di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Raymond Aron, Il destino delle nazioni. L'avvenire dell'Europa (Rubbettino, pp. 250, euro 18.00), è apparsa su "Avvenire" del 21 febbraio 2014.
Fra il 1930 e il 1933 Raymond Aron trascorse una lunga fase di perfezionamento in Germania. Quel periodo fu importante per il suo percorso scientifico, ma incise in profondità anche sulla sua esperienza biografica. In quegli anni Aron ebbe infatti modo di assistere in prima persona alla tragica fine della Repubblica di Weimar e all’ascesa del movimento nazista, che doveva condurre a un rapido deterioramento dei rapporti tra Francia e Germania e allo scoppio di una nuova guerra. Forse anche per questo il grande intellettuale non cessò mai di riflettere sulla possibilità di un’unità politica capace finalmente di pacificare il Vecchio continente. Ma rimase sempre ben consapevole della forza delle identità nazionali, e così non sposò mai una visione utopistica dell’unificazione europea.
Poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1947, tornò nuovamente in Germania, e proprio in quell’occasione fu invitato a tenere una conferenza sul futuro dell’Europa dinanzi a una platea di studenti di Monaco. Il testo di quella conferenza è ora disponibile per il lettore italiano in Il destino delle nazioni. L’avvenire dell’Europa (Rubbettino, pp. 250, euro 18.00), un libro curato da Giulio De Ligio in cui sono raccolti alcuni interventi – alcuni dei quali totalmente inediti – dedicati da Aron alla forma politica del Vecchio continente. E già dal percorso compiuto in quel discorso emergono i contorni di un atteggiamento ambivalente. Per un verso, l’integrazione europea è vista come “il termine finale dello sforzo che dà un senso a una vita o fissa un obiettivo a una generazione”. Per l’altro, il progetto di un’unione politica appare però come un’idea “da intellettuali”, priva di reale sostegno da parte dei popoli europei. D’altronde, per Aron l’intera storia del continente è segnata, al tempo stesso, dall’unità spirituale e dalla divisione politica. Nonostante si sia sempre conservata “la coscienza di una comunità di cultura propria dell’intera Europa”, la divisione “in una ventina di nazionalità indipendenti, o che si pretendono tali, rimane il fatto fondamentale”. E nessun processo può aggirare questo carattere paradossale. Nel corso dei decenni seguenti il sostegno all’integrazione si accompagna così alla critica alle modalità con cui essa viene perseguita. La convinzione secondo cui l’interdipendenza economica può costituire la premessa di un’unificazione politica è infatti giudicata solo come una grande illusione. Aron ritiene inoltre che l’unificazione economica del Vecchio continente abbia evitato sempre la domanda cruciale – ed effettivamente ‘politica’ – sul senso del “vivere in comune”.
Come sottolinea De Ligio nel suo ricchissimo commento, il progetto comunitario ha fatto discendere la necessità di costruire un grande spazio post-nazionale solo da una serie di elementi tecnici, economici. Ma non ha mai realmente affrontato la questione dello ‘scopo’ cui tendeva la creazione di un mercato unico. E ciò non significa che, per Aron, le motivazioni economiche siano prive di importanza. Ma riflette piuttosto la convinzione che i caratteri dell’Europa – e dunque la sua unicità culturale – siano tali che le ragioni e le azioni capaci di garantirne la fioritura non possono essere solamente economiche.
Nel suo discorso del 1947 agli studenti tedeschi, l’avvenire dell’Europa appariva ad Aron strettamente legato a tre idee: la convinzione nell’esistenza di una “verità oggettiva, universalmente valida”, l’idea che ogni persona abbia una valore e infine la fiducia risposta nella tecnica, “padrona della natura”. Allora i progressi della tecnica non apparivano certo in discussione. “Quel che non è sicuro”, avvertiva invece, è che l’avventura europea “prosegua in un’atmosfera spirituale in cui la persona conservi il suo valore, la verità non sia limitata a quella delle equazioni matematiche o delle ricette pratiche, e le comunità di cultura non siano sottomesse a burocrazie arbitrarie”. E proprio queste parole, pronunciate di fronte un continente da poco uscito dalla tragedia della guerra e già diviso dalla cortina di ferro, appaiono ora forse ancora più preziose. Perché non è difficile riconoscere nella crisi che avvolge oggi l’Ue, insieme all’esito di una serie di difficoltà economiche, anche la conseguenza del modo in cui nel corso dell’ultimo mezzo secolo è stata pensata – prima ancora che realizzata – l’unificazione del Vecchio continente.
Damiano Palano
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