lunedì 28 aprile 2014

Pensare la forma politica. Un seminario con Giulio De Ligio - lunedì 12 maggio (ore 14.30)


Lunedì 12 maggio 2014 (ore 14.30), in occasione della pubblicazione dei volumi di Raymond Aron, Il destino delle nazioni. L’avvenire dell’Europa (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013), e Pierre Manent, Le metamorfosi della città. Saggio sulla dinamica dell’Occidente (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014), Giulio De Ligio (École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi), curatore di entrambi i testi, terrà un seminario dal titolo: 

Pensare la forma politica


Al seminario prenderanno parte Silvio Cotellessa e Damiano Palano dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Il seminario si svolgerà in Aula NI.110 (Via Nirone 15 - Milano)





E-mail: eventi.milano@unicatt.it


Sponsorizzato da: Dipartimento di Scienze politiche, Scuola di Dottorato in Istituzioni e politiche e "Rivista di Politica"




mercoledì 23 aprile 2014

Ernesto Laclau e i misteri del ‘politico’. Ricordando l’intellettuale argentino teorico del populismo

 
Ernesto Laclau
(1935-2014)
 
 


di Damiano Palano

Questo ricordo d Ernesto Laclau è apparso sul sito dell'Istituto di Politica.

L’improvvisa scomparsa di Ernesto Laclau, avvenuta il 13 aprile scorso a causa di un attacco cardiaco, priva la teoria politica contemporanea di uno dei suoi più originali protagonisti. Anche se in Italia la riflessione di Laclau ha iniziato solo da pochi anni a essere conosciuta e discussa, le sollecitazioni che lo studioso argentino ha sottoposto alla discussione teorica hanno avuto un ruolo fondamentale nel riportare al centro il nodo del ‘politico’ e della sua autonomia. E anche se la proposta delineata da Laclau ha incontrato nel corso del tempo critiche spesso molto dure, la sua operazione di ‘decostruzione’ della categorie teoriche del marxismo rimane senza dubbio un punto essenziale per la riflessione contemporanea, così come la teoria del populismo, precisata nei suoi contorni nell’ultimo decennio, ma elaborata nel corso di un’intera carriera di studio.
La carriera accademica di Laclau si svolse quasi esclusivamente all’interno del mondo universitario britannico (e in special modo all’Università di Essex, dove insegnò Teoria politica dal 1973 e dove diresse il Center for Theoretical Studies in Humanities and Social Sciences dal 1990 al 1997), ma lo studioso argentino conservò sempre un legame molto stretto con il paese d’origine. La sua riflessione teorica può infatti essere considerata come un tentativo di comprendere un fenomeno – indecifrabile con le categorie politiche del Vecchio continente – come il «peronismo». Tanto che, per molti versi, tutta la sua ricerca intellettuale può essere considerata come un tentativo di rispondere a quei problemi – teorici e politici – in cui Laclau si era imbattuto negli anni della sua militanza giovanile nel movimento socialista argentino. 
Nato nel 1935, Laclau aderì infatti già nel 1958 al Partido Socialista Argentino (Psa), assumendo anche un ruolo di leadership all’interno della componente di sinistra del movimento studentesco dell’Università di Buenos Aires. Nel 1963 entrò nel Partito Socialista de la Izquierda Nacional (Psin), un partito di orientamento trotzkista guidato da Jorge Abelardo Ramos, e proprio all’interno di questo gruppo Laclau assunse un ruolo politico di primo piano, anche perché gli venne affidata la direzione del settimanale «Lucha Obrera», oltre che della rivista teorica, «Izquierda Nacional». Nella complessa geometria del sistema politico argentino dell’epoca, il Psin tentava di adattare la concezione trotzkista della «rivoluzione permanente» al contesto del paese latino-americano, ma in realtà l’elemento qualificante di quella proposta consisteva in una valutazione positiva del «peronismo» (inteso più come movimento politico che come esperienza di governo). Ed è d’altronde proprio in quella esperienza che possono essere ritrovate le matrici originarie dell’interesse di Laclau per il populismo, inteso come un movimento capace di aggregare forze eterogenee nel nome di un «significante vuoto», riempito ogni volta di nuovi significati (inevitabilmente sempre provvisori). Nel 1946, l’elezione a Presidente di Perón era stata sostenuta infatti da una coalizione molto eterogenea, che si estendeva dall’estrema sinistra fino all’estrema destra, ma anche il fronte avversario non era più omogeneo, dal momento che di fatto comprendeva tanto esponenti comunisti quanto notabili dei vecchi partiti conservatori. Quella linea di divisione trasversale non venne meno con la caduta di Perón, ma si cristallizzò, tanto che la frattura fra nazionalisti (peronisti e anti-imperialisti) e internazionalisti (liberali e comunisti stalinisti) continuò a strutturare stabilmente lo spazio del conflitto politico, col risultato di dividere anche il campo di sinistra in due tendenze nettamente contrapposte: la prima puntava nell’approfondimento delle riforme di Perón e dunque verso una sorta di «rivoluzione permanente» (in senso trotzkista), mentre la seconda (esemplificata dalla posizione del Partito Comunista) rifiutava nettamente l’opzione ‘nazionalista’ e ‘terzomondista’, soprattutto perché considerava il regime di Perón come un regime fascista da contrastare grazie alla costruzione di un ampio «fronte popolare» e all’alleanza con l’oligarchia liberale. Naturalmente, nella fase della militanza socialista la lettura che Laclau forniva delle vicende argentine era stabilmente orientata dalla sua formazione teorica marxista, ma già allora si andavano definendo alcune idee destinate a ritornare più avanti nella sua teoria del populismo. Allievo di Gino Germani all’Università di Buenos Aires, Laclau era infatti insoddisfatto della sua spiegazione del populismo, un fenomeno che il sociologo intendeva come riflesso della modernizzazione economica e come una soluzione al problema dell’integrazione delle masse nel sistema politico. La visione di Germani pareva a Laclau fondata su una concezione deterministica della transizione dalla società tradizionale alla società industriale, mentre già allora Laclau era piuttosto interessato alla dimensione ‘costitutiva’ dell’egemonia e al significato ‘fluttuante’ di simboli capaci di costruire alleanze politiche. Più che alla realtà delle riforme di Perón, Laclau guardava così al ruolo che aveva assunto il ‘simbolo’ di Perón nel corso degli anni Sessanta: un simbolo che di fatto aveva consentito a una serie di domande sociali frammentarie di aggregarsi in un ben precisa identità politica, che ovviamente non poggiava su alcuna base economica ‘oggettiva’. 
Dopo il suo trasferimento nel Regno Unito, nel 1969, Laclau abbandonò di fatto la militanza politica, e da quel momento si dedicò quasi esclusivamente alla ricerca teorica. I problemi con cui si era imbattuto nel corso della sua attività di dirigente del Psin continuarono però a indirizzare la sua riflessione. Come James Joyce non cessò mai di tornare alla sua infanzia dublinese, così – come ebbe a dire in un’intervista della fine degli anni Ottanta – anche Laclau sarebbe tornato ogni volta agli anni della lotta politica in Argentina, costanti «punti di riferimento e di comparazione» della sua riflessione teorica. Nel suo primo libro, Politics and Ideology in Marxist Theory (Nlb, London, 1977), i riflessi di questi interessi erano d’altronde evidenti, non solo perché Laclau – che era approdato inizialmente al St. Antony College di Oxford per approfondire i propri studi economici – criticava la teoria della dipendenza formulata da Andre Gunder Frank, ma anche perché iniziava a formulare gli elementi cardinali di quella «teoria del populismo» cui avrebbe continuato a lavorare per trent’anni. In quel volume, appariva inoltre anche un saggio in cui Laclau si confrontava con il dibattito sull’autonomia ‘relativa’ dello Stato che aveva coinvolto, alcuni anni prima, due studiosi di orientamento marxista (ma tra loro molto lontani) come Ralph Miliband e Nicos Poulantzas. Nonostante la sua riflessione su questo punto si limitasse in quel caso solo a una lettura critica di alcuni limiti del marxismo althusseriano, era probabilmente in quel saggio che Laclau si confrontava per la prima volta in termini espliciti sulla «specificità del Politico», un nodo che anche in questo caso sarebbe diventato nel tempo sempre più importante. In quel contributo, l’espressione «Politico» era utilizzata con un significato diverso da quello in cui era stata usata Carl Schmitt nel suo celebre Begriff des Politischen, o anche da quello con cui in Italia più o meno nello stesso periodo ci si riferiva evocando l’«autonomia del politico». Laclau rifletteva infatti sulla specificità del «Politico» adottando lo schema dello strutturalismo althusseriano, di cui però venivano messi in luce alcuni limiti costitutivi, perché in effetti il teorico argentino iniziava già allora a interrogarsi sulla funzione di ‘sintesi’ e di costruzione di una ‘totalità’ che il «Politico» poteva svolgere.
Il punto di snodo principale nella riflessione di Laclau coincise però soprattutto con Hegemony and Socialist Strategy (Verso, London, 1985), frutto dell’incontro non solo intellettuale con Chantal Mouffe. In quel libro, Laclau e Mouffe si accomiatavano in modo pressoché definitivo dalla tradizione marxista, di cui criticavano soprattutto le pretese di ‘scientificità’. Il distacco dal marxismo compiuto da Laclau e Mouffe seguiva però una logica differente da quella che indirizzava in quel periodo il percorso di molti intellettuali di sinistra, e proprio per questo in Hegemony and Socialist Strategy i due studiosi definivano la loro prospettiva come «post-marxista». In questo modo, intendevano sottolineare come la loro posizione conservasse una continuità ‘politica’ con la tradizione marxista, ma anche come, al tempo stesso, essi rinunciassero a due pilastri fondamentali del marxismo: in primo luogo, la convinzione che il conflitto di classe fosse il perno attorno al quale far ruotare ogni progetto di emancipazione politica; in secondo luogo, l’idea che il marxismo fosse una ‘scienza’ e non una ideologia. L’operazione di Laclau e Mouffe anche per questo non consisteva in un vero e proprio rifiuto del marxismo. Piuttosto, secondo Laclau era stato il marxismo ad andare in pezzi in pezzi, mentre, da parte sua, si era solo limitato ad aggrapparsi «ai suoi frammenti migliori». Questi frammenti erano soprattutto costituiti da Antonio Gramsci e dalla nozione di «egemonia», oltre che in una certa misura da George Sorel e da una specifica lettura di Althusser . Ma questi materiali venivano utilizzati da Laclau e Mouffe per elevare una costruzione originale, che – del tutto consapevolmente – appariva ben poco interessata a una ricostruzione filologica dei concetti utilizzati dai singoli autori, perché l’obiettivo era piuttosto elaborare una teoria delle identità politiche che rinunciasse a qualsiasi fondazione ‘essenzialista’, e cioè alla convinzione che le identità collettive fossero un riflesso della struttura ‘oggettiva’ della società e dei rapporti di produzione. Già questa operazione, che conduceva ben oltre Gramsci, consentiva di cogliere come fosse proprio il livello politico a dare una forma alla società e ai conflitti, attraverso pratiche articolatorie ed egemoniche. E non è affatto casuale che tutta l’intera riflessione di Laclau e Mouffe – seguendo due binari paralleli – si sia indirizzata nel corso dei successivi trent’anni proprio verso l’esplorazione del ‘politico’. 
Nel corso degli anni Novanta, Mouffe iniziò un duraturo confronto con la concezione del ‘politico’ di Carl Schmitt, tentando anche di elaborare una teoria dell’agonismo democratico non priva di elementi interesse (per un esame, rinvio a La democrazia e il ‘politico’. I limiti dell’«agonismo democratico», in «Rivista di Politica», n. 2, pp. 87-113). Laclau, utilizzando alcune categorie mutuate dalla Jacques Lacan, iniziò invece a concentrarsi sulla struttura delle identità politiche. I saggi raccolti in New Reflections on the Revolution of Our Time (Verso, London, 1990), in Emancipation(s) (Verso, London, 1996) e in Contingency, Hegemony, Universality (Verso, London, 2000, scritto insieme a Judith Butler e Slavoj Žižek), possono essere considerati da questo punto di vista come uno sviluppo delle tesi già enunciate in Hegemony and Socialist Strategy, ma anche come un’anticipazione di quella che rimane forse l’operazione più ambiziosa di Laclau, On Populist Reason (Verso, London, 2005). In quel libro tornavano infatti ad annodarsi tutti i fili della riflessione del teorico argentino, dalle prime domande sul ruolo del peronismo come simbolo capace di aggregare istanze sociali eterogenee al tentativo di elaborare una teoria del populismo, dall’indagine sul ruolo delle pratiche articolatorie alla funzione sintetica del ‘politico’. E, per effetto di questa operazione, Laclau giungeva a proporre un’immagine del populismo del tutto originale. Un’immagine molto lontana da quella adottata di solito dal dibattito politologico europeo, che però non si limitava a fornire una legittimazione ideologica del populismo e dunque a giocare il ruolo di sostengo teorico del ‘kirchnerismo’ (un ruolo che, peraltro, Laclau non ha mai respinto). In effetti, Laclau ritrovava nello schema teorico del populismo proprio la specificità del ‘politico’: dal momento che la dimensione specifica del ‘politico’ consisteva nella costruzione di identità collettive prive di fondamenta nella struttura ‘oggettiva’ della società ma basate solo sulle rappresentazioni e sull’immaginario, allora il ‘populismo’ – come movimento capace di costruire un «popolo» - poteva diventare per Laclau il paradigma della dinamica di costruzione delle identità politiche.
Naturalmente la proposta di Laclau non mancò di sollevare più di qualche obiezione, e d’altronde il dibattito innescato da On Populist Reason è ben lontano dall’essersi esaurito (un’ottima testimonianza di come le tesi dello studioso argentino siano state rapidamente recepite e discusse anche in Italia è confermato dal ricco volume curato da Marco Baldassari e Diego Melegari, Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, Ombre corte, Verona, 2012). Ad alcune di queste critiche, probabilmente risponderà The Rhetorical Foundations of Society, un libro che Laclau aveva già licenziato e che apparirà nel mese di maggio (sempre dall’editore Verso). Più che una rottura concettuale, è molto probabile che i lettori troveranno in questo nuovo libro solo un ulteriore affinamento della teoria già sviluppata nei suoi scritti precedenti. E, anche per questo, all’ultimo capitolo della sua riflessione continueranno a essere indirizzate le medesime critiche di cui furono oggetto Hegemony and Socialist Strategy e On Populist Reason. Ma questo è forse il destino che tocca a ogni riflessione che sappia toccare un nervo scoperto, come effettivamente fecero Laclau e Mouffe negli anni Ottanta. Quando affermavano che la società non esiste in quanto struttura oggettiva, determinata dall’assetto delle relazioni sociali capitalistiche, Laclau e Mouffe non si limitavano infatti a riprendere e riutilizzare ‘da sinistra’ la provocazione thatcheriana secondo cui «non esiste una cosa chiamata ‘società’», ma operavano – per quella che era stata la tradizione del marxismo novecentesco – una sorta di autentica ‘rivoluzione copernicana’, perché di fatto rovesciavano la relazione tra economia e politica, riconoscendo una priorità logica al ‘politico’. «Il nostro approccio», scrivevano Laclau e Mouffe nel 2001, nella nuova introduzione a Hegemony and Socialist Strategy, «si basa sul privilegio del momento dell’articolazione politica, e la categoria centrale dell’analisi politica è, a nostro avviso, quella di egemonia». E ciò significava innanzitutto riconoscere che la società come ‘totalità’ esiste solo in quanto prodotto politico, solo in quanto riflesso di una relazione egemonica, perché la condizione di un’egemonia è che «una forza sociale particolare assuma la rappresentazione di una totalità che le è radicalmente incommensurabile».
Con la loro ‘rivoluzione copernicana’, Laclau e Mouffe risolvevano una serie di ambiguità e contraddizioni che avevano lacerato l’intera vicenda del marxismo novecentesco. Ma, dirigendosi verso il continente del ‘politico’, dovevano ovviamente imbattersi anche in una serie altrettanto affollata di nuovi problemi. Nel corso della sua riflessione successiva, Laclau ha tentato non solo di affrontare questi nuovi interrogativi, ma anche di fornire una soluzione. Una soluzione forse non priva di qualche punto critico, ma certo estremamente ambiziosa nei suoi obiettivi, e per questo tanto affascinante. Ed è d’altronde proprio per l’ambizione di costruire una teoria generale della genesi e della struttura delle identità politiche che il contributo di Laclau continuerà probabilmente a essere letto e a fornire nuove sollecitazioni a quanti si volgeranno in futuro all’esplorazione dei misteri del ‘politico’.

Damiano Palano




 




venerdì 18 aprile 2014

L’Europa nella trappola del deficit democratico. La posizione di Claus Offe (tra Habermas e Streeck)





di Damiano Palano

La professionalizzazione delle scienze sociali ha prodotto senza dubbio molti effetti positivi, come l’affinamento dei metodi di ricerca e l’adozione di un linguaggio rigoroso. Ma quel processo ha avuto anche più di qualche costo. La specializzazione disciplinare ha spesso comportato infatti la parcellizzazione del lavoro scientifico e, soprattutto, lo smarrimento di uno sguardo complessivo sulla società. Non è dunque fortuito che, in tempi di crisi, molti tornino a cercare risposte nelle pagine di ‘vecchi’ classici come Max Weber o persino Karl Marx, capaci di proporre una visione complessiva dei meccanismi di trasformazione sociale, e, così, di oltrepassare gli angusti steccati delle discipline accademicamente consolidate. È per molti versi proprio a questa vocazione ‘generalista’ delle scienze sociali che guarda un libro come Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (Feltrinelli, Milano, 2013), di Wolfgang Streeck, direttore del Max Plank Institut di Colonia. 

Dal punto di vista accademico, Streeck è infatti un sociologo, e più precisamente un sociologo dei processi economici (uno studioso del ‘neo-corporativismo’ e delle relazioni sindacali), ma in questo testo torna a guardare al modello della ‘vecchia’ Scuola di Francoforte, e dunque a una sociologia intesa come una scienza capace di utilizzare gli strumenti più diversi e di confrontarsi con le grandi dinamiche politiche, economiche e culturali. Tempo guadagnato nasce d’altro canto dalle Lezioni Adorno tenute da Streeck, anche se il sociologo, più che attingere a quell’impasto di marxismo, sociologia e psicoanalisi che contrassegnò la prima stagione della Scuola di Francoforte, sembra piuttosto ritornare alla fase in cui, attorno agli anni Settanta, la riflessione della Scuola di fatto si esaurì. Il libro di Streeck affronta infatti la crisi economica di oggi (e in particolare la crisi dell’Unione Europea) riprendendo il filo del discorso interrotto sulla ‘crisi fiscale’ dello Stato: una discussione cui, una quarantina di anni fa (in coincidenza non casuale con l’irrompere di un’altra crisi economica globale), presero parte fra gli altri, oltre all’economista neo-marxista James O’Connor, anche Jürgen Habermas e Claus Offe. 
In quel periodo, da una prospettiva ‘conservatrice’, alcuni politologi come Samuel Huntington sostenevano che fosse in atto una ‘crisi’ della democrazia liberale, prodotta da un ‘eccesso’ di partecipazione e da un conseguente ‘sovraccarico’ di domande, alle quali il sistema politico non era più in grado di dare risposte soddisfacenti. Collocandosi su un versante politico diverso (e certo più ‘progressista’), Habermas e gli altri giovani studiosi che si richiamavano più o meno direttamente alla Scuola di Francoforte, fornivano invece una lettura più articolata, che si concentrava in special modo sulle caratteristiche del capitalismo ‘misto’ postbellico. E, dunque, nonostante non sottovalutassero gli aspetti ‘culturali’ (e dunque il deficit di legittimazione del sistema politico), tendevano a interpretare la crisi in atto soprattutto come un riflesso di contraddizioni strutturali dell’‘economia mista’. In sostanza, secondo il loro discorso, il capitalismo ‘misto’ era nato come tentativo di risolvere la grande crisi degli Trenta, perché lo Stato era entrato stabilmente all’interno della regolazione dei processi economici per superare le contraddizioni del capitalismo di mercato. Se in questo modo erano stati evitati alcuni problemi, la contraddizione di base del capitalismo non era stata certo superata, e questa si ripresentava infatti in forma non più puramente ‘economica’, ma anche ‘politica’, come crisi di razionalità (dell’intervento statale) e di legittimazione.
Quel dibattito proseguì per tutti gli anni Settanta e trovò anche in Italia molti lettori attenti. Proprio sulla soglia degli anni Ottanta, però, la discussione di fatto si esaurì. La mutata temperie politica influì non poco nell’indurre i protagonisti ad abbandonare il tentativo di costruire una visione ‘sintetica’ del funzionamento dei processi sociali e politici. La Scuola di Francoforte finì di fatto  col dissolversi, e proprio Habermas – che in fondo continuò a rimanere l’erede ‘ufficiale’ di Adorno e Horkheimer – intraprese un percorso in cui non trovavano più alcuno spazio i richiami a Marx o a Freud, perché i riferimenti cruciali diventavano piuttosto i classici del pensiero liberale. Quarant’anni dopo, Streeck torna invece proprio alle analisi degli anni Settanta, di cui riprende alcune delle tesi di fondo, aggiornandole però con un’analisi delle trasformazioni economiche e sociali intervenute a partire dagli anni Ottanta. Ma il libro di Streeck non deve essere letto come una velata polemica nei confronti di Habermas solo per il metodo di indagine e per gli strumenti utilizzati. Perché, in realtà, in Tempo guadagnato c’è un motivo polemico molto più forte, e direttamente politico. Proprio al termine del volume, confrontandosi con le difficoltà dell’Unione europea, Streeck indica nel ritorno alla sovranità monetaria dei singoli Stati membri l’unica possibile soluzione – seppur non ‘definitiva’ – alla crisi. In sostanza, secondo il sociologo tedesco l’adozione della moneta unica ha prodotto risultati disastrosi e l’unico modo per uscire dalla palude sarebbe ritornare alle monete nazionali, pur all’interno di una serie di vincoli comuni. Ed è fatalmente proprio su questa ‘ricetta’ – d’altronde proposta proprio nel pieno della campagna elettorale tedesca del 2013 – che si è addensato il dibattito. 
Tra i primi a intervenire, prevedibilmente, è stato proprio il ‘vecchio maestro’ Habermas (un maestro in verità mai molto amato da Streeck, neppure negli anni Settanta), che in una conferenza tenuta all’Università Cattolica di Lovanio nell’aprile del 2013 ha sostenuto che l’unico vero modo di risolvere la crisi europea consiste nell’approfondimento del processo di unificazione ‘politica’: un approfondimento che comporterebbe innanzitutto un trasferimento di poteri dal Consiglio europeo agli organi ‘politici’ dell’Unione (Commissione e Parlamento), ma soprattutto l’assegnazione all’Ue di potere fiscale autonomo e, infine, la mutualizzazione del debito dei singoli Stati membri (mediante l’emissione di eurobond).
Naturalmente, se le soluzioni indicate da Streeck appaiono quantomeno radicali, quelle profilate da Habermas – seppure all’apparenza molto convincenti (soprattutto agli occhi delle opinioni pubbliche dell’Europa meridionale) – non sembrano molto più praticabili dal punto di vista politico. Ed è proprio su questo limite che attira l’attenzione Claus Offe nel suo recente volumetto L’Europa in trappola. Riuscirà l’Ue a superare la crisi? (il Mulino, pp. 102, euro 10.00). Il pamphlet può essere letto come un nuovo capitolo di questa discussione teorico-politica, ed è tanto più interessante perché il suo autore (per molti versi, il vero ‘maestro’ di Streeck) fu uno dei principali e originali protagonisti della riflessione degli anni Settanta sulla crisi fiscale dello Stato. E la posizione che emerge dal volumetto si colloca in qualche modo a metà tra le due opzioni radicalmente opposte di Streeck e Habermas. La crisi che vive oggi l’Ue secondo Offe è infatti dovuta principalmente a un contraddizione fondamentale: «In estrema sintesi: ciò che sarebbe necessario fare con urgenza è estremamente impopolare e di conseguenza praticamente impossibile in un contesto democratico. Ciò che si dovrebbe fare, e su cui tutti sono d’accordo ‘in linea di principio’ (ossia una mutualizzazione del debito su larga scala e a lungo termine, che porterebbe a massicce misure redistributive sia tra gli stati membri sia tra le classi sociali), non può essere ‘venduto’ agli elettori degli stati membri che finora sono stati meno colpiti dalla crisi rispetto a quelli della periferia. Nello stesso tempo, occorrerebbe una spinta rapida e sostenuta alla competitività dei paesi periferici, un adeguamento del loro costo del lavoro (inteso come rapporto tra salari reali e produttività del lavoro) che porterebbe al raggiungimento di un relativo equilibrio commerciale e a livelli sostenibili dei deficit di bilancio. Tutto ciò è considerato necessario, ma anche impossibile da realizzare senza compromettere irreparabilmente i sistemi politici democratici di questi paesi» (pp. 20-21). In sostanza, dunque, Offe sostiene che le misure indicate da Habermas sarebbero effettivamente capaci di superare le difficoltà economiche odierne. Ma il punto è che si tratta di soluzioni di fatto impraticabili dal punto di vista politico, perché sono destinate a scontrarsi sia al Nord sia al Sud con opposizioni invalicabili. Al tempo stesso, anche il ritorno al passato – e cioè alle monete nazionali – è altrettanto impraticabile. Ed è per questo che l’Ue si trova in «una trappola senza uscita per nessuno» (p. 25). 
La valutazione dell’introduzione della moneta unica formulata da Offe non è certo generosa, perché l’unificazione monetaria viene bocciata senza appello dallo studioso tedesco. Ma, a suo avviso, non si tratta di un’operazione che sia facile – o possibile – revocare, se non a costi elevatissimi: «Non si può negare che l’euro sia stato un errore sin dall’inizio. Se si mettono due paesi come la Grecia e la Germania, per menzionare solo i casi estremi, in un’area valutaria unica, si scatenano forti pressioni economiche sul più povero e il meno produttivo, quello con i costi del lavoro più alti e perciò meno competitivo nel commercio internazionale, privandolo della possibilità di un aggiustamento esterno della propria valuta. In questo senso l’euro ha davvero legato le mani a tutti. Ma l’inclusione della periferia meno competitiva nell’Eurozona è stata uno di quegli errori che, una volta commessi, non possono essere emendati ritornando allo status quo precedente» (pp. 31-32). In sostanza, venuta meno la possibilità di un aggiustamento monetario esterno (svalutazione), l’unica via per ottenere un aggiustamento per i paesi meridionali dell’Ue è rimasta quella interna: pressioni sui salari, sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sui servizi pubblici. E dato che questi aggiustamenti ‘interni’ sono stati fatalmente richiesti e imposti ‘dall’esterno’, hanno anche innescato forti reazioni.
La strada della ‘solidarietà’ – in buona sostanza, la mutualizzazione del debito – sarebbe vantaggiosa per tutti i membri dell’Ue, e anche per la stessa Germania. Ma per adottare simili politiche manca la base ‘politica’, ossia il sentimento di appartenenza a una ‘comunità di destino’: «nell’Ue la nozione di un ‘noi’ che definisca l’ambito della solidarietà non è consolidata come riferimento di un’identità condivisa» (p. 44). E ciò significa che manca oggi – e probabilmente che mancherà domani – il sostegno indispensabile delle politiche di solidarietà. In altre parole, dei deficit che imprigionano oggi l’Ue, il più grave è quello democratico. Se il deficit commerciale delle economie più povere e il deficit di bilancio sono quasi costantemente sotto gli occhi di tutti i cittadini europei, il più grave è però proprio il deficit democratico, perché solo riducendo quel deficit si potrebbe credibilmente sperare di attenuare anche gli altri. Per adottare le politiche di ‘solidarietà’ è infatti indispensabile il sostegno dei cittadini europei. Ma, ovviamente, la carta della democratizzazione delle scelte dell’Ue è molto più insidiosa di quanto spesso sostengano gli alfieri di una piena integrazione politica come Habermas. Non si può infatti sottovalutare il fatto che le opinioni pubbliche, quando si sono trovate ad esprimersi sul processo di integrazione, si sono dimostrate tutt’altro che entusiasticamente favorevoli (basti pensare ai referendum tenuti in Francia e in Olanda sull’approvazione del trattato sulla Costituzione europea). E, d’altronde, i partiti politici che dovrebbero sostenere l’adozione di una politica solidarista non sembrano affatto così omogenei e forti sul piano europeo, come opportunamente sottolinea Offe: «personalmente sono meno ottimista di Habermas circa le possibilità che i partiti politici siano realmente capaci e determinati a formare l’opinione pubblica attraverso il dibattito e la persuasione, allo scopo di creare il sostegno per politiche inclusive e lungimiranti. Ciò di cui i partiti politici avrebbero bisogno per formare il consenso è la capacità di superare paure, sfiducia, miope e sospetti diffusi» (p. 79).
Che i partiti che oggi affollano lo scenario europeo non siano affatto in grado di superare paure e diffidenze è un fatto talmente evidente da non richiedere neppure lo sforzo di una dimostrazione. Ciò vale naturalmente per le molte ed eterogenee forze ‘euroscettiche’ ed ‘euro-critiche’, i cui consensi vanno crescendo in termini quasi esponenziali. Ma vale anche per i grandi partiti europei, e in special modo per il Partito popolare, che appare fortemente diviso al proprio interno da una linea di frattura tra Nord e Sud, probabilmente destinata ad approfondirsi nei prossimi mesi per effetto della pressione esercitata dalle formazioni euro-scettiche. Ed è scontato che le prossime elezioni europee saranno molto più che un banco di prova, quasi un’ultima spiaggia per i progetti di riforma delle istituzioni delle Ue.
Affidarsi ai sondaggi pre-elettorali è sempre rischioso, e lo è a maggior ragione per elezioni da sempre ‘anomale’ come quelle del Parlamento europeo, quantomeno perché risulta sempre difficile stimare in anticipo il peso del principale partito, quello dell’astensione. È però probabile che i due grandi partiti storicamente ‘europeisti’ – il gruppo popolare e quello socialista – si ritrovino accerchiati da opposizioni bilaterali, molto diversificate al loro interno, ma sostanzialmente unite dall’euroscetticismo. Questa situazione non avrebbe forse un esito decisivo, ma potrebbe probabilmente indebolire ulteriormente le fragili ipotesi di procedere sul terreno di riforme solidariste, perché un esito del genere di fatto andrebbe a rafforzare l’elemento intergovernativo. Anche per questo, la via d’uscita dalla ‘trappola’ in cui si è cacciata l’Unione europea sembra destinata a diventare sempre più stretta, con conseguenze del tutto imprevedibili, che solo un semplicistico ottimismo può continuare a occultare sostenendo che all’Europa “non ci sono alternative”.
     
Damiano Palano

venerdì 11 aprile 2014

La resistenza in una stanza di Simone Weil. "Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi", un volume curato da Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito



di Damiano Palano 

Nel novembre 1942, dopo aver trascorso alcuni mesi negli Stati Uniti, Simone Weil sbarca a Londra ed entra in contatto con la resistenza francese. La giovane filosofa non ha abbandonato l’idea di partecipare attivamente alla lotta clandestina e cerca così di convincere i responsabili del movimento a sposare il suo “Progetto d’una formazione di infermiere di prima linea”. Simone viene però giudicata inadatta all’azione clandestina e le viene invece affidato il compito di esaminare una serie di progetti sulla nuova Costituzione francese. Costretta a combattere la propria resistenza tra le pareti di una stanza, Simone si getta dunque a capofitto in questo lavoro. E nei mesi che precedono la sua scomparsa improvvisa, nell’agosto del 1943, ha modo di esporre gli elementi di un ripensamento maturato negli anni convulsi della guerra. I materiali di quel periodo vengono ora raccolti in Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, un volume curato da Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito (Castelvecchi, pp. 379, euro 22.00). 
E leggendo quegli appunti, certo spesso frammentari, è possibile cogliere ancora una volta la densità di una riflessione che non ha perso, a settant’anni di distanza, tutti i propri motivi d’interesse. Fra i testi che sono ospitati nel volume spiccano la Nota sulla soppressone generale dei partiti politici e la Dichiarazione degli obblighi verso l’umano. La pensatrice francese concepisce quest’ultimo scritto come una sorta di prologo a una futura costituzione, e per questo è preceduto da una Professione di fede, che, pur senza riferirsi a nessuno specifico credo religioso, prevede che chiunque sia chiamato a rivestire cariche pubbliche debba riconoscere il comune riferimento a una realtà trascendente. Perché, scrive, proprio questa realtà è l’“unico fondamento del bene”, e perché “unicamente da essa discende in questo mondo tutto il bene suscettibile di esistere, ogni bellezza, ogni verità, ogni giustizia, ogni legittimità, ogni ordine, ogni subordinazione del comportamento umano a degli obblighi”.
Ancora più gravido di suggestioni è forse il saggio La persona è sacra? In questo scritto si può trovare infatti la chiave per ricostruire l’ultima fase della sua riflessione. Quando mette in questione il carattere ‘sacro’ della persona, Simone Weil intende rimettere in discussione alcuni cardini della riflessione politica occidentale, e in particolare la visione illuministica dei diritti individuali. “In ciascun uomo vi è qualcosa di sacro”, scrive in quelle pagine. “Ma non è la sua persona. Non è neanche la persona umana. È lui, quest’uomo, molto semplicemente”. Ciò che rende ‘sacro’ ogni individuo è in altre parole solo il riferimento al bene, solo la proiezione verso il bene. “Il bene è l’unica fonte del sacro. Di sacro non vi è che il bene e quel che è relativo al bene”. È proprio alla luce di questa visione che matura la condanna dei partiti politici, di quelle «passioni collettive» che conducono a sottomettere l’individuo al collettivo e così a dimenticare ciò che rende ‘sacro’ ogni singolo individuo. Ed è per lo stesso motivo che in quegli scritti febbrili la filosofa cerca di immaginare una nuova democrazia e nuove istituzioni politiche. Istituzioni – come scrive in pagine che suonano davvero come il suo testamento intellettuale – capaci di “eliminare tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna e della bassezza”.

Damiano Palano

sabato 5 aprile 2014

Una “nuova scienza politica”? L’eredità della critica al comportamentismo e i compiti della teoria politica contemporanea - Call for paper per un panel al Convegno Sisp 2014 di Perugia (11-13 settembre)



Sono da alcuni giorni on-line i panel del XXVIII Convegno della Società Italiana di Scienza Politica (11-13 settembre 2014). Nella sezione Teoria politica, è previsto anche un panel dal titolo: Una “nuova scienza politica”? L’eredità della critica al comportamentismo e i compiti della teoria politica contemporanea


Chair: Damiano Palano

Scadenza proposte: le proposte di paper (corredate da nome, cognome, affiliazione e indirizzo mail del proponente, oltre che dal titolo e da un breve abstract di max 3000 caratteri) vanno inviate entro il 15 maggio 2014 a: 
damiano.palano@unicatt.it 


Call for paper 

Quasi cinquant’anni fa la scienza politica americana fu attraversata da una profonda lacerazione. Un eterogeneo gruppo di politologi iniziò infatti a indirizzare una fitta serie di critiche alla configurazione che nel trentennio precedente aveva assunto la disciplina. Nel clima del momento, la polemica dei contestatori, che inalberavano la bandiera di una “New Political Science”, assunse una connotazione fortemente politica, perché, per esempio, l’American Political Science Association veniva accusata di non aver assunto una posizione sulla guerra del Vietnam. Ma la critica coinvolse anche alcuni dei principi di base su cui la scienza politica statunitense si era ridefinita come ‘scienza’ dopo la Seconda Guerra Mondiale. 

La  “rivoluzione comportamentista” aveva comportato infatti una cesura netta con la ‘vecchia’ tradizione continentale degli studi politici e, al tempo stesso, aveva sposato entusiasticamente l’idea che la ‘scienza’ dei fenomeni politici dovesse costruire concetti liberi da ogni ‘infiltrazione’ filosofica, capaci di orientare una ricerca prevalentemente empirica. Proprio contro la scienza politica ‘comportamentista’, il Caucus for a New Political Science richiedeva invece che la disciplina rendesse “lo studio della politica rilevante per la lotta per un mondo migliore”. 
E, benché una simile espressione tradisse palesemente la tensione politica di molti dei giovani contestatori, ai membri del Caucus si affiancarono anche intellettuali molto lontani dalla seduzioni della contestazione, come soprattutto Hans J. Morgenthau e Leo Strauss, che probabilmente riconobbero nella protesta alcune delle obiezioni che avevano indirizzato già alcuni decenni prima alla fiducia riposta nei principi del neo-positivismo e alla netta divaricazione tra scienza politica e filosofia politica.


La protesta del Caucus ebbe una vita piuttosto breve e dopo alcuni anni la critica venne riassorbita all’interno dell’alveo di una disciplina che attenuò, almeno in parte, la propria adesione ai principi del vecchio comportamentismo. Ma, al netto delle connotazioni più esplicitamente ideologiche, legate al clima politico della fine degli anni Sessanta, alcuni dei motivi di quella polemica rimangono probabilmente ancora attuali e meritano di essere nuovamente esaminati e discussi, se non altro perché si tratta di dimensioni problematiche quasi del tutto rimosse dal dibattito politologico.

Proprio nella convinzione che si tratti di questioni ancora vitali, questo panel intende invitare alla riflessione sull’eredità che la ‘vecchia’ protesta anti-comportamentista (e anti-positivista) lascia alla teoria politica contemporanea. In particolare, sono sollecitati paper che, assumendo questa prospettiva, si concentrino su:

- i rapporti tra filosofia politica e scienza politica;
- il contributo della ‘vecchia’ tradizione degli studi politici alla teoria politica contemporanea;
- il significato attuale (e i limiti) della critica al comportamentismo politologico;
- le radici intellettuali della critica al comportamentismo politologico degli anni Sessanta;
- l’‘avalutatività’ della ricerca scientifica e il rapporto tra etica e scienza politica;
- il rapporto tra ‘fatti’ e ‘valori’ (tra descrizione e prescrizione) nella teoria democratica contemporanea;
- il rapporto tra teoria politica e azione politica.