di Damiano Palano
«Un lavoro privilegiato»
Quando Luciano Bianciardi arrivò a Milano, nel 1954,
il capoluogo lombardo era il centro trainante dell’economia italiana,
probabilmente più ancora di quanto non lo fosse la Torino della Fiat. Se Torino
era la «città-fabbrica» per eccellenza, dominata dal colosso automobilistico,
Milano era una città ‘policentrica’, in
cui le fabbriche si affiancavano agli uffici, ai giornali, alle case editrici.
Ed era proprio in questa Milano che Bianciardi doveva sperimentare cosa fossero
diventati gli intellettuali, il loro ruolo, il loro lavoro, nel pieno del
«miracolo economico». In un articolo pubblicato nel febbraio 1955, intitolato Lettera da Milano, scriveva per esempio
di avere solo intravisto alcuni singoli intellettuali, ma di non avere
incontrato gli intellettuali come «gruppo». E, soprattutto, scriveva di aver
già riconosciuto, all’interno della schiera degli intellettuali, una netta
differenziazione di ruoli: «Come non ho ancora visto gli operai, così non ho
ancora visto gli intellettuali. Li ho visti, si intende e li vedo ogni mattina,
come singoli, ma mai come gruppo. Non riescono a formarlo, e ad influire come
tale sulla vita cittadina. L’unico gruppo in qualche modo compatto è quello che
forma la desolata scapigliatura di Brera. Gli altri fanno i funzionari di
industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice. C’è una
redazione di funzionari, che organizza: alla produzione, lavorano gli altri,
quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a
volta come i braccianti per le faccende stagionali»[1].
Bianciardi
avrebbe d’altronde sperimentato in prima persona le dinamiche dell’industria
culturale milanese. E proprio questa esperienza doveva finire nello sfogo della
Vita agra, la storia – scopertamente
autobiografica – di un intellettuale che dalla Maremma giunge a Milano per
vendicare gli operai deceduti nell’esplosione di una miniera. Il progetto di
far saltare per aria i «torracchioni» di vetro e cemento dove si concentrava il
«nemico» – ossia i grattacieli del centro direzionale compreso tra via Moscova
e via Gioia – finiva però con l’essere abbandonato, perché l’intellettuale
maremmano veniva gradualmente ‘integrato’ dentro il formidabile meccanismo
della società dei consumi. In questo senso il libro di Bianciardi rimane uno
specchio del boom, o meglio – come
già allora molti segnalarono – un ritratto impietoso delle sue illusioni e delle
sue dinamiche reali, oltre che della sua straordinaria capacità seduttiva. Ma
non è solo per questo che oggi si continua a leggere Bianciardi. Se certo risulta
ancora oggi efficace la satira della Milano consumista e frenetica dei primi
anni Sessanta (la componente del romanzo che risultò maggiormente valorizzata
dalla trasposizione cinematografica di Carlo Lizzani), è molto probabile che le
nuove nuove generazioni trovino più di qualche motivo di interesse nelle pagine
più cupe della Vita agra. Perché il
libro di Bianciardi può essere letto oggi anche come una straordinaria
anticipazione della realtà del lavoro intellettuale contemporaneo, e in
particolare della condizione di quei lavoratori della conoscenza che – per
scelta o per necessità – svolgono la loro attività soprattutto tra le pareti
domestiche. Non è così affatto sorprendente che Giuseppe Allegri e Roberto
Ciccarelli – autori di Il Quinto Stato.
Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro[2],
oltre che animatori del blog omonimo – abbiano trovato proprio nelle pagine del
Lavoro culturale e della Vita agra quasi una sorta di manifesto[3].
In qualche misura, proprio quella che Bianciardi aveva descritto in modo così
lucido più di mezzo secolo fa può essere infatti considerata la situazione in
cui si trovano – secondo Allegri e Ciccarelli – gli esponenti del «Quinto
Stato», uno strato sociale oggi già ben presente, sebbene ancora privo di
un’identità definita e di un peso politico.
Assunto
nella nuova casa editrice fondata da Giangiacomo Feltrinelli appena arrivato a
Milano, Bianciardi ne fu infatti licenziato dopo poco tempo. O, meglio, gli
venne proposto di lavorare come collaboratore esterno, come traduttore. La
prospettiva era di conservare più o meno lo stesso stipendio e di lavorare a
casa. Per uno spirito libertario come quello di Bianciardi questo aspetto
doveva avere più di qualche lato positivo. Ma, ovviamente, ciò significava
anche andare a ingrossare il gruppo di via Brera, ossia quell’esercito di
lavoratori intellettuali che – al di fuori delle case editrici – «leggono,
recensiscono, traducono, reclutati volta a volta come i braccianti per le
faccende stagionali». Da quel momento in poi la vita di Bianciardi sarebbe
mutata in modo radicale, perché, al lavoro d’ufficio, egli avrebbe sostituito
un’attività svolta tra le pareti domestiche, spesso con l’aiuto della compagna.
In questo modo, venivano eliminati i tempi e i costi di trasferimento
quotidiani, il controllo eccessivamente rigido dei capi, gli ambigui rapporti
con i colleghi, l’obbligo di timbrare il cartellino, a tutto vantaggio di tempi
scelti (almeno in parte) liberamente, oltre che con prospettive di guadagno
significative. Insomma, come diceva il protagonista della Vita agra, un «lavoro privilegiato»: «A pensarci bene, a far bene i
conti, io ho un lavoro privilegiato, con cinque ore al giorno me la cavo,
mentre altri debbono farsi le loro otto quotidiane di ufficio, più un’altra ora
di tram, da casa al posto di lavoro, e hanno gli orari comandati, la
macchinetta che punzona all’ingresso, oppure l’usciere apposito che
segretamente marca e poi riferisce al capo del personale, e hanno i rapporti
umano a cui stare dietro, gli attriti aziendali, tanta fatica per guardarsi le
spalle dalle manovre delle segretarie, e dei dirigenti in ascesa. Io no, io
debbo soltanto lavorare cinque ore al giorno, anche la domenica s’intende – e
fanno trentacinque ore settimanali, una media da sindacato americano – ma poi
sono libero, e non ho attriti aziendali, né umane relazioni, non insomma
necessità di vedere gente»[4].
Sperimentando
la nuova condizione consentita dal suo «lavoro privilegiato», Bianciardi
avrebbe però scoperto rapidamente che la scelta di diventare collaboratore
esterno doveva cambiare la sua vita anche in un altro modo. La Vita agra era infatti, in gran parte,
proprio il diario della scoperta di questa nuova condizione, al tempo stesso
lavorativa ed esistenziale. Una condizione in cui non rimaneva più alcuna
traccia dell’antica aura che ancora nobilitava l’intellettuale di provincia, ma
in cui il lavoro intellettuale, pur inglobato in un processo produttivo sempre
più vicino a quello industriale, continuava comunque a conservare una propria
specificità, che rendeva particolarmente utile la collaborazione esterna. E,
soprattutto, una condizione che, pur svolgendosi formalmente in autonomia,
addirittura tra le pareti domestiche, non cancellava il rapporto di dipendenza
dal committente: «Tu magari firmi senza leggere con attenzione, ma intanto ti
sei impegnato a consegnare un giorno preciso, e se sgarri ti impongono una
penale del trenta per cento. Il pagamento lo fanno dopo l’approvazione. Hanno
facoltà di rifiutare a loro insindacabile giudizio, escludendo ogni compenso.
Sempre a loro insindacabile giudizio, qualora il tuo lavoro non corrisponda ai
criteri e alle direttive […], e si renda necessaria una revisione, il compenso
dovuto per quest’ultima sarà detratto dalla somma globale stabilita quale
corrispettivo di cui al presente contratto. […] E poi bisogna lavorare tutti i
giorni, tante cartelle per questo e quello e quell’altro, fino a far pari,
anche la domenica. Se ti ammali non hai mutua, paghi medico e medicine lira su
lira, e per di più non sei in grado di produrre, e ti ritrovi doppiamente
sotto. […] E poi per loro era preferibile dar lavoro così, a cottimo, senza
pagarci sopra oneri sociali, mutue, previdenze e altre marchette, senza
rimetterci né la carta, né l’usura della macchina, dei nastri, dei tavoli,
nemmeno il caldo. Il caldo te lo paghi da te. Ti paghi il caldo, l’usura della
macchina e del nastro, tutto quanto. È un lavoro che può rendere, ma nessuno te
lo invidia né cerca di toglierglielo, perché è parecchio faticoso e non piace.
Non rientra nel gioco dei rapporti di forza aziendali, non dà né potere né
prestigio, non è a livello esecutivo, e perciò te lo lasciano, e ti lasciano in
pace. Al massimo ti potranno sollecitare, ti potranno telefonare»[5].
Per
quanto rivestiti da una dose abbondante di ironia, molti elementi della Vita agra erano effettivamente
autobiografici. Dal momento in cui Bianciardi scelse di lavorare come
collaboratore esterno, ogni sua ora, ogni giornata, ogni settimana, venne
infatti scandita dal numero di cartelle ancora da tradurre, dall’angosciante
approssimarsi delle scadenze, dalle visite settimanali alle case editrici per
consegnare i lavori svolti e per ritirare i nuovi, dai tentativi di ottenere un
compenso più elevato e dal timore di non rovinare le relazioni con i pochi
committenti. Il successo della Vita agra
e il suo seguente adattamento cinematografico certo contribuirono a mutare la
condizione economica dello scrittore. Ma l’atteggiamento di Bianciardi dinanzi
alla buona notizia della decisione di Bompiani di pubblicare quello che sarebbe
diventato il suo romanzo più noto rimane da questo punto di vista emblematico
dello stato emotivo in cui il libro era nato. Perché, rivolgendosi al
responsabile della casa editrice, che non vedeva nello scrittore tracce di entusiasmo,
Bianciardi rispose che era contento, ma che doveva tornare subito a casa per concludere
la sua razione quotidiana di cartelle.
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