di Damiano Palano La sera del 25 maggio il responso delle urne chiarirà quale sarà la composizione del Parlamento di Strasburgo e se l’ascesa degli euroscettici, prevista da molti sondaggi, sarà effettivamente confermata dalla scelta dei cittadini europei. Al di là di ogni considerazione sui toni e sulle modalità della campagna elettorale (e soprattutto di quella italiana), è piuttosto chiaro che la discussione che ha preceduto negli ultimi mesi l’appuntamento elettorale si è concentrata – molto più che in passato – proprio sul futuro dell’Ue. Ma se questo dato può essere interpretato come un segnale di maggiore interesse nei confronti della costruzione europea, è anche difficilmente contestabile che il riferimento all’Europa non è stato quello che gli europeisti più convinti auspicavano. Perché, nel discorso pubblico, l’Europa è andata a coincidere con l’«eurocrazia», e cioè con una sorta di governo tecnocratico, totalmente estraneo – per non dire ostile – ai singoli popoli europei. E, d’altronde, sarebbe ingenuo non riconoscere che la percezione e la valutazione dell’Ue si sia notevolmente modificata negli ultimi dieci anni, in seguito all’introduzione della moneta unica e, naturalmente, a causa dell’impatto della crisi economica. Secondo una rilevazione di Demos & Pi condotta nel febbraio 2014 (e dunque prima che la campagna per le Europee entrasse nel vivo), il 32% del campione intervistato, rappresentativo dell’elettorato italiano, si dichiarava d’accordo con l’ipotesi di uscire dall’euro e di tornare alla lira. Ma ciò che è forse ancora più rilevante è il calo della fiducia nell’Ue registrato nell’arco di un quindicennio. Nel 2000, coloro che dichiaravano di avere molta o moltissima fiducia nell’Ue erano il 57%, mentre – dopo un calo costante, acceleratosi bruscamente dopo il 2011 – nel 2014 risultano essere solo il 29%. E, cioè, una quota più o meno equivalente a quella dei veri e propri anti-europei (27%), e molto al di sotto di quella componente che invece si attesta su posizioni scettiche o eurocritiche (44%). «L’Europa», come ha scritto Ilvo Diamanti commentando questi dati, «si è trasformata in un soggetto freddo, lontano. Una moneta senza Stato e senza politica. Senza identità e senza passione. È stata percepita, dunque, come un problema più che una risorsa. Un Grande Esattore, senza volto, se non quello della Merkel (e delle Banche), che esige senza garantire nulla» (I. Diamanti, L’Europa al tempo dell’impopolarità, in «la Repubblica», 10 marzo 2014, p. 10). Naturalmente non è detto che la nuova impopolarità debba davvero riflettersi in una vittoria ‘politica’ degli ‘anti-europeisti’ o degli ‘euro-scettici’, anche perché il fronte dei critici dell’Ue è molto frammentato e tutt’altro che ideologicamente omogeneo. Ciò nondimeno sarebbe difficile non prendere atto di un sostanziale esaurimento della retorica con cui il progetto l’Ue – e dell’unificazione monetaria – è stato sostenuto nel corso degli ultimi tre decenni. Quella retorica – una retorica che meriterebbe probabilmente uno studio approfondito, dal momento che è stata costruita anche con il sostegno della comunità scientifica e grazie a un enorme supporto finanziario – si basava in fondo su tre grandi motivi: il ricordo del passato delle guerre sanguinose, confrontato con un presente di pace e prosperità (di cui ovviamente veniva considerata come artefice proprio l’Ue); un ragionamento ‘economico’, secondo il quale nel mondo del futuro l’unica possibilità che i ‘piccoli’ Stati del Vecchio continente avrebbero di non soccombere sarebbe quella di dar vita un’entità politica sovranazionale; un ragionamento ‘culturale’, che invece rappresenta l’Ue come una sorta di gigantesco tour operator, in grado di far viaggiare giovani e meno giovani attraverso le frontiere, nella convinzione che ciò debba necessariamente produrre una comunanza culturale e la genesi di un’identità europea.
Molto probabilmente questa retorica melliflua è ormai diventata sgradita a una buona parte dell’elettorato europeo. Ma è altrettanto probabile che il sospetto che oggi l’opinione pubblica del Vecchio continente nutre verso l’Ue derivi proprio dalla clamorosa smentita delle promesse di benessere economico su cui l’europeismo degli anni Novanta si era fondato. In altre parole, i sacrifici richiesti dall’unificazione monetaria sono stati giustificati sulla base di argomentazioni che promettevano che dall’introduzione dell’euro sarebbero derivati – soprattutto per i paesi del Sud – enormi benefici, crescita economica, aumento del potere d’acquisto, maggiori possibilità di contrarre mutui anche per i ceti non abbienti. E se certo l’ingresso nei parametri fissati dal Trattato di Maastricht avrebbe comportato qualche costo sociale, tutto ciò sarebbe stato compensato dai vantaggi dell’ingresso nel club esclusivo della moneta unica. Nonostante non manchino ancora oggi commentatori e politici che considerano la moneta unica come un grande risultato, la percezione comune è molto diversa. Come ha scritto autorevolmente Claus Offe, «non si può negare che l’euro sia stato un errore sin dall’inizio» (C. Offe, L’Europa in trappola. Riuscirà l’Ue a superare la crisi?, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 31), anche se naturalmente uscire da questa trappola sarà molto più difficile di come ci si è entrati. E ciò non significa naturalmente che – come spesso viene ribadito nel corso di questa campagna elettorale – tutte le responsabilità delle difficoltà economiche dei paesi meridionali dell’Ue (e in testa dell’Italia) vadano imputate alla moneta unica. Perché per esempio, quando si torna a ripetere la classica formula «era meglio prima», non si può sottovalutare che l’introduzione della moneta unica è di fatto andata a coincidere anche con il momento storico in cui le merci di produzione cinese sono arrivate sui mercati europei. Pertanto, se certo la moneta unica ha privato l’economia italiana di una risorsa competitiva come la svalutazione, è però anche da ricordare che questo strumento non avrebbe probabilmente potuto produrre oggi i risultati ottenuti in passato (e ancora al principio degli anni Novanta). Il punto è però che lo strumento più importante che l’Ue ha creato nella sua storia – l’euro – è intervenuto pesantemente nella vita dei cittadini, e che le sue ricadute su alcuni dei paesi dell’Unione sono stati – e sono percepiti – come fortemente negativi. Tanto negativi che persino un’opinione pubblica così tradizionalmente europeista come quella italiana ha rapidamente ridimensionato proprio sostegno incondizionato al progetto di integrazione.
Se l’ascesa dell’anti-europeismo e dell’euro-scetticismo può contare proprio su tutte queste difficoltà, è ovvio che l’europeismo – nelle sue diverse varianti – non può limitarsi a rispondere che all’Ue e all’euro «non c’è alternativa». In altre parole, è scontato che anche quanti difendono il progetto europeo non possano limitarsi a difendere ciò che l’Europa è oggi, ma debbano invece tentare di procedere oltre, e disegnare dunque un assetto capace di superare lo stallo. È proprio questo l’obiettivo che si pone Massimo D’Alema nel suo nuovo libro Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per l’Europa (Rubbettino, pp. 134, euro 12.00), un testo che certo può essere letto anche come l’ambizioso programma di uno dei più credibili candidati italiani alla futura Commissione europea. «L’Europa», scrive d’altronde D’Alema proprio all’inizio del volume, «ha bisogno di un cambiamento radicale e coraggioso» (p. 5). E ciò significa che anche lo slogan «più Europa» rischia di suonare come una minaccia: «non basta affermare, come pure a lungo è stato fatto, che c’è bisogno di ‘più Europa’. Anzi, se non ci rendiamo conto che occorre una sorta di cesura, che noi ci riferiamo a una realtà profondamente rinnovata, sono convinto che invocare una maggiore forza della Ue sia un messaggio che rischia di spaventare l’opinione pubblica. I cittadini, oramai, identificano largamente ‘l’Europa’ come quella potente tecnocrazia che sta a Bruxelles e che vuole ridurre le nostre pensioni, le nostre protezioni sociali, che vuole imporre più tasse, più controlli, più burocrazia. ‘Più Europa’, in queste condizioni e in un clima di enorme sfiducia, è una parola d’ordine che rischia di alimentare paura, sospetti e timori, provocando un micidiale effetto contro producente» (p. 10). È proprio per evitare una simile trappola, che D’Alema indica una strada diversa, che – insieme a «più Europa» – chiede anche «più politica».In sostanza, la dimensione della governance economica ha preso il sopravvento nell’Ue a causa di un sostanziale deficit politico, quel deficit che diventa invece cruciale colmare. «Ciò che appare particolarmente importante», osserva dunque, «è rafforzare la legittimazione democratica e il peso politico della Commissione europea. Il presidente della Commissione e gli altri componenti devono poter rappresentare un vero e proprio ‘governo’ dell’Unione, in grado di operare una effettiva sintesi nel nome degli interessi comuni e capace di fronteggiare il peso dei governi dei Paesi più forti, che spesso sembrano considerare la Commissione semplicemente come una struttura burocratica al loro servizio. In questa prospettiva, è fondamentale il rapporto tra Parlamento e Commissione» (pp. 28-29). E in questo senso D’Alema auspica in sostanza che la designazione del presidente della Commissione venga dal Parlamento, in seguito al risultato delle elezioni europee, e che il Consiglio si limiti a prendere atto della designazione. A questa modificazione del ruolo ‘politico’ del Parlamento, dovrebbero affiancarsi ovviamente una serie di misure economiche, che consistono soprattutto nell’armonizzazione delle politiche fiscali, nell’adozione di alcune misure di mutualizzazione del debito, in programmi di investimento pubblico. «Sono convinto», scrive così D’Alema alla conclusione, «che quest’Europa non ripiegata su se stessa, non prigioniera di una dimensione esclusivamente monetaria ed economicista, non incatenata dai vincoli che essa stessa ha posto alle proprie straordinarie potenzialità, questa Europa orgogliosa e consapevole della forza della propria civiltà possa appassionare e mettere in campo una nuova generazione. Per questo abbiamo voluto spingere lo sguardo oltre l’euro e la sua crisi: perché torni la politica, quella vera, e si rimetta in moto la speranza» (p. 86). Naturalmente è scontato che gli auspici di D’Alema debbano trovare un’accoglienza assai poco favorevole in quanti – a destra e a sinistra –considerano l’adozione dell’euro come la causa dell’odierna catastrofe economica e sociale. Ma è anche inevitabile che quelle formule che indicano una strada possibile in «più politica», oltre che in «più Europa», debbano anche scontarsi con la diffidenza di una prospettiva semplicemente ‘realista’. Perché anche qualora si consideri il programma delineato sinteticamente da D’Alema come potenzialmente auspicabile, ciò non significa certo che quel programma possa essere considerato anche come effettivamente praticabile, o persino come credibile, perché rimane del tutto inevasa la domanda su quale sia la forza politica capace di innescare una svolta come quella indicata dall’ex Presidente del Consiglio italiano. Ciò che infatti richiederebbe una simile svolta non sarebbe solo un semplice mutamento di indirizzo, ma un effettivo superamento dell’assetto istituzionale dell’Ue, se non addirittura una modificazione della struttura genetica della costruzione europea. È infatti inutile nascondersi che molte delle difficoltà che l’Ue sta vivendo sono una conseguenza del suo assetto, e cioè del fatto che l’Unione è stata costruita nel tempo secondo una logica – comprensibilmente – intergovernativa. In altri termini, l’Ue (come prima la Comunità europea) si è formata come un’organizzazione sovranazionale, creata da singoli Stati nazionali, e all’interno di un assetto di questo genere è scontato che i governi nazionali abbiano detenuto il ruolo principale. Come per ogni organizzazione internazionale, le opinioni pubbliche non sono direttamente presenti e non possono influire, se non nella forma della mediazione esercitata dai loro legittimi rappresentanti, gli Stati sovrani e dunque i loro governi. All’interno della costruzione europea, ogni governo ha perseguito così l’interesse nazionale, certo compiendo più di qualche errore, ma ovviamente senza perdere mai di vista l’elettorato ‘nazionale’, dal quale dipendono d’altronde le proprie sorti. Nel corso dei decenni, l’architettura europea ha attenuato la dimensione intergovernativa, ma non certo perché abbia rafforzato in modo sensibile la legittimazione diretta delle istituzioni comunitarie, bensì perché ha costruito una serie di organi ‘neutrali’ (rispetto ai singoli Stati) il cui compito precipuo consiste nel vigilare sull’applicazione dei trattati e sul rispetto degli impegni comuni. Questo insieme di organi ovviamente non poteva fornire una legittimazione politica all’Unione, e si è piuttosto tradotto nella costruzione di una serie di dispositivi ‘impolitici’, i cui criteri di valutazione hanno finito col diventare ‘relativamente autonomi’ dai singoli Stati, tanto da essere percepiti (e da essere davvero) una vera e propria «tecnocrazia» europea. È indubbio che la «tecnocrazia» sia stata spesso una formidabile alleata di alcuni governi nazionali, o che quantomeno abbia propalato la medesima visione ‘ideologica’ delle politiche da adottare (delle riforme capaci di ‘rilanciare’ l’economia e di flessibilizzare il mercato del lavoro) condivisa da molti governi nazionali (è sufficiente pensare ai governi italiani di centro-sinistra della seconda metà degli anni Novanta). Ma una simile consonanza non è affatto scontata, e proprio per questo negli ultimi cinque anni si è assistito a una sempre maggiore divaricazione tra questi due livelli, col risultato che l’«eurocrazia» è diventata il bersaglio principale della protesta contro l’Ue e che la dinamica intergovernativa è tornata ad avere un ruolo preponderante (tanto da offuscare quasi la Commissione).
La proposta avanzata dal volume di D’Alema non consiste tanto in un rafforzamento dei poteri della Commissione, quanto nel ‘rafforzamento’ della sua legittimazione politica. In altre parole, in questo ragionamento, solo un organo dotato di una diretta legittimazione popolare, e dunque dotato di un peso effettivamente politico, potrebbe bilanciare le resistenze degli Stati membri. Detto ancora più semplicemente, solo una Commissione ‘politica’ (e non puramente ‘tecnica’) potrebbe riuscire a superare le resistenze di quegli Stati che – come la Germania – si oppongono alla mutualizzazione del debito, all’introduzione di Eurobond, all’avvio di un energico programma di investimenti, a una ridefinizione dei parametri di Maastricht. Ma il punto debole di questo ragionamento non sta tanto nell’argomentazione logica, quanto – prima di tutto – nella fragilità politica. Per compiere un simile passo – e, detto semplicemente, per convincere le opinioni pubbliche tedesca e dei paesi del Nord Europa a sobbarcarsi, anche solo temporaneamente, una parte del debito dei paesi del Sud, o a recedere dai criteri dell’austerità – sarebbe necessario molto più che la semplice designazione della Commissione (o del suo Presidente) da parte dal Parlamento. Questo non significa affatto che non si debba auspicare quell’Europa «più politica» che Massimo D’Alema profila come obiettivo. Perché è chiaro che solo un’Europa ‘effettivamente politica’ potrebbe risolvere molti dei problemi che oggi si trovano a sperimentare le popolazioni europee, e in particolare gli effetti perniciosi di ‘una moneta senza Stato’. Ma un minimo di realismo non può che suggerire di considerare quell’opzione come poco più che un’esercitazione fantapolitica, destinata a restare lettera morta dinanzi alla realtà dell’assetto istituzionale odierno, della forza dei veti incrociati. Per rendere minimamente ‘realistica’ l’ipotesi di un’Europa «più politica» sarebbe forse necessaria una ‘pressione’ proveniente dall’esterno, ossia il profilarsi di una minaccia reale alla sicurezza del Vecchio continente, destinata a indurre gli Stati sovrani a procedere sul terreno di ulteriori cessioni di sovranità. Ma dato che un simile scenario (i cui esiti non sarebbero d’altronde scontati) rimane – fortunatamente – lontano, le soluzioni potrebbero passare solo dal mutamento dei rapporti di forza interni all’Ue. E sarebbe in particolare necessario, per cominciare, che nel Parlamento europeo fossero presenti partiti realmente ‘europei’, e cioè partiti in grado di orientare stabilmente le diverse opinioni pubbliche nazionali e di giustificare i sacrifici necessari per sostenere la ‘solidarietà’ nei confronti dei paesi indebitati, senza temere che da ciò derivi una penalizzazione elettorale. Da questo punto di vista, sono però particolarmente significativi alcuni passaggi di una recente riflessione di Jürgen Habermas, che certo rimane uno dei più convinti sostenitori di un’Europa federale e la cui prospettiva non è molto distante da quella adottata da D’Alema. Come scrive Habermas, proprio a proposito del ruolo dei partiti: «I partiti politici sono abituati a procacciarsi legittimazione nella modalità concorrenziale delle indagini demoscopiche: non sono per nulla addestrati a una formazione dell’opinione e della volontà che richieda un cambiamento di abitudini e di mentalità. Pertanto risultano incapaci di percepire le sfide straordinarie derivanti delle situazioni di crisi, e anche poco disposti ad affrontare impegni ricchi di incognite» (J. Habermas, Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, Laterza, Roma – Bari, 2014, pp. 30-31). Anche se non sappiamo come sarà composto il prossimo Parlamento di Strasburgo, solo un disperato sforzo di immaginazione potrebbe infatti consentire di scambiare per autentici «partiti», capaci di plasmare la visione delle opinioni pubbliche europee, quei gruppi che sederanno nell’emiciclo. E d’altronde, solo per effetto di un ottimismo allucinato si potrebbe ritenere che cartelli elettoral-affaristici, sostanzialmente privi di legittimazione e totalmente ripiegati sul breve periodo – come sono la gran parte dei partiti presenti oggi nel Vecchio continente (e, va da sé, i partiti reduci in Italia dalla catastrofe della Seconda Repubblica) – possano avere la forza, la capacità e il coraggio di «percepire le sfide straordinarie derivanti delle situazioni di crisi». Ed è proprio per questi motivi che affidare ai partiti odierni le sorti di un’Europa «più politica» rischia di assomigliare molto più a un’azzardata scommessa persa in partenza che a una credibile proposta politica.
di Damiano Palano Nel maggio 1984, quando il crollo dell’impero sovietico era ancora lontano, l’Università di Tolosa decise di conferire una Laurea Honoris Causa a Václav Havel. Il grande intellettuale ceco, che aveva pagato il suo impegno nel movimento Charta 77 con cinque anni di reclusione, naturalmente non poté lasciare il paese. E così non poté mai pronunciare il testo che aveva scritto in vista della cerimonia. A trent’anni esatti dalla stesura di quel documento, ripubblicato proprio in questi giorni (La politica dell’uomo, Castelvecchi, pp. 51, euro 7.50), non si può non rimanere sorpresi dalla profondità di una riflessione che non ha smarrito nulla della propria forza. Nella lezione risuonano senza dubbio l’insegnamento di Jan Patočka, il filosofo che più aveva influito sull’esperienza di Charta 77, e (almeno indirettamente) anche la critica alla deriva delle scienze europee pronunciata da Husserl. Il discorso di Havel non riflette infatti solo sulla realtà del regime totalitario, ma sviluppa una critica all’intero progetto della politica moderna e ai suoi fallimenti. I sistemi totalitari sono considerati da Havel solo come «uno specchio convesso delle inevitabili conseguente del razionalismo». Ed è per questo che l’esperimento drammatico di un potere totalizzante diventa un formidabile monito per l’intera civiltà occidentale.
La scienza moderna ha infatti reciso la relazione con il «mondo vitale», ha cioè separato il soggetto dall’esperienza vissuta nel mondo. «La scienza moderna, nel costruire la sua immagine universalmente valida del mondo», osserva Havel, «distrugge i confini del mondo naturale, che può comprendere solo come una prigione di pregiudizi da cui dobbiamo evadere per raggiungere la luce della verità oggettivamente verificata. Il mondo naturale appare ad essa come un avanzo infelice dei nostri antenati, una fantasia della loro infantile immaturità. In tal modo, è indubbio, essa elimina, come mera Finzione, anche il fondamento più profondo del nostro mondo naturale; uccide Dio e prende il suo posto sul trono vacante, cosicché per l’avvenire sarà la scienza a stringere nelle proprie mani l’ordine dell’esistenza in qualità di unico, legittimo guardiano e ad essere l’unico, legittimo arbitro di tutta la verità che conta. Perché, dopotutto, è solo la scienza a ergersi al di sopra di tutte le verità soggettive dell’individuo, sostituendole con una verità superiore, sovraoggettiva e sovrapersonale, che sia veramente oggettiva e universale» (p. 15). Sviluppando questa prospettiva, Havel può riconoscere la medesima deformazione genetica anche alle origini della politica moderna. Sulle orme del filosofo ceco Václav Bělohradský, definisce infatti la politica moderna – costruita a partire da Machiavelli, in sostanziale simmetria con Galileo – come «tecnologia razionale del potere». Ma, proprio percorrendo questo binario, il potere diventa «anonimo e spersonalizzato». L’origine della politica moderna si colloca infatti nel momento in cui «la ragione umana comincia a ‘liberarsi’ dall’uomo in quanto tale, dalla sua esperienza personale, dalla coscienza personale e dalla responsabilità personale e, in tal modo, anche da ciò a cui, entro la cornice del mondo naturale, tutta la responsabilità si relaziona in modo esclusivo: il suo orizzonte. Così, come gli scienziati moderni separano il vero uomo dal soggetto dell’esperienza vissuta del mondo, allo stesso modo si comportano lo stato moderno e la politica moderna, e in maniera ancora più evidente» (p. 25).
La più perfetta realizzazione di questa «tecnologia razionale del potere» si trova proprio nei sistemi totalitari. Ma la stessa logica – avverte Havel – si può riconoscere anche nei sistemi democratici occidentali, perché anche in questo caso il potere tende a tramutarsi in un potere anonimo e spersonalizzato. «Un politico moderno», in qualsiasi sistema, è infatti «trasparente: dietro la sua maschera giudiziosa e la sua dizione affettata, non c’è traccia dell’uomo radicato nell’ordine del mondo naturale e dai suoi amori, dalle sue passioni, dai suoi interessi, dalle sue opinioni personali, dal suo disprezzo, dal suo coraggio e dalla sua crudeltà. […] Se non intravediamo nulla dietro la maschera, sarà solo un tecnico del potere più o meno competente. Il sistema, l’ideologia, l’apparato ci hanno privato – tanto i governanti quanto i governati – della nostra coscienza, del nostro senso comune e del nostro linguaggio naturale e, in tal modo, della nostra vera umanità» (p. 27). Il discorso svolto nella Politica dell’uomo costituisce naturalmente uno sviluppo del Potere dei senza potere, il formidabile pamphlet, scritto a ridosso dell’esperienza di Charta 77, in cui Havel ragionava sulla logica del post-totalitarismo (oltre che di ciò che già allora chiamava «post-democrazia»). Anche nella lezione del 1984 non rinuncia così a cercare un’alternativa al destino di una politica intesa solo come «tecnica razionale del potere». Ed è per questo che Havel indica la strada di una possibile resistenza in una paradossale «politica antipolitica». Ovviamente Havel non si riferisce a quell’insieme di retoriche demagogiche che per noi è diventato familiare chiamare «antipolitica». Con quella formula l’intellettuale ceco intende piuttosto «una politica dell’uomo e non dell’apparato». L’obiettivo della «politica antipolitica» è infatti la ricostruzione di una relazione con il Lebenswelt, con il «mondo vitale». Si tratta cioè di «ricostruire il mondo naturale come vero terreno», di «riabilitare l’esperienza personale degli uomini come misura prima delle cose», di «dare significato alla comunità degli uomini, a restituire il contenuto al linguaggio umano, a ricostituire l’‘Io’-uomo, autonomo, integrale, dignitoso come fulcro dell’azione sociale». E, dunque, di una difesa contro il potere impersonale, rappresentato dai tecnici dell’apparato o da quelli dell’economia: «Fintantoché, comunque, la nostra umanità resta indifesa, non saremo al sicuro dai trucchi tecnici e organizzativi progettati per produrre un migliore funzionamento economico, così come nessun filtro posto sulla ciminiera di una fabbrica sarà in grado di prevenire una generale disumanizzazione» (p. 37).
È proprio per il richiamo alla funzione di una «politica antipolitica» che la lezione di Havel continua a costituire una sfida preziosa. Ed è l’affermazione della relazione con il Lebenswelt, con la vita quotidiana, che consente di cogliere un legame – sottile ma comunque reale – fra l’aspirazione «antipolitica» che nutriva i movimenti del dissenso nei paesi del socialismo reale e l’istanza «antipolitica» che alimenta oggi quei movimenti eterogenei, uniti solo dalla protesta contro la classe politica e contro il potere impersonale della «tecnocrazia». Ma non è certo una sfida che, al di là della retorica, sia facile da raccogliere. Perché la politica moderna è effettivamente una formidabile «bottega di maschere», un’officina in cui nel corso dei secoli giuristi e filosofi si sono impegnati a ‘spersonalizzare’ il potere, a separare la figura concreta del sovrano dal suo ufficio e dunque dalle prerogative associate alla sua carica. Questo sforzo non ha certo prodotto solo conseguenze negative, perché, imbrigliando il potere in regole, procedure e meccanismi ‘impersonali’, ha consentito almeno in parte di vincolare il potere dei capi e, dunque, di costruire l’ossatura dello Stato di diritto. Ma la «bottega di maschere» della politica moderna ha anche indirizzato verso la costruzione di grandi, immense macchine burocratiche, capaci di ‘spersonalizzare’ persino il più terrificante dei poteri. E il punto non è costituito soltanto dal fatto che la costruzione di regole impersonali e di macchine politiche ‘efficienti’ rimane probabilmente una necessità inaggirabile per le società contemporanee. In termini più radicali, le «maschere» politiche, le «finzioni», le astrazioni ideologiche sono per molti versi indispensabili per pensare la politica. O, quantomeno, sono indispensabili per pensare un soggetto collettivo, un «Noi» il cui obiettivo sia anche semplicemente quello di opporsi al potere impersonale di un regime tirannico. E proprio per questo ogni movimento e ogni partito – nel momento stesso in cui diventa ‘politico’ – non può che rinunciare alla propria istanza «antipolitica», almeno nel senso in cui Havel la intendeva. La necessità di dotarsi di un’organizzazione efficiente e soprattutto l’esigenza di dotarsi di una coerenza e di un’unità interna (anche soltanto sotto il profilo simbolico) non possono infatti non innescare la costruzione di maschere, di grandi astrazioni teoriche: maschere costruite con i materiali ideologici più diversi, che però tendono sempre a riprodurre la logica fatale che Havel ritrovava alle origini della trasformazione della politica in una «tecnologia razionale del potere».
La «politica antipolitica» di Havel costituisce così davvero un enorme paradosso, un rompicapo probabilmente senza soluzione. Perché le maschere sono indispensabili alla politica, ma perché, al tempo stesso, la politica – all’interno di un partito, o all’interno delle istituzioni pubbliche – non può che smarrire il proprio significato più radicale ed esistenziale se rinuncia all’istanza «antipolitica», ossia al radicamento nel mondo vitale: una politica intesa «non come tecnologia del potere e della manipolazione, del dominio cibernetico sugli uomini o come tecnica strumentale», bensì come «uno dei modi di realizzare un vita sensata, di proteggerla e di servirla». Ed è d’altronde per questo che l’idea di una «politica antipolitica», destinata a rivivere ogni volta dentro il brulicare della vita quotidiana e nel potere costituente dei mondi vitali, non ha perso dopo trent’anni neppure un grammo della propria portata critica. Damiano Palano
di Damiano Palano A qualche settimana dalle elezioni europee del 25 maggio è ancora difficile immaginare quale sarà il responso delle urne e, soprattutto, quale configurazione assumerà il nuovo Parlamento di Strasburgo. Molti sondaggi prevedono però che il sostegno alle formazioni ‘euroscettiche’ sia destinato ad aumentare notevolmente rispetto alle precedenti consultazioni del 2009, e d’altronde le recenti elezioni amministrative francesi hanno dimostrato tutta la forza di formazioni che sono state considerate a lungo come marginali o antisistemiche e che invece, anche a seguito della crisi economica, stanno diventando autentiche protagoniste della scena. Naturalmente il fronte degli ‘euroscettici’ è tutt’altro che omogeneo, ed è anzi sufficiente dare un rapido sguardo alle forze che criticano – più o meno energicamente – la moneta unica per rendersi conto di come le posizioni siano da questo punto di vista tutt’altro che allineate su una visione comune. Il Fronte Nazionale francese ha per esempio ben poco a che vedere con la lista capeggiata da Alexis Tsipras, mentre il PVV olandese di Geert Wilders, nazionalista e anti-islamico, appare molto distante dal Movimento 5 Stelle. E per questo, a prescindere dai risultati delle elezioni di maggio, è da escludere l’ipotesi che si formi una grande coalizione anti-euro tra tutte le formazioni ‘euroscettiche’. Ma, a ben vedere, anche all’interno delle due principali forze storicamente filo-europeiste – il Pse e il Ppe – le divisioni interne non mancano (il caso di Forza Italia è il più significativo, ma non l’unico), tanto che anche la costituzione di una ‘grande coalizione’ fra socialisti e popolari non sembra poter consegnare una base parlamentare particolarmente solida alla prossima Commissione. E molti segnali fanno presagire che il richiamo del ‘sovranismo’ sia destinato a diventare sempre più forte nei prossimi mesi, o forse addirittura nei prossimi anni.
È proprio alla comprensione delle radici di questo ritorno delle identità nazionali che è dedicato il volume di Alberto Martinelli, Mal di nazione. Contro la deriva populista (Università Bocconi Editore, Milano, 2013, pp. 151, euro 16.00), che peraltro non è concentrato esclusivamente sul presente (e sul futuro) dell’Ue, perché svolge anche una riflessione più generale sul fenomeno del nazionalismo. Esaminando la letteratura politologica sull’argomento, Martinelli sottolinea in particolare come il nazionalismo sia un fenomeno moderno e dunque legato all’esperienza dello Stato nazionale, nonostante utilizzi e rielabori materiali premoderni. Il cuore dell’analisi dello studioso è però ovviamente rappresentato dal contemporaneo revival nazionalista, che trova nell’antieuropeismo il «punto di coagulo delle due componenti, nazionalista e populista» (p. 77). Ed è d’altronde questo nesso che consente a Martinelli di considerare come esempi di uno stesso fenomeno esperienze molto lontane, come quelle del Fronte Nazionale francese e del Movimento 5 Stelle italiano. «Anche la versione recente del populismo, la cosiddetta democrazia della rete», osserva per esempio Martinelli, «che utilizza le nuove tecnologie informatiche, dà sì voce ai cittadini che interagiscono nella piazza elettronica (come nei meet up del Movimento Cinque Stelle), ma diventa spesso la piattaforma legittimante per l’affermazione di leader plebiscitari che gestiscono il movimento in modo apparentemente partecipato, ma sostanzialmente autoritario e intollerante del dissenso; è radicalmente diversa dalla democrazia deliberativa che richiede una discussione articolata e ragionata delle questioni da decidere e non frettolosi commenti e sarcasmi a colpi tweet» (pp. 77-78). Scritti prima della rapida ascesa politica di Matteo Renzi, le osservazioni di Martinelli potrebbero forse essere indirizzate al ‘neo-populismo’ dell’odierno leader del Pd, anche se in questo caso l’uso disinvolto delle tecniche di comunicazione come strumento di conquista del potere non si è – almeno sinora – indirizzato contro le istituzioni dell’Unione europea, ma solo verso i più classici obiettivi dell’antipolitica, come la ‘casta’, i grandi burocrati, le ‘pensioni d’oro’. Martinelli considera però come esempi di nazional-populismo solo quello di destra, «nostalgico di una mitica grandezza della nazione», e quello di sinistra, «che rimpiange un mitico welfare state, ma non disdegna i temi patriottici» (p. 79), di cui sono espressione la greca Syriza o la tedesca Linke. Ma, al di là di questa mappa, sono interessanti le motivazioni che Martinelli indica come cause del revival nazionalista: in primo luogo, si tratta di una conseguenza della fine del bipolarismo Usa-Urss, che fa riaffiorare fratture più antiche; in secondo luogo, è la conseguenza del processo di «erosione della sovranità nazionale», un processo che determina il ridimensionamento del welfare state e, così, l’acuirsi di sentimenti di paura, insicurezza, frammentazione dei rapporti sociali. Proprio questa situazione, aggravata peraltro dal deficit democratico dell’Ue e dallo schiacciamento verso il centro dei partiti tradizionali di destra e sinistra, sarebbe allora all’origine dello spostamento di molti cittadini verso l’opzione nazional-populista: «La crisi economica prolungata e in particolare l’aumento della disoccupazione, che hanno effetti dirompenti sulla famiglia e l’organizzazione urbana e accentuano gli squilibri interregionali, ovvero comportano quel fallimento della società che alimenta il nazionalismo, forniscono nuovo combustibile alla protesta nazional-populista. I gruppi sociali emarginati, che fanno fatica ad adattarsi all’economia globalizzata e sono più penalizzati dalla crisi, come i giovani che non trovano lavoro, i piccoli commercianti e artigiani che subiscono un drastico calo delle loro attività, i lavoratori con qualifiche obsolete, sono i più sensibili all’appello nazional-populista» (p. 86). Martinelli non ritiene comunque che la minaccia populista debba essere considerata come particolarmente insidiosa, o che possa generare qualcosa di simile alla crisi degli anni Trenta del XX secolo, proprio perché il fronte anti-europeista è molto frammentato e difficilmente compattabile dal punto di vista politico attorno a un programma unitario. «Il più efficace antidoto contro il nazional-populismo riemergente», osserva però Martinelli, «è la costruzione dell’Unione sopranazionale europea» (pp. 96-97). In sostanza, il problema per Martinelli diventa allora quello di trasformare l’Ue in un’unione federale, con un’accelerazione ulteriore dell’integrazione politica. Naturalmente, non mancano però gli ostacoli, che consistono principalmente nel fatto che i soggetti dell’Ue continuano a rimanere gli Stati nazionali (i quali continuano a ragionare, come le rispettive opinioni pubbliche, anteponendo l’interesse nazionale a quello sovranazionale), e nel dato per cui, a fronte di un trasferimento dei poteri verso il livello sovranazionale, gli impegni e la lealtà dei cittadini non sembrano essersi trasferiti verso le istituzioni dell’Ue.
Dato che le basi politiche risultano deboli, è dunque necessario costruire una vera e propria identità europea: «lo sviluppo di un’identità comune europea, non come identità esclusiva e alternativa alle identità nazionali, ma come parte di una identità plurima in cui l’identità europea coesista con le identità nazionali» (p. 107). Ma, soprattutto, secondo Martinelli è necessario procedere sul sentiero di radicali riforme, che per Martinelli prevedono soprattutto una unione politica sovranazionale tra i paesi che condividono la moneta unica, l’uniformazione della politica fiscale, l’introduzione di entrate tributarie autonome per l’Ue, la trasformazione della Bce in un banca centrale vera e propria, una netta separazione di competenze tra livello federale e livello statale, nuove regole elettorali, che dovrebbero prevedere anche l’elezione diretta del Presidente della Commissione. Quando delinea le riforme che dovrebbero riformare l’Ue, Martinelli si colloca evidentemente più sul piano della proposta politica che su quello della semplice interpretazione del revival nazionalista. Ma, al di là di ogni valutazione delle proposte di riforma, è evidente che non si tratta di misure attuabili rapidamente, perché il loro orizzonte temporale si colloca piuttosto nel medio periodo. Il punto è però se l’Unione europea potrà sopravvivere così com’è per altri cinque-dieci anni, o se la forza della critica euro-scettica (e in particolare della critica alla moneta unica) non sia destinata a precipitare molto più rapidamente la situazione. A prescindere dalla stessa credibilità delle riforme indicate da Martinelli (e della valutazione del loro reale effetto politico ed economico), ci sono anche altre domande sollevate della sua analisi del fenomeno nazional-populista. In termini molto generali, è infatti difficile sottrarsi alla sensazione che Martinelli, pur svolgendo un’approfondita discussione delle diverse teorie che spiegano la genesi del ‘nazionalismo’, sottovaluti la portata dell’attuale ondata nazionalista, o che, quantomeno, la consideri soltanto come una ‘reazione’ emotiva, sentimentale, egoistica a un processo faticoso, ma in fondo inevitabile. In questo senso, il ragionamento che sta dietro l’analisi di Martinelli appare piuttosto lineare: la globalizzazione modifica radicalmente lo scenario in cui hanno vissuto i popoli europei; l’abbattimento delle barriere commerciali e l’ingresso di grandi attori emergenti dissolve completamente gli spazi in cui gli Stati nazionali hanno vissuto e operato a lungo; l’Europa può sopravvivere nello spazio globale solo trasformandosi uno Stato federale, capace di competere con i grandi attori del XXI secolo, come gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, il Brasile, e così via; ogni ipotesi che guardi ancora ai vecchi Stati nazionali, o anche al vecchio welfare state novecentesco, è così solo il riflesso di un rimpianto nostalgico, ma non ha alcun futuro politico. Per quanto ridotta all’osso, fino al limite della caricatura, questa lettura ha d’altronde fornito anche il sostegno più solido alla costruzione comunitaria e al passaggio verso l’Unione. In sostanza, la giustificazione e la legittimazione dell’integrazione europea hanno fatto ricorso quasi esclusivamente a ragionamenti utilitaristici, che non casualmente hanno evocato i vantaggi economici derivanti dall’integrazione, mentre gli aspetti identitari sono stati relegati in secondo piano, tanto che quasi invariabilmente il compito della costruzione dell’identità europea è stata consegnato alla burocrazia europea, a progetti ‘culturali’ di impatto inconsistente, al tentativo di orientare il dibattito culturale e la ricerca scientifica in senso filo-europeista utilizzando i fondi dell’Ue, e soprattutto a quello stucchevole impasto retorico il cui perno è il ricordo del passato sanguinoso delle guerre del Vecchio continente. Ma è proprio adottando questo schema, che si rischia non prendere sul serio la sfida del nuovo ‘sovranismo’ e della rinascita del nazionalismo in Europa. Per quanto nella parte teorica del suo lavoro discuta a fondo i limiti delle visioni deterministe della genesi del nazionalismo, in realtà quando passa a considerare la situazione odierna tende a replicare uno schema quantomeno determinista, in cui la ‘base’ economica può incontrare qualche ostacolo sul proprio cammino, ‘resistenze’, retaggi del passato, che comunque sono destinati a essere spazzati via dalla storia e dalle logiche dello sviluppo economico. In altre parole, dal momento che Martinelli considera come il cammino dell’Ue – passato e presente – come un ‘destino’ determinato dalla globalizzazione e dalla transizione geo-politica, l’unica possibilità è aggiornare la ‘sovrastruttura’ a ciò che è diventata – e diventerà – la ‘struttura’ dell’economia mondiale. Certo, secondo questo ragionamento, ci possono essere residui sentimentali rivolti al passato, ma questi residui possono solo ritardare la necessaria opera di riforma, o persino determinare il declino dell’Europa, ma in ogni caso non hanno alcun ruolo positivo. E una spia di questa lettura è anche l’utilizzo del termine “populismo” cui ricorre Martinelli per descrivere – e squalificare – la retorica dei diversi “nazional-populismo”. Da questo punto di vista, è piuttosto chiaro che l’adozione di una simile formula coglie alcune analogie nell’utilizzo della comunicazione e negli stili retorici, ma è altrettanto evidente che il termine “populismo” finisce con l’introdurre un’ipoteca normativa insostenibile in tutta l’indagine. A ben vedere, infatti, la retorica “populista” è propria di tutte le forze politiche, tanto che si potrebbe persino sostenere – con una battuta – che le uniche forze politiche non populiste sono le forze ‘impopolari’. Naturalmente, la vocazione populista viene declinata in modo diverso, ma il riferimento al ‘popolo’ rimane fondamentale per tutte, e il tentativo di distinguere tra forze ‘populiste’ e forze ‘non populiste’ finisce spesso col palesare l’intento politico di squalificare qualche soggetto come moralmente indegno, o scorretto. Così, se lo stile populiste di Grillo e Bossi può apparire spesso sgradevole, non è difficile ritrovare la medesima logica nella retorica di Bettino Craxi e Matteo Renzi, nel loro esibito ‘decisionismo’, nello spregio delle forme della democrazia interna al loro partito, nell’esibizione del ‘fare’ contro le chiacchiere degli “sfascisti”, nella liquidazione degli avversari politici come mosche cocchiere della storia. Ma il problema non sta evidentemente tanto nei toni del “nazional-populismo” contemporaneo, quanto nelle radici da cui quel fenomeno profondo. Radici che la lettura proposta da Martinellli tende per molti versi a considerare solo marginalmente. Certo si possono biasimare i rozzi strumenti retorici degli anti-europeisti, si possono stigmatizzare i toni populisti della polemica contro Bruxelles, si possono persino ridicolizzare le nostalgie del ritorno alla ‘liretta’, e si può così liquidare il revival nazionalista come una reazione emotiva a tutte quelle riforme ‘inevitabili’ che “chiede l’Europa”. Ma tutto questo induce a sottacere, o a collocare al margine della discussione, il grande, enorme problema che abbiamo sotto gli occhi e che consiste nel clamoroso fallimento delle classi politiche europee che hanno costruito l’Ue. Un fallimento che ha radici lontane, perché – non bisogna dimenticarlo – il progetto della moneta unica prende forma prima che finisca la Guerra fredda e che la Germania si riunifichi, in un mondo dunque completamente diverso da quello che abbiamo di fronte. Perché non sono stati minimamente previsti i risultati che la moneta unica (e i vincoli ad essa associati) avrebbe prodotto. Perché l’illusione che l’integrazione economica dovesse produrre la nascita ‘spontanea’ di una comune identità europea si è rivelata poco più di un sogno. Perché l’Ue è stata congegnata in modo tale da non consentire probabilmente che il cosiddetto deficit democratico sia superabile. E perché tutti i progetti di riforma – e anche molti di quelli che Martinelli auspica – potrebbero produrre effetti positivi “solo se” ci fossero delle condizioni politiche che in realtà non ci sono e che, con ogni probabilità, non si presenteranno nel prossimo futuro (come, per esempio, partiti politici ‘europei’ in grado di mobilitare le opinioni pubbliche verso un’ulteriore spinta all’integrazione politica, la disponibilità dei paesi del Nord a sostenere una parte del debito del paesi del Sud, ecc). Se si considera la strada che ha condotto fino alla Ue odierna come un ‘destino’ al quale non esiste alternativa, è scontato che dobbiamo ritenere l’euroscetticismo, il revival nazionalista e ogni posizione sovranista come poco più che varianti contemporanee del luddismo, come una reazione emotiva del tutto irrazionale. Ma, in questo modo, compiamo evidentemente alcuni errori che non possono non inficiare lo sforzo intellettuale di comprendere il presente. In primo luogo, reintroduciamo una forma di determinismo quantomeno schematico, che considera le dinamiche economiche come ‘oggettive’ e immutabili (oltre che collocate al di sopra di ogni livello ‘politico’), e dinanzi al quale il determinismo volgare di Plechanov diventa persino raffinato. E, in secondo luogo, ci precludiamo di cogliere quali sono le forze che davvero muovono la Storia. Perché senz’altro è vero che il revival nazionalista odierno è in larga parte una reazione ‘emotiva’ alla sfida della globalizzazione e all’impatto determinato dall’integrazione europea sui singoli Stati. Ma la dimensione ‘emotiva’ non è un dettaglio nelle dinamiche politiche. Perché – che siano giuste o sbagliate, razionali o irrazionali – sono proprio le reazioni ‘emotive’ che spiegano molti eventi politici. Per esempio, noi possiamo biasimare la demagogia e la propaganda antisemita del nazionalsocialismo, e possiamo considerarla anche come una ‘reazione emotiva’ a serie di circostanze, ma questo non ci esime dall’obbligo di collocare l’ascesa del nazionalsocialismo all’interno di un quadro definito anche (seppure non solo) dalla volontà delle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale di annullare politicamente ed economicamente la Germania. Inoltre, possiamo condannare la barbarie cui sono giunte alcune formazioni indipendentiste emerse nell’ex-Urss, e possiamo considerarle come ‘reazioni emotive’ alla dissoluzione di un grande impero multinazionale, ma ciò non ci può esimere certo dal collocare il risorgere di quei nazionalismi e il fallimenti di quegli esperimenti di convivenza multietnica anche nel quadro del clamoroso fallimento delle élite sovietiche nella costruzione di un regime collettivistico e nell’edificazione dell’economia socialista. Certo l’Unione Europea non è l’Unione Sovietica. Ma ribadire per l’ennesima volta i meriti dell’Ue non ci può autorizzare a sottovalutarne i demeriti. E, soprattutto, non ci può autorizzare a squalificare i critici dell’Ue come ‘irrazionali’, come ‘populisti’, come demagoghi. Non certo perché spesso non lo siano. Ma perché in questo modo rischiamo di non comprendere ciò che sta avvenendo al Vecchio continente. E rischiamo soprattutto di sottovalutare un processo che, invece, è molto probabilmente destinato a modificare le nostre più consolidate categorie.