Questa recensione al volume di Giovanni De Luna, Una politica senza religione (Einaudi, Torino, 2013), è apparso sul sito dell'Istituto di Politica-Rdp on line.
Il consolidato rituale delle «adunate oceaniche» prevedeva che, fra le
domande retoriche rivolte da Benito Mussolini alla distesa di camicie nere, non
mancasse talvolta anche il fatale interrogativo «Volete voi la vita comoda?»,
cui invariabilmente seguivano all’unisono migliaia di bellicosi «No!».
All’indomani della caduta del regime, fu piuttosto facile trovare in quella
invocazione solo il segno di una spavalderia guerresca che, pur propalata per
un ventennio, era riuscita a incidere solo superficialmente sulla società
italiana. Dopo la fine della guerra, Guglielmo Giannini poté così intonare una
protesta tardiva contro quell’etica bellicista, difendendo la ragione del tutto
‘privata’, ‘impolitica’ (e certo vagamente egoistica) di quell’«uomo qualunque»
che aveva odiato il dispregio fascista della vita comoda, almeno quanto
aborriva le ambizioni iper-politiciste, l’etica dell’impegno, l’elogio della
militanza dei nuovi partiti democratici: «Noi vogliamo vivere tranquilli»,
tuonavano come un manifesto ‘impolitico’ le parole di Giannini, «non vogliamo
agitarci permanentemente come non abbiamo voluto vivere pericolosamente; vogliamo
andare a teatro, uscire la sera, recarci in villeggiatura, trovare sigarette,
ordinarci un abito nuovo».
Non è affatto casuale che Giovanni De Luna, nel suo
recente Una politica senza religione (Einaudi,
Torino, pp. 137, euro 10.00), richiami l’invocazione di Giannini alla difesa
dei piccoli piaceri dell’«uomo qualunque». Perché in effetti, al di là
dell’effimera parabola del «qualunquismo», De Luna ritiene che nell’intera
storia unitaria le classi politiche italiane non siano state in grado di dare
al paese una «religione civile». E che alla fine, resistente a qualsiasi
tentativo di ‘civilizzazione’, sia riaffiorata ogni volta proprio la morale
impolitica dell’«uomo qualunque», l’«italiano medio» sbeffeggiato da tante
commedie degli anni Sessanta, attaccato ai piccoli piaceri, alla minute
soddisfazioni della vita quotidiana, impegnato in una spasmodica tutela degli
interessi familiari, ma del tutto indifferente alle ragioni della collettività.
La «religione civile» di cui parla De Luna non è
naturalmente una religione in senso proprio. È piuttosto un insieme di
retoriche che ‘sacralizzano’ un’entità collettiva, o, per utilizzare le parole
di Emilio Gentile, un «credo civico comune sovrapartitico e
sovraconfessionale». In altre parole, ciò cui allude De Luna è una religione
laica il cui obiettivo principale è la «‘costruzione’ di uno spazio pubblico di
appartenenza e di cittadinanza» (pp. 4-5), destinato ovviamente a mutare
notevolmente nel corso dei decenni: «La religione civile cambia nel tempo,
confrontandosi con i vari progetti di ‘fare gli italiani’, con le tradizioni
‘inventate’, con il modo in cui, di volta in volta, il nostro sistema politico
– dall’Italia liberale a quella fascista a quella repubblicana – si è misurato
con il tentativo di ‘fare i cittadini italiani’ e con la proposta di uno
specifico rapporto con il passato» (p. 5). D’altro canto, la religione civile è
inevitabilmente destinata a modificarsi nel tempo, anche perché ciò che la
contrassegna, secondo De Luna, è soprattutto il rapporto con il passato. Una
religione civile «si riferisce infatti anche e soprattutto a un patto di
memoria al quale lo Stato laico attinge per legittimare i propri valori e per
proporre i simboli grazie ai quali radicarli nelle coscienze dei suoi
cittadini», e per questo si tratta di una religione «che non conosce dogmi,
verità immutabili, ma che scaturisce da un processo, da un continuo dinamismo
che porta i suoi fondamenti ad adeguarsi alle vicende della storia, alle svolte
politiche e sociali che la caratterizzano» (p. 8). Naturalmente, ciò cui pensa
De Luna non è certo una dotazione culturale costante, ma piuttosto una
‘tradizione inventata’, non diversa dalle tradizioni inventate studiate da
Hobsbawm e Ranger nella loro classica indagine, e cioè dalle tradizioni
«costruite attraverso un meccanismo creativo che restituisce interamente alla
Politica e alle istituzioni la capacità di proporre riti e simboli che
diventano un potente fattore spirituale di integrazione sociale» (p. 11). Ma la
religione civile non è solo uno strumento di persuasione, perché nella
costruzione di simboli di identificazione De Luna ritrova proprio la più
autentica vocazione di una reale azione politica: «Una Politica che non è in
grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione tecnica
dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a soccombere
soprattutto in quelle fasi di discontinuità e rottura in cui si è sollecitati
non a gestire le vecchie tradizioni inventate da altri ma a produrne delle
nuove, che siano in grado di confrontarsi efficacemente con le rotture che
attraversano il sistema politico, garantendo la continuità dei legami sociali»
(p. 11).
Dato che ogni tradizione è sempre ‘inventata’, è
comprensibile che l’attenzione di De Luna si rivolga soprattutto alle classi
politiche, ossia a quel ceto che dovrebbe provvedere alla costruzione di una
religione civile. Proprio per questo lo storico passa rapidamente in rassegna
le grandi sequenze della vicenda unitaria, per stilare un bilancio che – prevedibilmente
– non può che rivelarsi alla fine nettamente negativo. La classe politica
liberale, accantonando fin dal principio l’ipotesi mazziniana di una
religiosità laica, affidò principalmente alla scuola, alle cerimonie pubbliche,
alle arti figurative il compito di ‘inventare’ la nuova tradizione dell’Italia
unita. Ma, sostiene De Luna, il ‘trasformismo’ di fatto neutralizzò ben presto
questi tentativi, limitandosi ad attrarre in un grande centro le espressioni
delle ‘diversità’ italiane, ma rinunciando al ruolo di organizzatore della
società da parte dello Stato. In questo senso, il fascismo segnò invece una
profonda cesura, nella misura in cui si propose effettivamente di «‘rigenerare
la nazione’, trasformando gli italiani e le italiane in una comunità di
credenti e di combattenti in stato di mobilitazione permanente agli ordini del
Duce» (pp. 22-23). Ma anche in questo caso il progetto fascista era destinato a
naufragare, e cioè a infrangersi, verso l’alto, contro l’egemonia di
istituzioni preesistenti (l’esercito, la monarchia, il Vaticano, il potere
economico), e, verso il basso, con la tenace resistenza che Giannini avrebbe
imputato all’«uomo qualunque»: «si scontrò con la duratura persistenza di un
reticolo famigliare, parentale e comunitario così solido da renderne
perennemente problematico l’assorbimento. Gli interessi locali riuscirono
spesso a rintuzzare le pretese egemoniche del nuovo potere politico, e gli
strumenti messi in campo dal regime attraverso l’intervento pubblico e le
organizzazioni legate al Pnf non riuscirono a varcare la soglia delle sfere di
influenza delle élite periferiche, che si lasciarono assorbire dalle strutture
fasciste senza perdere ruoli e funzioni direttamente legittimate dalla
continuità delle tradizioni comunitarie» (p. 27).
Anche se il bilancio rimane nettamente negativo, il
discorso di De Luna non può che modificarsi quando lo storico passa a
considerare la stagione repubblicana, a proposito della quale l’analisi si fa
naturalmente ben più approfondita (e più apertamente polemica). Con la fine
della guerra, secondo De Luna, risultò subito evidente il fallimento del
progetto mussoliniano di ‘fare gli
italiani’, perché, «dal crollo delle impalcature burocratiche fasciste
raffiorarono, nitidi, i contorni di un’Italia attraversata da mille
particolarismi, da eterogenee spinte ‘separatiste’, segnata dalla forza delle
appartenenze professionali, delle periferie avvinte in tradizioni culturali
localistiche appena scalfite dalla fascistizzazione» (p. 33). A scendere in
campo furono ovviamente i nuovi partiti di massa, e in primo luogo il Pci e la
Dc, che certo riuscirono in qualche modo a ‘unificare’ un Paese lacerato da
mille particolarismi, utilizzando però non lo strumento della ‘religione
civile’, bensì quello dell’ideologia, che – proprio come era avvenuto nel
ventennio fascista – fu «utilizzata come strumento impositivo per superare le
differenze regionali e formare un elettorato e una leadership omogenei, come
veicolo per trasformarsi da specifiche entità sub culturali, territorialmente
delimitate, in entità a base nazionale» (p. 33). In questo modo, secondo De
Luna, si allargò enormemente lo «spazio pubblico della cittadinanza» e si
sperimentarono modelli di militanza politica capaci di fuoriuscire dal
«familismo» e dall’«individualismo».
Non è però né al Pci né alla Dc che guarda lo storico
per trovare le tracce di una nuova ‘religione civile’. I due grandi partiti di
massa si limitarono infatti a elaborare e rafforzare le loro specifiche
religioni politiche, che per molti versi enfatizzavano le linee di divisione
ideologica, mentre il tentativo di edificare una autentica ‘religione civile’
viene ritrovato nel Partito d’Azione e in particolare nell’idea di
‘sacralizzare’ la Costituzione, fondandola sul sacrificio della lotta
partigiana, ravvisabile in tanti scritti e interventi di Piero Calamandrei. Ma,
secondo la ricostruzione di De Luna, questo proposito doveva scontrarsi con una
serie di robusti ostacoli, tra cui per esempio l’accordo fra comunisti e
democristiani sull’articolo 7 della Costituzione, che fu all’origine di quello
che gli azionisti definirono come «clericofascismo», ossia la riappropriazione
da parte delle istituzioni ecclesiastiche del nuovo spazio pubblico
repubblicano. E quando l’antifascismo ritornò sulla scena, negli anni Sessanta,
ciò avvenne sotto un segno notevolmente mutato rispetto a quello auspicato da
Calamandrei, perché esso diventava allora soltanto uno strumento di
legittimazione dei partiti dell’«arco costituzionale», senza più alcuna connotazione
‘religiosa’: «la scelta di ripristinare gli assetti rituali della memoria della
resistenza non riuscì a incidere con efficacia su una configurazione
dell’antifascismo che, amputata dei suoi aspetti religiosi, finiva con l’essere
schiacciata in una dimensione troppo esasperatamente partitica, consegnandosi a
una marcata dipendenza dalle alterne vicende che avrebbero segnato il nostro
sistema politico, soprattutto negli anni del crepuscolo della Prima Repubblica»
(p. 57).
Se negli anni Settanta l’antifascismo conserva ancora
la propria efficacia simbolica (tanto per la classe politica dei grandi
partiti, quanto per chi all’estrema sinistra riconosce nella Resistenza una
rivoluzione incompiuta, di cui raccogliere l’eredità e rilanciare la missione),
le cose cambiano rapidamente nel decennio seguente, quando i richiami alla
lotta partigiana diventano sempre più rituali e sbiaditi. Così, la
manifestazione del 25 aprile 1994, in cui circa mezzo milione di persone si
raccoglie a Milano per avviare una sorta di ‘nuova Resistenza’ contro
l’avanzata di nuove destre, rimane per molti versi l’ultimo episodio di una
vicenda destinata a imboccare un’altra direzione. Nel clima della Seconda
Repubblica, i nuovi attori politici – quasi senza eccezioni – si allontanano progressivamente
dai simboli e dalla retorica dell’antifascismo, non solo perché quegli
strumenti appaiono ormai logori dopo l’uso (e l’abuso) che ne hanno fatto i
partiti della Prima Repubblica, ma perché – ed è proprio questa la chiave del
pamphlet di De Luna – i nuovi protagonisti (che sono in questo caso la Lega
Nord, oltre che ovviamente Silvio Berlusconi) non sono né fascisti né
anti-fascisti, ma piuttosto ‘a-fascisti’, o, meglio, eredi degli «àpoti»
celebrati da Prezzolini, se non addirittura dell’«uomo qualunque» di cui
Giannini si era eretto a paladino. Perché ciò che emerge dal fallimento della
incompiuta (o esaurita) religione civile antifascista è, ancora una volta,
l’eterno culto del ‘particulare’ dell’italiano medio: «la destra berlusconiana
e leghista», scrive De Luna in un passaggio chiave, «ha invitato gli italiani a
riconoscersi in un’appartenenza che coincide con il sentirsi tutti figli dello
stesso benessere, in un universo sempre più affollato da derive familistiche,
egoismi aggressivi, pulsioni che oscillano tra il rancore e la passività» (p.
86). In questo quadro, il ‘familismo amorale’, di cui il politologo americano
Edward Banfield aveva rinvenute le tracce in un piccolo villaggio lucano, si
estende ben al di là di un Mezzogiorno a torto o a ragione ritenuto ‘arretrato’
e ‘sottosviluppato’, per diventare un vero e proprio ethos nazionale: «il ‘familismo amorale’ opera essenzialmente nel
privato e nei circoli ristretti dei clan parentali; mentre ‘ognuno è padrone a
casa propria’ si presenta con ambizioni molto più complessive: vuole
privatizzare lo spazio pubblico, si propone di trasformare la cittadinanza in
una costellazione di interessi da difendere in maniera aggressiva, nega alla
radice ogni progetto di religione civile fondata su diritti, doveri civici e
valori consapevolmente accettati, ha in mente una società fondata più
sull’esclusione che sull’inclusione» (p. 87).
Nello spazio lasciato vuoto dalla religione civile
antifascista, secondo De Luna si precipita la Chiesa, che cerca di riconquistare
lo spazio pubblico nella convinzione che solo il cattolicesimo possa costituire
il collante capace di tenere insieme gli italiani. Il tentativo delle gerarchie
cattoliche – per cui certo De Luna non nasconde il proprio fastidio – si
scontra però con un fallimento non da poco, ossia con l’impossibilità di
intervenire in modo significativo sul terreno dei comportamenti. In altri
termini, la Chiesa cattolica deve arrendersi dinanzi al debordante trionfo
della «religione dei consumi», una religione del tutto ‘desacralizzante’, che
però conquista ogni spazio e monopolizza ogni ambito della vita
individuale. Se il mito del benessere
finalmente conquistato aveva accompagnato gli italiani nella modernità degli
anni Sessanta, quel mito era stato a lungo ‘contenuto’, ‘civilizzato’ dai
grandi partiti di massa e dalle loro religioni civili. Ma, dopo la lunga agonia
della Prima Repubblica, con l’avvento della Seconda la completa dissoluzione
delle religioni politiche novecentesche è destinata a consegnare il campo
proprio al prorompente familismo italico, quello stesso che Mussolini aveva
esorcizzato invitando i propri seguaci ad aborrire la «vita comoda» e che
Calamandrei aveva egualmente sperato di neutralizzare con l’invocazione alla
militanza e al culto del sacrificio compiuto dai caduti della Resistenza.
Perché, secondo De Luna, è in fondo proprio la religione dei consumi a emergere
come unica vincitrice dalla transizione alla ‘Seconda Repubblica’: in quel
momento, infatti, «la capacità del mercato di colonizzare il nostro spazio
pubblico diventò straripante; contemporaneamente al crollo della credibilità
dei valori proposti dai partiti, i messaggi lanciati negli anni del boom
economico furono compiutamente recepiti e gli italiani accolsero l’invito a riconoscersi
nella condivisione di una illimitata fiducia nel progresso materiale e
nell’accrescimento dei beni e delle merci, ritenendoli in grado di riassorbire
o almeno attenuare le differenze e di costituire una ‘nazione’ in cui ci si
sentiva tutti ‘figli dello stesso benessere’. […] Al momento della nascita
della Seconda Repubblica, per la stragrande maggioranza degli italiani, gli
oggetti che si desideravano e si acquistavano erano simboli di una identità
costruita inseguendo bisogni e desideri profondi, segnali inviati anche agli
altri per testimoniare il raggiungimento di uno status, per suggellare una
identificazione voluta e forte con coloro che facevano le stesse cose. […] dopo
il buon padre di famiglia della tradizione cattolico-rurale e l’operaio torinese
di Borgo San Paolo della tradizione comunista, entrambi segnati dalla frugalità
dei comportamenti e da un forte investimento etico sul lavoro, si delineò un
altro modello di italiano – ora totalmente definito dalla coppia
‘casa-capannone’ – su cui fondare la proposta di una religione civile scaturita
dalla risposta magmatica e spontanea di un tessuto sociale progressivamente
abbandonato a se stesso dalla politica e dai partiti» (pp. 127-128).
Per quanto si proietti lungo l’intera storia unitaria,
è piuttosto scontato che il pamphlet
di De Luna debba essere considerato soprattutto come un contributo alla
rilettura della Seconda Repubblica e del tradimento delle sue numerose
promesse. E, da questo punto di vista, non possono sfuggire alcune concordanze con altre interpretazioni
proposte negli ultimi mesi, quando il fallimento politico dell’ultimo
ventennio – un fallimento cui,
ovviamente, hanno contribuito tanto il centro-destra quanto il centro-sinistra
– è divenuto innegabile. Da un certo punto di vista, la tesi secondo cui la
Seconda Repubblica sarebbe stata segnata dall’ascesa irrefrenabile della
religione dei consumi tende a convergere con la lettura proposta da Guido
Crainz nella trilogia dedicata all’ultimo mezzo secolo di storia italiana, e in
particolare nel conclusivo Il paese reale,
in cui gli anni Ottanta sono visti come un decennio chiave: sia perché
l’affermazione incontrastata dei valori consumisti dissoda il terreno su cui un
fenomeno politicamente nuovo come il ‘berlusconismo’ potrà affondare le radici
e mietere consensi per un ventennio (o forse più), sia perché – dopo la sbornia
ideologica degli anni Settanta – l’edonismo della «Milano da bere» riesce a
dare legittimità pubblica a quella sorta di inedito ‘familismo consumista’ che
tutte le grandi religioni politiche avevano condannato, e che invece era andato
maturando sotterraneamente a partire dagli anni del boom. Ma, paradossalmente, la lettura di de Luna finisce col
convergere anche con l’interpretazione del «berlusconismo» che ha fornito
recentemente uno storico come Giovanni Orsina. De Luna ritrova infatti in
Silvio Berlusconi il risultato dell’incapacità delle classi politiche italiane
di costruire una religione civile: Berlusconi diventa cioè il simbolo
dell’«uomo qualunque», di un individualismo ripiegato gelosamente (e
golosamente) sul proprio ‘particulare’, irriducibilmente ostile a ogni passione
collettiva. Paradossalmente anche Orsina suggerisce una lettura simile,
nonostante ciò che per De Luna è un fallimento da condannare – l’incapacità di
‘fare gli italiani’ – per Orsina acquisti un valore positivo, o quantomeno non
del tutto negativo. Berlusconi è infatti considerato come il primo leader
politico che rinunci esplicitamente a ‘fare gli italiani’, e cioè a rimodellare
gli italiani ‘correggendone’ i difetti congeniti, perché per il leader di Forza
Italia gli italiani vanno benissimo così come sono, con i loro piccoli vizi, le
loro astuzie, la loro inguaribile passione per il ‘particulare’, che in fondo è
anche il segreto dell’italica «arte di arrangiarsi» e di quella sua
declinazione glamour che chiama in
causa la creatività italiana, lo stile italiano e – va da sé – il made in Italy. Così, quella che appare a
De Luna come una deprecabile assenza di ethos condiviso, può diventare agli
occhi di Orsina un tratto non necessariamente nefasto, quantomeno perché la
diffidenza verso la politica (e soprattutto verso la sua onnipotenza) può
costituire il sano presupposto di un autentico sistema liberale, oltre che una
garanzia per la possibilità dell’alternanza al potere.
Al di là delle divergenze nella valutazione, una
simile convergenza non può sorprendere più di tanto. Ma, a prescindere
dall’interpretazione del «berlusconismo» proposta da Orsina (su cui rimando a Un polpo impigliato nella storia d’Italia,
in «Rivista di Politica», 3/2013, pp. 25-30), ci sono alcuni passaggi del
ragionamento di De Luna che meritano una particolare considerazione. Uno di
questi chiama in causa lo stesso presupposto del discorso dello storico, ossia
l’idea che la ‘religione civile’ sia una religione laica in grado di costruire
uno spazio comune a tutti i cittadini. Perché, nonostante il discorso di De
Luna abbia sua indiscutibile coerenza, ci si può chiedere se davvero
l’affermazione di una ‘religione civile’ sia stata ostacolata dalla resistenza
dei particolarismi e dei localismi. In altre parole, per mettere davvero alla
prova l’ipotesi dello storico, varrebbe la pena chiedersi se il fallimento
delle classi dirigenti italiane non sia almeno in parte dovuto al tipo di
religione civile cui esse puntarono. A ben vedere, infatti, nonostante sia
facile riconoscere con De Luna che tutte le classi dirigenti hanno fallito nel
loro intento di costruire una religione civile, è però difficile non
sottolineare come questo tentativo sia stato di volta in volta sperimentato più
come un modo per occultare le tracce dei conflitti ancora vivi che come una
soluzione per superarli e per siglare un compromesso. Per esempio, è facile
riconoscere nella costruzione del mito sabaudo del Risorgimento un modo per
occultare le modalità in cui l’unificazione nazionale si era svolta e per
criminalizzare una parte di quei gruppi sociali che ad essa si erano opposti, e
allo stesso modo è agevole sorgere nella fisionomia del nuovo Stato un riflesso
del tentativo di occultare il dissidio con il mondo cattolico nel trentennio
dopo Porta Pia. E se un analogo limite congenito è fin troppo palese nella
religione civile fascista, si può anche ipotizzare che l’antifascismo non sia
mai riuscito a conquistare quei caratteri di religione civile che Calamandrei
auspicava anche perché non poteva essere il credo di tutti gli italiani, e
soprattutto di una parte di italiani (forse non maggioritaria ma comunque
consistente) che non potevano essere definiti propriamente come nostalgici del
fascismo, e che però rimanevano – e sarebbero rimasti per decenni – ostili
all’antifascismo e alla sua retorica.
Damiano Palano
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