lunedì 31 marzo 2014

Abbiamo davvero bisogno di una «religione civile»? Leggendo «Una politica senza religione» di Giovanni De Luna.


 

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Giovanni De Luna, Una politica senza religione (Einaudi, Torino, 2013), è apparso sul sito dell'Istituto di Politica-Rdp on line.

Il consolidato rituale delle «adunate oceaniche» prevedeva che, fra le domande retoriche rivolte da Benito Mussolini alla distesa di camicie nere, non mancasse talvolta anche il fatale interrogativo «Volete voi la vita comoda?», cui invariabilmente seguivano all’unisono migliaia di bellicosi «No!». All’indomani della caduta del regime, fu piuttosto facile trovare in quella invocazione solo il segno di una spavalderia guerresca che, pur propalata per un ventennio, era riuscita a incidere solo superficialmente sulla società italiana. Dopo la fine della guerra, Guglielmo Giannini poté così intonare una protesta tardiva contro quell’etica bellicista, difendendo la ragione del tutto ‘privata’, ‘impolitica’ (e certo vagamente egoistica) di quell’«uomo qualunque» che aveva odiato il dispregio fascista della vita comoda, almeno quanto aborriva le ambizioni iper-politiciste, l’etica dell’impegno, l’elogio della militanza dei nuovi partiti democratici: «Noi vogliamo vivere tranquilli», tuonavano come un manifesto ‘impolitico’ le parole di Giannini, «non vogliamo agitarci permanentemente come non abbiamo voluto vivere pericolosamente; vogliamo andare a teatro, uscire la sera, recarci in villeggiatura, trovare sigarette, ordinarci un abito nuovo».

Non è affatto casuale che Giovanni De Luna, nel suo recente Una politica senza religione (Einaudi, Torino, pp. 137, euro 10.00), richiami l’invocazione di Giannini alla difesa dei piccoli piaceri dell’«uomo qualunque». Perché in effetti, al di là dell’effimera parabola del «qualunquismo», De Luna ritiene che nell’intera storia unitaria le classi politiche italiane non siano state in grado di dare al paese una «religione civile». E che alla fine, resistente a qualsiasi tentativo di ‘civilizzazione’, sia riaffiorata ogni volta proprio la morale impolitica dell’«uomo qualunque», l’«italiano medio» sbeffeggiato da tante commedie degli anni Sessanta, attaccato ai piccoli piaceri, alla minute soddisfazioni della vita quotidiana, impegnato in una spasmodica tutela degli interessi familiari, ma del tutto indifferente alle ragioni della collettività.

La «religione civile» di cui parla De Luna non è naturalmente una religione in senso proprio. È piuttosto un insieme di retoriche che ‘sacralizzano’ un’entità collettiva, o, per utilizzare le parole di Emilio Gentile, un «credo civico comune sovrapartitico e sovraconfessionale». In altre parole, ciò cui allude De Luna è una religione laica il cui obiettivo principale è la «‘costruzione’ di uno spazio pubblico di appartenenza e di cittadinanza» (pp. 4-5), destinato ovviamente a mutare notevolmente nel corso dei decenni: «La religione civile cambia nel tempo, confrontandosi con i vari progetti di ‘fare gli italiani’, con le tradizioni ‘inventate’, con il modo in cui, di volta in volta, il nostro sistema politico – dall’Italia liberale a quella fascista a quella repubblicana – si è misurato con il tentativo di ‘fare i cittadini italiani’ e con la proposta di uno specifico rapporto con il passato» (p. 5). D’altro canto, la religione civile è inevitabilmente destinata a modificarsi nel tempo, anche perché ciò che la contrassegna, secondo De Luna, è soprattutto il rapporto con il passato. Una religione civile «si riferisce infatti anche e soprattutto a un patto di memoria al quale lo Stato laico attinge per legittimare i propri valori e per proporre i simboli grazie ai quali radicarli nelle coscienze dei suoi cittadini», e per questo si tratta di una religione «che non conosce dogmi, verità immutabili, ma che scaturisce da un processo, da un continuo dinamismo che porta i suoi fondamenti ad adeguarsi alle vicende della storia, alle svolte politiche e sociali che la caratterizzano» (p. 8). Naturalmente, ciò cui pensa De Luna non è certo una dotazione culturale costante, ma piuttosto una ‘tradizione inventata’, non diversa dalle tradizioni inventate studiate da Hobsbawm e Ranger nella loro classica indagine, e cioè dalle tradizioni «costruite attraverso un meccanismo creativo che restituisce interamente alla Politica e alle istituzioni la capacità di proporre riti e simboli che diventano un potente fattore spirituale di integrazione sociale» (p. 11). Ma la religione civile non è solo uno strumento di persuasione, perché nella costruzione di simboli di identificazione De Luna ritrova proprio la più autentica vocazione di una reale azione politica: «Una Politica che non è in grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a soccombere soprattutto in quelle fasi di discontinuità e rottura in cui si è sollecitati non a gestire le vecchie tradizioni inventate da altri ma a produrne delle nuove, che siano in grado di confrontarsi efficacemente con le rotture che attraversano il sistema politico, garantendo la continuità dei legami sociali» (p. 11).

Dato che ogni tradizione è sempre ‘inventata’, è comprensibile che l’attenzione di De Luna si rivolga soprattutto alle classi politiche, ossia a quel ceto che dovrebbe provvedere alla costruzione di una religione civile. Proprio per questo lo storico passa rapidamente in rassegna le grandi sequenze della vicenda unitaria, per stilare un bilancio che – prevedibilmente – non può che rivelarsi alla fine nettamente negativo. La classe politica liberale, accantonando fin dal principio l’ipotesi mazziniana di una religiosità laica, affidò principalmente alla scuola, alle cerimonie pubbliche, alle arti figurative il compito di ‘inventare’ la nuova tradizione dell’Italia unita. Ma, sostiene De Luna, il ‘trasformismo’ di fatto neutralizzò ben presto questi tentativi, limitandosi ad attrarre in un grande centro le espressioni delle ‘diversità’ italiane, ma rinunciando al ruolo di organizzatore della società da parte dello Stato. In questo senso, il fascismo segnò invece una profonda cesura, nella misura in cui si propose effettivamente di «‘rigenerare la nazione’, trasformando gli italiani e le italiane in una comunità di credenti e di combattenti in stato di mobilitazione permanente agli ordini del Duce» (pp. 22-23). Ma anche in questo caso il progetto fascista era destinato a naufragare, e cioè a infrangersi, verso l’alto, contro l’egemonia di istituzioni preesistenti (l’esercito, la monarchia, il Vaticano, il potere economico), e, verso il basso, con la tenace resistenza che Giannini avrebbe imputato all’«uomo qualunque»: «si scontrò con la duratura persistenza di un reticolo famigliare, parentale e comunitario così solido da renderne perennemente problematico l’assorbimento. Gli interessi locali riuscirono spesso a rintuzzare le pretese egemoniche del nuovo potere politico, e gli strumenti messi in campo dal regime attraverso l’intervento pubblico e le organizzazioni legate al Pnf non riuscirono a varcare la soglia delle sfere di influenza delle élite periferiche, che si lasciarono assorbire dalle strutture fasciste senza perdere ruoli e funzioni direttamente legittimate dalla continuità delle tradizioni comunitarie» (p. 27).
Anche se il bilancio rimane nettamente negativo, il discorso di De Luna non può che modificarsi quando lo storico passa a considerare la stagione repubblicana, a proposito della quale l’analisi si fa naturalmente ben più approfondita (e più apertamente polemica). Con la fine della guerra, secondo De Luna, risultò subito evidente il fallimento del progetto mussoliniano di ‘fare  gli italiani’, perché, «dal crollo delle impalcature burocratiche fasciste raffiorarono, nitidi, i contorni di un’Italia attraversata da mille particolarismi, da eterogenee spinte ‘separatiste’, segnata dalla forza delle appartenenze professionali, delle periferie avvinte in tradizioni culturali localistiche appena scalfite dalla fascistizzazione» (p. 33). A scendere in campo furono ovviamente i nuovi partiti di massa, e in primo luogo il Pci e la Dc, che certo riuscirono in qualche modo a ‘unificare’ un Paese lacerato da mille particolarismi, utilizzando però non lo strumento della ‘religione civile’, bensì quello dell’ideologia, che – proprio come era avvenuto nel ventennio fascista – fu «utilizzata come strumento impositivo per superare le differenze regionali e formare un elettorato e una leadership omogenei, come veicolo per trasformarsi da specifiche entità sub culturali, territorialmente delimitate, in entità a base nazionale» (p. 33). In questo modo, secondo De Luna, si allargò enormemente lo «spazio pubblico della cittadinanza» e si sperimentarono modelli di militanza politica capaci di fuoriuscire dal «familismo» e dall’«individualismo».

Non è però né al Pci né alla Dc che guarda lo storico per trovare le tracce di una nuova ‘religione civile’. I due grandi partiti di massa si limitarono infatti a elaborare e rafforzare le loro specifiche religioni politiche, che per molti versi enfatizzavano le linee di divisione ideologica, mentre il tentativo di edificare una autentica ‘religione civile’ viene ritrovato nel Partito d’Azione e in particolare nell’idea di ‘sacralizzare’ la Costituzione, fondandola sul sacrificio della lotta partigiana, ravvisabile in tanti scritti e interventi di Piero Calamandrei. Ma, secondo la ricostruzione di De Luna, questo proposito doveva scontrarsi con una serie di robusti ostacoli, tra cui per esempio l’accordo fra comunisti e democristiani sull’articolo 7 della Costituzione, che fu all’origine di quello che gli azionisti definirono come «clericofascismo», ossia la riappropriazione da parte delle istituzioni ecclesiastiche del nuovo spazio pubblico repubblicano. E quando l’antifascismo ritornò sulla scena, negli anni Sessanta, ciò avvenne sotto un segno notevolmente mutato rispetto a quello auspicato da Calamandrei, perché esso diventava allora soltanto uno strumento di legittimazione dei partiti dell’«arco costituzionale», senza più alcuna connotazione ‘religiosa’: «la scelta di ripristinare gli assetti rituali della memoria della resistenza non riuscì a incidere con efficacia su una configurazione dell’antifascismo che, amputata dei suoi aspetti religiosi, finiva con l’essere schiacciata in una dimensione troppo esasperatamente partitica, consegnandosi a una marcata dipendenza dalle alterne vicende che avrebbero segnato il nostro sistema politico, soprattutto negli anni del crepuscolo della Prima Repubblica» (p. 57).

Se negli anni Settanta l’antifascismo conserva ancora la propria efficacia simbolica (tanto per la classe politica dei grandi partiti, quanto per chi all’estrema sinistra riconosce nella Resistenza una rivoluzione incompiuta, di cui raccogliere l’eredità e rilanciare la missione), le cose cambiano rapidamente nel decennio seguente, quando i richiami alla lotta partigiana diventano sempre più rituali e sbiaditi. Così, la manifestazione del 25 aprile 1994, in cui circa mezzo milione di persone si raccoglie a Milano per avviare una sorta di ‘nuova Resistenza’ contro l’avanzata di nuove destre, rimane per molti versi l’ultimo episodio di una vicenda destinata a imboccare un’altra direzione. Nel clima della Seconda Repubblica, i nuovi attori politici – quasi senza eccezioni – si allontanano progressivamente dai simboli e dalla retorica dell’antifascismo, non solo perché quegli strumenti appaiono ormai logori dopo l’uso (e l’abuso) che ne hanno fatto i partiti della Prima Repubblica, ma perché – ed è proprio questa la chiave del pamphlet di De Luna – i nuovi protagonisti (che sono in questo caso la Lega Nord, oltre che ovviamente Silvio Berlusconi) non sono né fascisti né anti-fascisti, ma piuttosto ‘a-fascisti’, o, meglio, eredi degli «àpoti» celebrati da Prezzolini, se non addirittura dell’«uomo qualunque» di cui Giannini si era eretto a paladino. Perché ciò che emerge dal fallimento della incompiuta (o esaurita) religione civile antifascista è, ancora una volta, l’eterno culto del ‘particulare’ dell’italiano medio: «la destra berlusconiana e leghista», scrive De Luna in un passaggio chiave, «ha invitato gli italiani a riconoscersi in un’appartenenza che coincide con il sentirsi tutti figli dello stesso benessere, in un universo sempre più affollato da derive familistiche, egoismi aggressivi, pulsioni che oscillano tra il rancore e la passività» (p. 86). In questo quadro, il ‘familismo amorale’, di cui il politologo americano Edward Banfield aveva rinvenute le tracce in un piccolo villaggio lucano, si estende ben al di là di un Mezzogiorno a torto o a ragione ritenuto ‘arretrato’ e ‘sottosviluppato’, per diventare un vero e proprio ethos nazionale: «il ‘familismo amorale’ opera essenzialmente nel privato e nei circoli ristretti dei clan parentali; mentre ‘ognuno è padrone a casa propria’ si presenta con ambizioni molto più complessive: vuole privatizzare lo spazio pubblico, si propone di trasformare la cittadinanza in una costellazione di interessi da difendere in maniera aggressiva, nega alla radice ogni progetto di religione civile fondata su diritti, doveri civici e valori consapevolmente accettati, ha in mente una società fondata più sull’esclusione che sull’inclusione» (p. 87).

Nello spazio lasciato vuoto dalla religione civile antifascista, secondo De Luna si precipita la Chiesa, che cerca di riconquistare lo spazio pubblico nella convinzione che solo il cattolicesimo possa costituire il collante capace di tenere insieme gli italiani. Il tentativo delle gerarchie cattoliche – per cui certo De Luna non nasconde il proprio fastidio – si scontra però con un fallimento non da poco, ossia con l’impossibilità di intervenire in modo significativo sul terreno dei comportamenti. In altri termini, la Chiesa cattolica deve arrendersi dinanzi al debordante trionfo della «religione dei consumi», una religione del tutto ‘desacralizzante’, che però conquista ogni spazio e monopolizza ogni ambito della vita individuale.  Se il mito del benessere finalmente conquistato aveva accompagnato gli italiani nella modernità degli anni Sessanta, quel mito era stato a lungo ‘contenuto’, ‘civilizzato’ dai grandi partiti di massa e dalle loro religioni civili. Ma, dopo la lunga agonia della Prima Repubblica, con l’avvento della Seconda la completa dissoluzione delle religioni politiche novecentesche è destinata a consegnare il campo proprio al prorompente familismo italico, quello stesso che Mussolini aveva esorcizzato invitando i propri seguaci ad aborrire la «vita comoda» e che Calamandrei aveva egualmente sperato di neutralizzare con l’invocazione alla militanza e al culto del sacrificio compiuto dai caduti della Resistenza. Perché, secondo De Luna, è in fondo proprio la religione dei consumi a emergere come unica vincitrice dalla transizione alla ‘Seconda Repubblica’: in quel momento, infatti, «la capacità del mercato di colonizzare il nostro spazio pubblico diventò straripante; contemporaneamente al crollo della credibilità dei valori proposti dai partiti, i messaggi lanciati negli anni del boom economico furono compiutamente recepiti e gli italiani accolsero l’invito a riconoscersi nella condivisione di una illimitata fiducia nel progresso materiale e nell’accrescimento dei beni e delle merci, ritenendoli in grado di riassorbire o almeno attenuare le differenze e di costituire una ‘nazione’ in cui ci si sentiva tutti ‘figli dello stesso benessere’. […] Al momento della nascita della Seconda Repubblica, per la stragrande maggioranza degli italiani, gli oggetti che si desideravano e si acquistavano erano simboli di una identità costruita inseguendo bisogni e desideri profondi, segnali inviati anche agli altri per testimoniare il raggiungimento di uno status, per suggellare una identificazione voluta e forte con coloro che facevano le stesse cose. […] dopo il buon padre di famiglia della tradizione cattolico-rurale e l’operaio torinese di Borgo San Paolo della tradizione comunista, entrambi segnati dalla frugalità dei comportamenti e da un forte investimento etico sul lavoro, si delineò un altro modello di italiano – ora totalmente definito dalla coppia ‘casa-capannone’ – su cui fondare la proposta di una religione civile scaturita dalla risposta magmatica e spontanea di un tessuto sociale progressivamente abbandonato a se stesso dalla politica e dai partiti» (pp. 127-128).

Per quanto si proietti lungo l’intera storia unitaria, è piuttosto scontato che il pamphlet di De Luna debba essere considerato soprattutto come un contributo alla rilettura della Seconda Repubblica e del tradimento delle sue numerose promesse. E, da questo punto di vista, non possono sfuggire  alcune concordanze con altre interpretazioni proposte negli ultimi mesi, quando il fallimento politico dell’ultimo ventennio  – un fallimento cui, ovviamente, hanno contribuito tanto il centro-destra quanto il centro-sinistra – è divenuto innegabile. Da un certo punto di vista, la tesi secondo cui la Seconda Repubblica sarebbe stata segnata dall’ascesa irrefrenabile della religione dei consumi tende a convergere con la lettura proposta da Guido Crainz nella trilogia dedicata all’ultimo mezzo secolo di storia italiana, e in particolare nel conclusivo Il paese reale, in cui gli anni Ottanta sono visti come un decennio chiave: sia perché l’affermazione incontrastata dei valori consumisti dissoda il terreno su cui un fenomeno politicamente nuovo come il ‘berlusconismo’ potrà affondare le radici e mietere consensi per un ventennio (o forse più), sia perché – dopo la sbornia ideologica degli anni Settanta – l’edonismo della «Milano da bere» riesce a dare legittimità pubblica a quella sorta di inedito ‘familismo consumista’ che tutte le grandi religioni politiche avevano condannato, e che invece era andato maturando sotterraneamente a partire dagli anni del boom. Ma, paradossalmente, la lettura di de Luna finisce col convergere anche con l’interpretazione del «berlusconismo» che ha fornito recentemente uno storico come Giovanni Orsina. De Luna ritrova infatti in Silvio Berlusconi il risultato dell’incapacità delle classi politiche italiane di costruire una religione civile: Berlusconi diventa cioè il simbolo dell’«uomo qualunque», di un individualismo ripiegato gelosamente (e golosamente) sul proprio ‘particulare’, irriducibilmente ostile a ogni passione collettiva. Paradossalmente anche Orsina suggerisce una lettura simile, nonostante ciò che per De Luna è un fallimento da condannare – l’incapacità di ‘fare gli italiani’ – per Orsina acquisti un valore positivo, o quantomeno non del tutto negativo. Berlusconi è infatti considerato come il primo leader politico che rinunci esplicitamente a ‘fare gli italiani’, e cioè a rimodellare gli italiani ‘correggendone’ i difetti congeniti, perché per il leader di Forza Italia gli italiani vanno benissimo così come sono, con i loro piccoli vizi, le loro astuzie, la loro inguaribile passione per il ‘particulare’, che in fondo è anche il segreto dell’italica «arte di arrangiarsi» e di quella sua declinazione glamour che chiama in causa la creatività italiana, lo stile italiano e – va da sé – il made in Italy. Così, quella che appare a De Luna come una deprecabile assenza di ethos condiviso, può diventare agli occhi di Orsina un tratto non necessariamente nefasto, quantomeno perché la diffidenza verso la politica (e soprattutto verso la sua onnipotenza) può costituire il sano presupposto di un autentico sistema liberale, oltre che una garanzia per la possibilità dell’alternanza al potere.

Al di là delle divergenze nella valutazione, una simile convergenza non può sorprendere più di tanto. Ma, a prescindere dall’interpretazione del «berlusconismo» proposta da Orsina (su cui rimando a Un polpo impigliato nella storia d’Italia, in «Rivista di Politica», 3/2013, pp. 25-30), ci sono alcuni passaggi del ragionamento di De Luna che meritano una particolare considerazione. Uno di questi chiama in causa lo stesso presupposto del discorso dello storico, ossia l’idea che la ‘religione civile’ sia una religione laica in grado di costruire uno spazio comune a tutti i cittadini. Perché, nonostante il discorso di De Luna abbia sua indiscutibile coerenza, ci si può chiedere se davvero l’affermazione di una ‘religione civile’ sia stata ostacolata dalla resistenza dei particolarismi e dei localismi. In altre parole, per mettere davvero alla prova l’ipotesi dello storico, varrebbe la pena chiedersi se il fallimento delle classi dirigenti italiane non sia almeno in parte dovuto al tipo di religione civile cui esse puntarono. A ben vedere, infatti, nonostante sia facile riconoscere con De Luna che tutte le classi dirigenti hanno fallito nel loro intento di costruire una religione civile, è però difficile non sottolineare come questo tentativo sia stato di volta in volta sperimentato più come un modo per occultare le tracce dei conflitti ancora vivi che come una soluzione per superarli e per siglare un compromesso. Per esempio, è facile riconoscere nella costruzione del mito sabaudo del Risorgimento un modo per occultare le modalità in cui l’unificazione nazionale si era svolta e per criminalizzare una parte di quei gruppi sociali che ad essa si erano opposti, e allo stesso modo è agevole sorgere nella fisionomia del nuovo Stato un riflesso del tentativo di occultare il dissidio con il mondo cattolico nel trentennio dopo Porta Pia. E se un analogo limite congenito è fin troppo palese nella religione civile fascista, si può anche ipotizzare che l’antifascismo non sia mai riuscito a conquistare quei caratteri di religione civile che Calamandrei auspicava anche perché non poteva essere il credo di tutti gli italiani, e soprattutto di una parte di italiani (forse non maggioritaria ma comunque consistente) che non potevano essere definiti propriamente come nostalgici del fascismo, e che però rimanevano – e sarebbero rimasti per decenni – ostili all’antifascismo e alla sua retorica.


Riconoscere che tutti i diversi tentativi di costruire una religione civile in Italia erano anche tentativi per cancellare la memoria di una parte, e per dissolverne ogni traccia di legittimità politica e morale,  non è però utile soltanto in chiave storiografica, perché rimane probabilmente un’operazione indispensabile anche per capire l’Italia di oggi, dal momento che tutte le divisioni del passato, lungi dall’essere dissolte, continuano a sovrapporsi, a intersecarsi e rivitalizzarsi a ogni stagione. Da un certo punto di vista, bisognerebbe forse prendere atto che l’Italia è davvero un ‘paese diviso’, e che la sua divisione non dipende soltanto dalla resistenza del culto del ‘particulare’ o da effimere fascinazioni ideologiche, ma anche da profonde radici storiche. Se per un verso, in sede storiografica e politologica,  questa divisione propone una serie di interrogativi cruciali, dall’altro bisognerebbe però ammettere che – pur con tutti i problemi che da ciò derivano – tale divisione rappresenta paradossalmente un carattere costitutivo dell’«identità italiana». Tanto che alla fine – forse anche un po’ provocatoriamente –sarebbe forse necessario riconoscere che i partiti di massa italiani, almeno nel primo trentennio repubblicano, ebbero – insieme ai molti demeriti – quantomeno il merito storico di non aver mai tentato seriamente di edificare una ‘religione civile’.

Damiano Palano

mercoledì 26 marzo 2014

Il sovrano senza qualità. Indagini intorno a Carl Schmitt. Un seminario il 3 aprile con Riccardo Cavallo e Alessio Musio

Carl Schmitt

Il 3 aprile, alle ore 10.00, presso l'Università Cattolica - Aula NI.111-112 (Via Nirone 15 - Milano), si terrà un seminario dal titolo

Il sovrano senza qualità.
Indagini intorno a Carl Schmitt

Il seminario vedrà la partecipazione di Riccardo Cavallo (Università di Catania), Alessio Musio (Università Cattolica), Damiano Palano (Università Cattolica)

Vedi qui la recensione al volume di Alessio Musio, Etica della sovranità. Questioni antropologiche in Kelsen e Schmitt (Vita e Pensiero 2012).


lunedì 24 marzo 2014

venerdì 21 marzo 2014

Il realismo cristiano di Reinhold Niebuhr. Un libro di Luca G. Castellin

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Luca G. Castellin, Il realista delle distanze. Reinhold Niebuhr e la politica internazionale (Rubbettino, pp. 181, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" del 20 marzo 2014. 

È del tutto comprensibile che la tradizione del realismo politico sia sempre circondata da un alone di sospetto. L’appello a quella che Machiavelli definiva nel Principe come la “realtà effettuale della cosa” si è infatti spesso tradotto non solo nel presupposto di una conoscenza ‘scientifica’ della politica, ma soprattutto nella legittimazione del ‘più forte’. E così il realismo si è frequentemente confuso con un cinismo compiaciuto, che non esita a dileggiare le comuni aspirazioni alla giustizia e a mostrare l’impotenza politica delle prescrizioni morali. A ben vedere, però, non tutti i realisti sono davvero indifferenti alla dimensione etica. E in questo senso risulta emblematica la riflessione di Reinhold Niebuhr (1892-1971), considerato da molti come uno dei più influenti pensatori politici americani del XX secolo. Come mostra infatti Luca G. Castellin nel suo recente Il realista delle distanze. Reinhold Niebuhr e la politica internazionale (Rubbettino, pp. 181, euro 16.00), lo studioso non rinuncia affatto a considerare la dimensione etica, anche se è ben consapevole delle tensioni tra etica e politica, oltre che del rapporto problematico tra morale individuale e morale sociale. E questo atteggiamento discende soprattutto dalle premesse teologiche del suo pensiero. Come tutti i grandi realisti, anche Niebuhr procede infatti dal presupposto che per comprendere davvero la politica si debbano riconoscere gli elementi costanti della natura umana. Ma il suo “realismo cristiano” attinge ad Agostino, e cioè a una visione secondo cui gli esseri umani, nonostante vivano sotto il dominio degli impulsi naturali, sono anche animati da un’insopprimibile tensione a trascendere la natura. Negli esseri umani sono così all’opera, al tempo stesso, impulsi altruistici ed egoistici. E se il potere coercitivo è necessario per consentire l’ordine politico, non è certo uno strumento in grado di rimuovere le pulsioni che spingono al conflitto e alla ricerca del potere. Proprio su queste basi Niebuhr può allora osservare le dinamiche politiche da una prospettiva più ampia e consapevole. 
E per questo Castellin lo definisce, adottando una formula di Flannery O’Connor, come un “realista delle distanze”, capace di “vedere in primo piano le cose lontane”. Ciò non vuol dire ovviamente che Niebuhr debba essere considerato come un profeta, ma significa piuttosto che lo sguardo del “realismo cristiano” gli consente sempre di cogliere l’ambiguità della politica e delle sue promesse. D’altronde Niebuhr – come scrisse Martin Wight negli anni Quaranta – può essere considerato davvero come una sorta di moderno Ezechiele. Perché, persino nei momenti in cui è più facile cedere alle seduzioni e agli entusiasmi dell’ideologia, non cessa di mettere in guardia dai rischi fatali della tracotanza e di attaccare la pretesa delle democrazie occidentali di essere gli alfieri predestinati di una causa universale di giustizia.

mercoledì 19 marzo 2014

Se possiamo fare a meno dei partiti politici. Una discussione sulla rivista "Vita e Pensiero" (nel centenario dalla fondazione)

Sul nuovo fascicolo di "Vita e Pensiero", in uscita in questi giorni, appare anche Se possiamo fare a meno dei partiti politici, una discussione sui partiti odierni con gli interventi di Piero Ignazi e Damiano Palano.
In questo fascicolo, con cui incominciano le celebrazioni dei cento anni della rivista fondata nel 1914, insieme a molti articoli interessanti (fra gli altri, di Giancarlo Galli, Antonio Spadaro, Franco Cardini, Silvio Soldini, Giuseppe Lupo, Lorenzo Ornaghi), sono ripubblicati anche due saggi di Agostino Gemelli (Miti, fantasie, realizzazioni della cibernetica) e Norberto Bobbio (Etica della potenza ed etica del dialogo).

sabato 15 marzo 2014

Alla ricerca del partito che non c’è. La «Traversata» di Fabrizio Barca (e la disgregazione del Pd)



di Damiano Palano

Alla metà degli anni Settanta, Norberto Bobbio avviò una delle grandi polemiche che, nel corso della storia della Prima Repubblica, lo contrapposero agli intellettuali vicini al Partito Comunista. Venti anni dopo aver rimproverato a Palmiro Togliatti e agli intellettuali del Pci la carenza di attenzione per le garanzie proprie della tradizione liberali e del costituzionalismo, il filosofo torinese innescò infatti una nuova discussione, destinata ad avere ripercussioni altrettanto rilevanti. Naturalmente il clima era molto diverso da quello degli anni Cinquanta, anche perché il Pci, seppur con molte esitazioni, aveva già incominciato a prendere le distanze dal modello sovietico. Il fatto che Enrico Berlinguer avesse delineato la strategia del «compromesso storico» rendeva però nuovamente attuali molti dei problemi già sollevati nei saggi raccolti in Politica e cultura. E per questo Bobbio tornava a interrogarsi – non senza intenti polemici – sull’inesplorato e spinoso tema del destino delle libertà politiche nel socialismo. 
Proprio ragionando intorno alla prospettiva della conquista pacifica del governo da parte del Pci, Bobbio sottolineava in particolare come il ceto intellettuale e politico vicino a quel partito non avesse ancora minimamente colmato il deficit di riflessione sullo Stato proprio della teoria marxista. In un celebre intervento pubblicato sulle pagine di «Mondoperaio», il filosofo sosteneva infatti che il marxismo non aveasse mai elaborato una vera e propria teoria dello Stato. E anche per questo – a parte pochissime eccezioni – lo Stato e la politica erano rimaste per i marxisti delle vere e proprie incognite. 
Dinanzi alle risposte critiche provenienti da studiosi dell’area del Pci, Bobbio replicò imputando agli avversari polemici un vero e proprio «abuso del principio di autorità». E questa accusa non era certo priva di un fondo di verità, perché in effetti molti dei critici, più che indicare le linee di una ricerca sullo Stato contemporaneo che si ponesse nel solco degli scritti di Marx, si limitavano a dare una nuova interpretazione di questi ultimi, anteponendo l’autorità dunque del maestro alla dure repliche della storia. Mentre rispondeva ai suoi avversari polemici Bobbio non sminuiva d’altronde la rilevanza della teoria politica di Marx, ma mirava piuttosto ad escludere che essa contenesse davvero una teoria dello Stato. Al massimo, osservava, era possibile rintracciare nell’intera opera di Marx alcune scarne pagine e «formulette oscure» su cui gli interpreti si erano sbizzarriti, ma che difficilmente potevano sottrarsi all’accusa di «semplicismo». Come scriveva: «La verità è che Marx non aveva alcuna intenzione con quelle poche formule di dare ricette per l’avvenire, e solo l’abuso del principio di autorità […] ha trasformato cinque o sei tesi in un trattato di diritto pubblico. Con l’aggravante, di cui ancora una volta Marx non aveva alcuna colpa, che in questi ultimi cent’anni i problemi dello stato, soprattutto il problema del rapporto fra organizzazione dello stato e democrazia, sono diventati sempre più complessi, e quindi sempre più refrattari ad essere racchiusi in formule ad effetto come ‘democrazia diretta’, ‘autogoverno dei produttori’ e simili» (N. Bobbio, Esiste una dottrina marxista dello Stato?, ora in Id., Compromesso e alternanza nel sistema politico italiano, Donzelli, Roma, 2006, pp. 26-27). 
Il punto cruciale che Bobbio sottolineava era però soprattutto che nella teoria marxista era possibile ritrovare un enorme corpus di riflessioni dedicate al partito, alla sua struttura, alle sue funzioni, ma non riflessioni significative riservate allo Stato. In altre parole, il movimento operaio aveva nutrito un interesse costante per i modi e gli strumenti della conquista del potere, ma si era disinteressato quasi del tutto dei modi del suo esercizio. Così, mentre al partito – come strumento di lotta politica – era stato assegnato il centro della ricerca teorica, risultava invece sostanzialmente assente – o del tutto carente – un’analisi indirizzata al funzionamento e ai meccanismi operativi dello Stato contemporaneo. «Non c’è da meravigliarsi», osservava dunque, «se all’interno o all’intorno del movimento operaio il dibattito politico si concentri (e si sia concentrato anche in passato) sul tema del partito piuttosto che sul tema dello stato». E, in effetti, i temi dominanti nel dibattito del periodo erano proprio «quello del rapporto tra spontaneità e organizzazione, e del rapporto tra partito e classe», ossia, «temi che non riguardano affatto la struttura delle istituzioni statali, ovvero il momento del potere costituito, ma riguardano il momento del passaggio allo stato», «problemi di tattica e di strategia, per usare le metafore più abusate, per combattere e vincere nel migliore dei modi la guerra per il possesso del potere statale, non per organizzare, dopo la conquista, per continuare nella stessa metafora, il nuovo assetto a vittoria conseguita, cioè per ordinare e assestate lo stato di pace» (N. Bobbio, Democrazia socialista?, in Id., Quale socialismo. Discussione di un’alternativa, Einaudi, Torino, 1976, pp. 7-8).
Se il dibattito condotto negli anni Cinquanta aveva avuto un effetto non trascurabile nel preparare la prima clamorosa rottura tra partito e intellettuali esplosa nel ’56, anche la discussione avviata da Bobbio a metà degli anni Settanta non fu meno significativa. Proprio i toni di quel confronto dovevano infatti prefigurare una serie di eventi successivi e marcare in modo profondo la vicenda di un intero ceto politico e intellettuale. In qualche misura, infatti, una parte degli intellettuali vicini al Pci iniziò davvero a considerare i meccanismi di funzionamento delle istituzioni politiche, o anche la loro «autonomia», come l’aveva già definita in un famoso seminario Mario Tronti. La stagione di ricerca sull’«autonomia del ‘politico’» - esemplificata per esempio dalla parabola di una rivista come «Laboratorio politico» - ebbe però una vita piuttosto breve, e non peraltro alcun rilevante impatto sul Pci, che conservò quasi immutate, per tutti gli anni Ottanta, le proprie coordinate identitarie, pur dinanzi a uno scenario ben differente. La dissoluzione del blocco sovietico e la rapida transizione dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’ modificarono però completamente il quadro, quantomeno rispetto alle modalità con cui la classe dirigente del Pci aveva concepito il rapporto tra partito e Stato. Nel corso degli ultimi venticinque anni, quella ossessiva preoccupazione sul partito e la sua interna organizzazione, che – da Gramsci a Berlinguer, passando soprattutto per Togliatti – contrassegna il Pci e i suoi intellettuali, viene infatti del tutto abbandonata, senza neppure alcun visibile rimpianto, insieme alla convinzione di poter costruire (mediante una formazione adeguata) una nuova classe dirigente. Sarebbe però piuttosto generoso riconoscere al gruppo dirigente del Pds-Ds-Pd il merito di avere effettivamente maturato nel frattempo una teoria dello Stato, o comunque una visione organica del suo funzionamento e dei suoi compiti. Più che a costruire una vera e propria ‘cultura di governo’, gli eredi del Pci si sono infatti mostrati sensibili alla coltivazione delle pratiche di ‘sottogoverno’, forse nella convinzione che un ‘governo di sinistra’ fosse possibile (e potesse agire sulla società italiana) solo utilizzando stringendo alleanze con frazioni – più o meno rilevanti – dei cosiddetti ‘poteri forti’, e solo utilizzando lo Stato come strumento per conquistare una presa (sempre più incerta) sulla società. Dal punto di vista della riflessione politica, tutta l’attenzione si è spostata così dal tema del partito a questioni come la leadership, la comunicazione, le modalità ‘democratiche’ di selezione dei candidati alle elezioni. In poche parole, salvo pochissime eccezioni, dal momento in cui Achille Occhetto annunciò la «svolta» nella sezione della Bolognina, tutti convennero che il partito doveva diventare ‘leggero’. Ma ben pochi cercarono di chiarire in cosa consistesse davvero questa ‘leggerezza’.
Proprio per la pressoché totale assenza di riflessioni su cosa ‘debba essere’ oggi un partito, il manifesto che Fabrizio Barca rese pubblico all’indomani della fine del governo Monti non poteva passare inosservato. Diffusa nell’aprile del 2013, mentre ancora l’Italia non si era ripresa dai risultanti delle elezioni del 25-26 febbraio, la Memoria politica di Barca sollevò in effetti dubbi e perplessità. Ma ebbe forse il merito quantomeno di sollecitare una discussione che – in un clima non certo favorevole al ‘partito’ – spingeva a uscire dalla trappole della retorica ‘antipolitica’ e dalle secche di una discussione in cui l’unica ossessione pareva essere la ricerca del leader. In parte quelle discussioni sono accolte nel volumetto Il triangolo rotto. Partiti, società e Stato (Laterza, 2013, pp. 105, euro 10.00), nel quale Barca si confronta con Piero Ignazi, oltre che con politici e intellettuali vicini alla causa del Pd. Ma del confronto è risultato soprattutto il volume di Fabrizio Barca, La Traversata. Una nuova idea di partito e di governo (Feltrinelli, Milano, pp. 185, euro 15.00), nel quale viene riproposta – in una versione aggiornata – la Memoria, corredata però, oltre che da un’intervista biografico-politica, anche da appendici che chiariscono la fisionomia che dovrebbe assumere il «partito nuovo».
A ben guardare, la riflessione di Barca non nasce però tanto dalle difficoltà interne di un partito, quanto dall’esperienza di governo, o meglio dal riconoscimento delle difficoltà incontrate nell’azione di governo. E questo influisce non poco sul tipo di discorso che viene sviluppato. In sostanza, l’elemento da cui la riflessione prende avvio è infatti l’esistenza in Italia di una «macchina dello stato arcaica e autoreferenziale», ovviamente eredità antica, cui osservatori attenti dedicano le loro analisi da circa un secolo. Ma l’originalità della proposta risiede nel tipo di soluzione indicata. Lo strumento per modernizzare questa macchina «arcaica e autoreferenziale» non può consistere per Barca solo in una semplice ‘riforma’ del Parlamento, che magari affidi maggiori poteri all’esecutivo, ‘presidenzializzando’ ulteriormente la forma di governo. Il nodo, secondo Barca, sta infatti nel ‘come’ in cui vengono prese le decisioni, e non (o non soltanto) nel ‘chi’ le prende. Per prendere decisioni adeguate, infatti, le risorse principali sono le conoscenze, ma queste conoscenze non sono monopolio né della burocrazia statale, né del mercato. Ed è allora indispensabile adottare una serie di strategie innovative – definite da Barca con la formula dello «sperimentalismo democratico» - che possono consentire un coinvolgimento nel processo decisionale di tutti quegli attori che detengono informazioni e competenze capaci di risultare risolutive per l’efficacia di un provvedimento. La macchina pubblica per prendere decisioni deve in sostanza «costruire un processo, che, convincendo i molteplici detentori di conoscenza ed esperienza a partecipare, promuova il confronto fra le loro parziali conoscenze, consentendo innovazione, e lo traduca in decisioni assunte secondo le regole di responsabilità previste costituzionalmente» (p. 68). 
Se questa prospettiva riflette l’ipotesi dello «sperimentalismo democratico» elaborata da uno studioso originale come Charles F. Sabel (si vedano per esempio i saggi raccolti in Esperimenti di «nuova» democrazia. Tra globalizzazione e localizzazione, a cura di Riccardo Prandini, Armando, Roma, 2013), Barca ritiene però che lo strumento capace effettivamente di rendere praticabile questo nuovo «sprimentalismo» sia proprio il partito. Mentre esclude infatti che un beneficio sul versante del «buon governo» possa derivare da una semplice riforma ‘istituzionale’, considera invece vitale il contributo che i partiti potrebbero fornire al processo di elaborazione delle decisioni. Ovviamente, però, Barca non pensa certo alla prassi dei partiti di oggi.  Il vero nodo sta anzi proprio nella loro struttura e nella funzione che i partiti hanno assunto nell’ultimo trentennio. Utilizzando una formula di Piero Ignazi, anche Barca ritiene infatti che i partiti italiani siano diventati «Stato-centrici», e che in questo modo abbiano stabilito una sorta di fratellanza siamese con la macchina arcaica dell’amministrazione statale. E per questo motivo che la «mossa del cavallo» evocata da Barca si basa sulla convinzione che la radicale riforma dei partiti possa essere il requisito anche di una maggiore efficienza dell’amministrazione.
Nelle versione rivista della Memoria, i caratteri del partito immaginato da Barca si chiariscono ulteriormente, soprattutto perché i riferimenti identitari vengono esplicitati con maggior precisione. In ogni caso, l’organizzazione che Barca auspica continua a connotarsi soprattutto come un «partito palestra»: «un partito di sinistra saldamente radicato sul territorio che, richiamandosi con forza ad alcuni convincimenti generali, solleciti e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto»; un «partito palestra che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato, e traendo da ciò la propria legittimazione, e dagli iscritti e simpatizzanti una parte determinante del proprio finanziamento, sia capace di promuovere la ricerca continua e faticosa di soluzioni per l’uso efficace e giusto del denaro pubblico»; «un partito che torni, come nei partiti di massa, a essere non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali e di governo dello stato, ma anche ‘sfidante dello stato stesso, ‘attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica»; «un partito che realizzi questi obiettivi sviluppando un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle ‘avanguardie’, ossia realizzando una diffusa ‘mobilitazione cognitiva’» (p. 45). E il ricorso all’idea della «mobilitazione cognitiva» non è affatto marginale nel discorso di Barca, perché, a ben vedere, è proprio questo l’anello che tiene insieme il partito e la macchina amministrativa dello Stato, è cioè questo l’anello capace di far davvero funzionare il meccanismo dello «sperimentalismo democratico». Il partito palestra è infatti un partito «che offre lo spazio per la mobilitazione cognitiva, per confrontare molteplici e limitate conoscenze, imparare ognuno qualcosa, confrontare errori, cambiare posizione, costruire soluzioni innovative per stare meglio, e gli strumenti e le idee per farle vincere; e permettere così anche che dal confronto collettivo si profili e vada emergendo un avvenire più bello per i nostri pronipoti con tratti che oggi non possiamo anticipare» (pp. 45-46).
Dal punto di vista dell’organizzazione interna, il partito che Barca prefigura è contrassegnato da alcuni tratti distintivi: è un’infrastruttura che deve attrarre la partecipazione mediante «un confronto pubblico informato, acceso, imparziale, ragionevole» (p. 92), che deve realizzare «dentro il partito una circolazione delle conoscenze in tutte le direzioni» (p. 94). Deve essere inoltre aperto, con una base ampia di iscritti, e al tempo stesso capace di legare iscrizione e partecipazione, in modo tale da evitare «il prevalere di gruppi chiusi ‘controllori di tessere’, e dunque in grado anche di adattare «le modalità, gli orari, i formati del confronto alle esigenze dei diversi segmenti sociali, delle donne, degli operai, degli anziani» (p. 95). Ma l’organizzazione che Barca immagina taglia anche il cordone che lega il partito allo Stato, sia perché prevede una netta separazione tra cariche di governo e cariche di partito (a ogni livello), sia perché prevede la rinuncia a qualsiasi tipo di finanziamento pubblico. «Queste due separazioni», osserva infatti, «costituiscono la condizione indispensabile affinché il partito sia credibilmente dedicato alla raccolta, aggregazione, produzione e rivendicazione di soluzioni per governare, restando questo processo distinto dalle decisioni che verranno prese dalle suddette istituzioni» (p. 96). 
Naturalmente la discussione di Barca non è una riflessione sui partiti in generale, e dunque non indica ricette sulla forma che tutti i partiti dovrebbero e potrebbero assumere in un prossimo futuro. La proposta di riguarda infatti ciò che dovrebbe essere un partito di sinistra, perché quella è la parte cui Barca ha sempre guardato (e la conferma viene anche dalla lunga intervista che introduce il volume, realizzata da Stefano Feltri), perché i valori che indica come base per il nuovo soggetto – l’eguaglianza, la pace, la cultura, l’avanzamento sociale – si propongono di ridefinire e rilanciare l’identità della sinistra, ma soprattutto perché Barca intende la Memoria come un programma minimo indirizzato al Partito Democratico. Ed è forse anche per questo che il discorso di Barca rischia di apparire un’arma spuntata fin dal principio. A rendere debole il ragionamento di Barca non è infatti il riferimento allo «sperimentalismo democratico», perché, anzi, da questo punto di vista la sua proposta costituisce una interessante sollecitazione a superare una serie di luoghi comuni che si sono cristallizzati nelle rappresentazioni del ‘caso italiano’, non ultima la stessa insistenza sulla necessità di rafforzare i centri decisionali, sottraendoli al ‘ricatto’ che proviene dalle assemblee elettive e dagli interessi organizzati. La critica che Barca indirizza al ‘decisionismo’ non discende infatti da un disaccordo valoriale, bensì dal riconoscimento ‘empirico’ che ‘decidere’ non serve, se le conoscenze di cui si dispone sono insufficienti. E proprio qui sta la forza della sua proposta. Se il discorso appare convincente sul versante del governo, cioè a proposito delle modalità con cui vengono pensate l’attività di governo e le modalità con cui vengono prese le decisioni, le cose cambiano invece nel momento in cui lo sguardo si sposta sul partito. Ma non perché il discorso di Barca non abbia una sua nitida coerenza logica. Molto probabilmente, il partito che immagina Barca si rivelerebbe anzi utile per sviluppare concretamente le ipotesi dello «sperimentalismo democratico», soprattutto (ma non solo) a livello territoriale. Il punto davvero critico è invece che di quel partito di cui Barca immagina e auspica una trasformazione in un «partito palestra», in un partito capace di attivare una «mobilitazione cognitiva», non sembra esistere ormai alcuna traccia nell’Italia di oggi. 
In altre parole, a rendere debole il discorso di Barca non è l’architettura teorica, e non sono le connessioni logiche che vanno a tenere in piedi la struttura dello «sperimentalismo democratico», bensì il riferimento al partito che sarebbe necessario trasformare in «palestra». Da uomo delle istituzioni, Barca auspica in sostanza un più attivo coinvolgimento del partito (e delle conoscenze diffuse nel partito) nella macchina decisionale dello Stato, con l’obiettivo di rendere l’attività di governo più efficiente e capace di risolvere i problemi della società contemporanea. Ma, quando delinea il programma di una sorta di riforma interna del Pd, sembra in qualche modo dare per scontato che un partito tutto sommato simile al «partito di massa» esista ancora, che ci siano militanti disposti a mettere in comune le loro conoscenze, a mettere in moto il meccanismo dello sperimentalismo democratico. E il punto critico è invece proprio questo. Il Partito Democratico – che, nonostante tutto, rimane ancora ciò che in Italia più si avvicina a un partito – non è più un partito come lo intende Barca. E non si tratta soltanto dell’esito di quella marcia verso il centro dello Stato che Ignazi descrive bene con la formula del «partito Stato-centrico». Più in generale, vent’anni di ‘Seconda Repubblica’ hanno completamente polverizzato la vecchia struttura partitica. Le riforme amministrative e la ‘presidenzializzazione’ dei livelli di governo locali e subnazionali hanno creato centri di potere sostanzialmente autonomi dal centro e dotati di proprie risorse (finanziarie, simboliche, umane). E questo ha reso il Pd molto simile al «partito in franchising» individuato dalla letteratura politologica. Ma, accanto a questo processo, si è realizzato anche un ulteriore processo, che si è risolto davvero nella totale divaricazione tra base e vertice, tra militanti e dirigenti. Un processo di cui il calo nel numero degli iscritti fornisce un indicatore molto parziale, ma comunque significativo, e di cui le immagini del «popolo delle primarie» forniscono – più che una smentita – la più paradossale delle conferme.
Se Barca si volge al partito guardandolo ‘dall’alto’ delle istituzioni, dal vertice dell’attività di governo, quando lo esamina invece ‘dal basso’, ciò che emerge è d’altronde un dato spesso sottovalutato ma probabilmente sconcertante. E questo dato ci dice che il Partito Democratico - se pensiamo al partito politico come a un insieme di individui tenuti insieme da una comune appartenenza, da riferimenti simbolici condivisi, da progetti d’azione, da una leadership realmente compatta attorno a un’identità – non esiste più. Certo, se invece riteniamo che un partito sia solo un’organizzazione che concorre alle elezioni, che seleziona il personale politico, che ottiene finanziamenti pubblici, allora possiamo agevolmente riconoscere che il Pd rimanga effettivamente ancora un partito. E non è neppure detto che il partito del futuro non debba essere proprio qualcosa di simile a questa federazione del tutto fluida di potentati locali, di cordate clientelari, di leadership effimere, unite dall’obiettivo di spartirsi risorse pubbliche. Il punto è però che un partito di questo genere non può dare alcun contributo allo «sperimentalismo democratico» immaginato da Barca. E proprio per questo il progetto di Barca finisce col rimanere privo del tassello di base. Un tassello senza il quale la «mobilitazione cognitiva», in grado di rivitalizzare le strutture amministrative dello Stato, non è neppure pensabile.

Damiano Palano