in «la Repubblica», 10 marzo 2014, p. 10).
Naturalmente non è detto che la nuova impopolarità debba davvero riflettersi in una vittoria ‘politica’ degli ‘anti-europeisti’ o degli ‘euro-scettici’, anche perché il fronte dei critici dell’Ue è molto frammentato e tutt’altro che ideologicamente omogeneo. Ciò nondimeno sarebbe difficile non prendere atto di un sostanziale esaurimento della retorica con cui il progetto l’Ue – e dell’unificazione monetaria – è stato sostenuto nel corso degli ultimi tre decenni. Quella retorica – una retorica che meriterebbe probabilmente uno studio approfondito, dal momento che è stata costruita anche con il sostegno della comunità scientifica e grazie a un enorme supporto finanziario – si basava in fondo su tre grandi motivi: il ricordo del passato delle guerre sanguinose, confrontato con un presente di pace e prosperità (di cui ovviamente veniva considerata come artefice proprio l’Ue); un ragionamento ‘economico’, secondo il quale nel mondo del futuro l’unica possibilità che i ‘piccoli’ Stati del Vecchio continente avrebbero di non soccombere sarebbe quella di dar vita un’entità politica sovranazionale; un ragionamento ‘culturale’, che invece rappresenta l’Ue come una sorta di gigantesco tour operator, in grado di far viaggiare giovani e meno giovani attraverso le frontiere, nella convinzione che ciò debba necessariamente produrre una comunanza culturale e la genesi di un’identità europea.
Molto probabilmente questa retorica melliflua è ormai diventata sgradita a una buona parte dell’elettorato europeo. Ma è altrettanto probabile che il sospetto che oggi l’opinione pubblica del Vecchio continente nutre verso l’Ue derivi proprio dalla clamorosa smentita delle promesse di benessere economico su cui l’europeismo degli anni Novanta si era fondato. In altre parole, i sacrifici richiesti dall’unificazione monetaria sono stati giustificati sulla base di argomentazioni che promettevano che dall’introduzione dell’euro sarebbero derivati – soprattutto per i paesi del Sud – enormi benefici, crescita economica, aumento del potere d’acquisto, maggiori possibilità di contrarre mutui anche per i ceti non abbienti. E se certo l’ingresso nei parametri fissati dal Trattato di Maastricht avrebbe comportato qualche costo sociale, tutto ciò sarebbe stato compensato dai vantaggi dell’ingresso nel club esclusivo della moneta unica. Nonostante non manchino ancora oggi commentatori e politici che considerano la moneta unica come un grande risultato, la percezione comune è molto diversa. Come ha scritto autorevolmente Claus Offe, «non si può negare che l’euro sia stato un errore sin dall’inizio» (C. Offe, L’Europa in trappola. Riuscirà l’Ue a superare la crisi?, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 31), anche se naturalmente uscire da questa trappola sarà molto più difficile di come ci si è entrati. E ciò non significa naturalmente che – come spesso viene ribadito nel corso di questa campagna elettorale – tutte le responsabilità delle difficoltà economiche dei paesi meridionali dell’Ue (e in testa dell’Italia) vadano imputate alla moneta unica. Perché per esempio, quando si torna a ripetere la classica formula «era meglio prima», non si può sottovalutare che l’introduzione della moneta unica è di fatto andata a coincidere anche con il momento storico in cui le merci di produzione cinese sono arrivate sui mercati europei. Pertanto, se certo la moneta unica ha privato l’economia italiana di una risorsa competitiva come la svalutazione, è però anche da ricordare che questo strumento non avrebbe probabilmente potuto produrre oggi i risultati ottenuti in passato (e ancora al principio degli anni Novanta). Il punto è però che lo strumento più importante che l’Ue ha creato nella sua storia – l’euro – è intervenuto pesantemente nella vita dei cittadini, e che le sue ricadute su alcuni dei paesi dell’Unione sono stati – e sono percepiti – come fortemente negativi. Tanto negativi che persino un’opinione pubblica così tradizionalmente europeista come quella italiana ha rapidamente ridimensionato proprio sostegno incondizionato al progetto di integrazione.
È proprio per evitare una simile trappola, che D’Alema indica una strada diversa, che – insieme a «più Europa» – chiede anche «più politica».In sostanza, la dimensione della governance economica ha preso il sopravvento nell’Ue a causa di un sostanziale deficit politico, quel deficit che diventa invece cruciale colmare. «Ciò che appare particolarmente importante», osserva dunque, «è rafforzare la legittimazione democratica e il peso politico della Commissione europea. Il presidente della Commissione e gli altri componenti devono poter rappresentare un vero e proprio ‘governo’ dell’Unione, in grado di operare una effettiva sintesi nel nome degli interessi comuni e capace di fronteggiare il peso dei governi dei Paesi più forti, che spesso sembrano considerare la Commissione semplicemente come una struttura burocratica al loro servizio. In questa prospettiva, è fondamentale il rapporto tra Parlamento e Commissione» (pp. 28-29). E in questo senso D’Alema auspica in sostanza che la designazione del presidente della Commissione venga dal Parlamento, in seguito al risultato delle elezioni europee, e che il Consiglio si limiti a prendere atto della designazione. A questa modificazione del ruolo ‘politico’ del Parlamento, dovrebbero affiancarsi ovviamente una serie di misure economiche, che consistono soprattutto nell’armonizzazione delle politiche fiscali, nell’adozione di alcune misure di mutualizzazione del debito, in programmi di investimento pubblico. «Sono convinto», scrive così D’Alema alla conclusione, «che quest’Europa non ripiegata su se stessa, non prigioniera di una dimensione esclusivamente monetaria ed economicista, non incatenata dai vincoli che essa stessa ha posto alle proprie straordinarie potenzialità, questa Europa orgogliosa e consapevole della forza della propria civiltà possa appassionare e mettere in campo una nuova generazione. Per questo abbiamo voluto spingere lo sguardo oltre l’euro e la sua crisi: perché torni la politica, quella vera, e si rimetta in moto la speranza» (p. 86).
Naturalmente è scontato che gli auspici di D’Alema debbano trovare un’accoglienza assai poco favorevole in quanti – a destra e a sinistra –considerano l’adozione dell’euro come la causa dell’odierna catastrofe economica e sociale. Ma è anche inevitabile che quelle formule che indicano una strada possibile in «più politica», oltre che in «più Europa», debbano anche scontarsi con la diffidenza di una prospettiva semplicemente ‘realista’. Perché anche qualora si consideri il programma delineato sinteticamente da D’Alema come potenzialmente auspicabile, ciò non significa certo che quel programma possa essere considerato anche come effettivamente praticabile, o persino come credibile, perché rimane del tutto inevasa la domanda su quale sia la forza politica capace di innescare una svolta come quella indicata dall’ex Presidente del Consiglio italiano. Ciò che infatti richiederebbe una simile svolta non sarebbe solo un semplice mutamento di indirizzo, ma un effettivo superamento dell’assetto istituzionale dell’Ue, se non addirittura una modificazione della struttura genetica della costruzione europea. È infatti inutile nascondersi che molte delle difficoltà che l’Ue sta vivendo sono una conseguenza del suo assetto, e cioè del fatto che l’Unione è stata costruita nel tempo secondo una logica – comprensibilmente – intergovernativa. In altri termini, l’Ue (come prima la Comunità europea) si è formata come un’organizzazione sovranazionale, creata da singoli Stati nazionali, e all’interno di un assetto di questo genere è scontato che i governi nazionali abbiano detenuto il ruolo principale. Come per ogni organizzazione internazionale, le opinioni pubbliche non sono direttamente presenti e non possono influire, se non nella forma della mediazione esercitata dai loro legittimi rappresentanti, gli Stati sovrani e dunque i loro governi. All’interno della costruzione europea, ogni governo ha perseguito così l’interesse nazionale, certo compiendo più di qualche errore, ma ovviamente senza perdere mai di vista l’elettorato ‘nazionale’, dal quale dipendono d’altronde le proprie sorti. Nel corso dei decenni, l’architettura europea ha attenuato la dimensione intergovernativa, ma non certo perché abbia rafforzato in modo sensibile la legittimazione diretta delle istituzioni comunitarie, bensì perché ha costruito una serie di organi ‘neutrali’ (rispetto ai singoli Stati) il cui compito precipuo consiste nel vigilare sull’applicazione dei trattati e sul rispetto degli impegni comuni. Questo insieme di organi ovviamente non poteva fornire una legittimazione politica all’Unione, e si è piuttosto tradotto nella costruzione di una serie di dispositivi ‘impolitici’, i cui criteri di valutazione hanno finito col diventare ‘relativamente autonomi’ dai singoli Stati, tanto da essere percepiti (e da essere davvero) una vera e propria «tecnocrazia» europea. È indubbio che la «tecnocrazia» sia stata spesso una formidabile alleata di alcuni governi nazionali, o che quantomeno abbia propalato la medesima visione ‘ideologica’ delle politiche da adottare (delle riforme capaci di ‘rilanciare’ l’economia e di flessibilizzare il mercato del lavoro) condivisa da molti governi nazionali (è sufficiente pensare ai governi italiani di centro-sinistra della seconda metà degli anni Novanta). Ma una simile consonanza non è affatto scontata, e proprio per questo negli ultimi cinque anni si è assistito a una sempre maggiore divaricazione tra questi due livelli, col risultato che l’«eurocrazia» è diventata il bersaglio principale della protesta contro l’Ue e che la dinamica intergovernativa è tornata ad avere un ruolo preponderante (tanto da offuscare quasi la Commissione).
La proposta avanzata dal volume di D’Alema non consiste tanto in un rafforzamento dei poteri della Commissione, quanto nel ‘rafforzamento’ della sua legittimazione politica. In altre parole, in questo ragionamento, solo un organo dotato di una diretta legittimazione popolare, e dunque dotato di un peso effettivamente politico, potrebbe bilanciare le resistenze degli Stati membri. Detto ancora più semplicemente, solo una Commissione ‘politica’ (e non puramente ‘tecnica’) potrebbe riuscire a superare le resistenze di quegli Stati che – come la Germania – si oppongono alla mutualizzazione del debito, all’introduzione di Eurobond, all’avvio di un energico programma di investimenti, a una ridefinizione dei parametri di Maastricht. Ma il punto debole di questo ragionamento non sta tanto nell’argomentazione logica, quanto – prima di tutto – nella fragilità politica. Per compiere un simile passo – e, detto semplicemente, per convincere le opinioni pubbliche tedesca e dei paesi del Nord Europa a sobbarcarsi, anche solo temporaneamente, una parte del debito dei paesi del Sud, o a recedere dai criteri dell’austerità – sarebbe necessario molto più che la semplice designazione della Commissione (o del suo Presidente) da parte dal Parlamento. Questo non significa affatto che non si debba auspicare quell’Europa «più politica» che Massimo D’Alema profila come obiettivo. Perché è chiaro che solo un’Europa ‘effettivamente politica’ potrebbe risolvere molti dei problemi che oggi si trovano a sperimentare le popolazioni europee, e in particolare gli effetti perniciosi di ‘una moneta senza Stato’. Ma un minimo di realismo non può che suggerire di considerare quell’opzione come poco più che un’esercitazione fantapolitica, destinata a restare lettera morta dinanzi alla realtà dell’assetto istituzionale odierno, della forza dei veti incrociati. Per rendere minimamente ‘realistica’ l’ipotesi di un’Europa «più politica» sarebbe forse necessaria una ‘pressione’ proveniente dall’esterno, ossia il profilarsi di una minaccia reale alla sicurezza del Vecchio continente, destinata a indurre gli Stati sovrani a procedere sul terreno di ulteriori cessioni di sovranità. Ma dato che un simile scenario (i cui esiti non sarebbero d’altronde scontati) rimane – fortunatamente – lontano, le soluzioni potrebbero passare solo dal mutamento dei rapporti di forza interni all’Ue. E sarebbe in particolare necessario, per cominciare, che nel Parlamento europeo fossero presenti partiti realmente ‘europei’, e cioè partiti in grado di orientare stabilmente le diverse opinioni pubbliche nazionali e di giustificare i sacrifici necessari per sostenere la ‘solidarietà’ nei confronti dei paesi indebitati, senza temere che da ciò derivi una penalizzazione elettorale. Da questo punto di vista, sono però particolarmente significativi alcuni passaggi di una recente riflessione di Jürgen Habermas, che certo rimane uno dei più convinti sostenitori di un’Europa federale e la cui prospettiva non è molto distante da quella adottata da D’Alema. Come scrive Habermas, proprio a proposito del ruolo dei partiti: «I partiti politici sono abituati a procacciarsi legittimazione nella modalità concorrenziale delle indagini demoscopiche: non sono per nulla addestrati a una formazione dell’opinione e della volontà che richieda un cambiamento di abitudini e di mentalità. Pertanto risultano incapaci di percepire le sfide straordinarie derivanti delle situazioni di crisi, e anche poco disposti ad affrontare impegni ricchi di incognite» (J. Habermas, Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, Laterza, Roma – Bari, 2014, pp. 30-31).
Anche se non sappiamo come sarà composto il prossimo Parlamento di Strasburgo, solo un disperato sforzo di immaginazione potrebbe infatti consentire di scambiare per autentici «partiti», capaci di plasmare la visione delle opinioni pubbliche europee, quei gruppi che sederanno nell’emiciclo. E d’altronde, solo per effetto di un ottimismo allucinato si potrebbe ritenere che cartelli elettoral-affaristici, sostanzialmente privi di legittimazione e totalmente ripiegati sul breve periodo – come sono la gran parte dei partiti presenti oggi nel Vecchio continente (e, va da sé, i partiti reduci in Italia dalla catastrofe della Seconda Repubblica) – possano avere la forza, la capacità e il coraggio di «percepire le sfide straordinarie derivanti delle situazioni di crisi». Ed è proprio per questi motivi che affidare ai partiti odierni le sorti di un’Europa «più politica» rischia di assomigliare molto più a un’azzardata scommessa persa in partenza che a una credibile proposta politica.
quei baffi!
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