Questa recensione del volume di Diego Fusaro, Coraggio (Raffaello Cortina, Milano, 2012, pp. 179) è apparsa sul numero 2013 della rivista "Governare la paura, diretta da Laura Lanzillo.
di Damiano Palano
Nella Danza immobile, pubblicato poco prima dell’improvvisa scomparsa, Manuel Scorza abbandona i toni del realismo magico che avevano contraddistinto i suoi precedenti romanzi per adottare una chiave più intimista, da cui trapela il senso di un fallimento al tempo stesso politico ed esistenziale. Il romanzo, come scrive lo stesso Scorza, è una sorta di «contrappunto fra un guerrigliero e un ex guerrigliero», e al tempo stesso «un conflitto fra due uomini che devono scegliere fra l'Amore e la Rivoluzione» (M. Scorza, La danza immobile, Feltrinelli Milano, 1983, p. 19). Santiago, uno dei due protagonisti, abbandona infatti la causa rivoluzionaria, rimanendo in esilio e scegliendo l’amore per Marie-Claire, mentre l’altro, Nicolàs, resta fedele alla rivoluzione e lascia Parigi, oltre che l’amata Francesca, per tornare in America Latina. Anche per la netta contrapposizione fra Santiago e Nicolàs, Marco Revelli ha ritrovato nel libro di Scorza una raffigurazione emblematica delle derive speculari cui conducono la militanza politica e la chiusura egoistica nel privato. In un punto cruciale del romanzo, Santiago – «l’uomo che si era legato ai propri compagni con un patto di sofferenza nel presente in nome del futuro, e si era educato a una spietata disciplina per poter sognare un giorno un mondo di esseri liberi» – confessa d’altronde che la militanza lo aveva trasformato in «una macchina per ammazzare e morire». E, così, osserva Revelli, la rinuncia di Santiago alla Rivoluzione è soprattutto una scelta a favore di una vita intesa come «mondo privato degli affetti, come amore ma anche amicizia non segnata dal sospetto, curiosità non spenta dal dovere, relazione non mediata dall’organizzazione, Io non fagocitato dal Noi, tempo vissuto e non investito per un fine lontano» (M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino, 2001, p. 276). Se la coppia di Santiago e Nicolàs restituisce dunque il dissidio fra Io e Noi, fra la dimensione ‘privata’ (ed egoistica) degli affetti familiari e la dimensione ‘politica’ di un impegno totalizzante, essa viene anche a esemplificare nitidamente due opposte – e forse inconciliabili – visioni della temporalità. Da un lato, il tempo ‘privato’ di Santiago è interamente schiacciato sul presente, sul qui e ora, dal momento che – rifiutando di tornare in Perù (e dunque il rischio quasi certo della morte) – tradisce la rivoluzione perché «solo i vivi hanno una donna, i morti no…» (M. Scorza, La danza immobile, cit., p. 163). Dall’altro, il tempo ‘politico’ di Nicolàs è tutto proiettato verso il futuro. Un futuro tanto lontano che neppure si intravede all’orizzonte, ma in cui stanno scritte la vittoria della causa rivoluzionaria e la realizzazione della giustizia e dell’uguaglianza fra gli uomini. E un futuro che per questo, come replica Nicolàs al vecchio amico, è in grado di giustificare persino l’estremo, irrimediabile sacrificio della vita: «La morte di un combattente significa forse la sua scomparsa? Non veniamo forse preparati ad affrontare la morte, e a morire se è necessario, sapendo che alla lunga, prima o poi, la nostra morte sarà la vita degli altri?» (ibi, p. 161).
Proprio nella misura in cui offre una plastica raffigurazione del gesto estremo di un militante politico che perde la vita in nome della rivoluzione (e non importa quale sia la rivoluzione), il sacrificio di Nicolàs può essere considerato come un formidabile esempio di quella virtù proteiforme e sfuggente cui è dedicato Coraggio di Diego Fusaro (Raffaello Cortina, Milano, 2012). Inserito nella collana «Moralia», diretta da Roberto Mordacci e Andrea Tagliapietra, il libro di Fusaro si propone innanzitutto una ricostruzione della traiettoria percorsa dal concetto di coraggio nella storia della filosofia occidentale. Ma, dall’esame condotto da Fusaro, non può che emergere innanzitutto la natura del tutto «paradossale» di questa virtù: una natura che, in effetti, la rende difficilmente circoscrivibile all’interno di una ben determinata fenomenologia, e che inoltre risulta abissalmente distante dalle altre grandi virtù celebrate dell’Occidente (se non addirittura antitetica rispetto ad esse). Già il militare Lachete, interrogato da Socrate, confessa di non saper dire «cosa» sia il coraggio, benché sia avvezzo a darne prova sui campi di battaglia. Ma non è evidentemente solo Lachete a scontarsi con questa difficoltà, tanto che Fusaro osserva: «il coraggio è la virtù che più resiste all’intellettualismo e che più sfugge alla sua presa, lasciandosi definire in modo sempre approssimativo e mai esauriente» (p. 8). A rendere così complicato individuare il cuore del coraggio è d’altronde il fatto che vengono anche abitualmente definite come «gesti coraggiosi» le azioni più differenti. Pur dinanzi a un simile groviglio concettuale, Fusaro, raccogliendo le indicazioni di Vladimir Jankélévitch, avanza però una proposta definitoria per cui il coraggio è «la spontaneità inaugurale di una dinamica dell’agire appassionato e disinteressato, teso verso un fine assiologicamente connotato in termini positivi e tale da giustificare un’eroica sopportazione di ostacoli, pericoli e rischi, fino al grado estremo della morte» (p. 15). In questo senso, il coraggio è dunque vissuto sempre al presente, e non tollera differimenti se non al prezzo di svanire nella giustificazione dell’inazione o della soggezione al comando. Ma rimane comunque proiettato verso il futuro: «Virtù dell’hic et nunc, il coraggio è sempre al presente, anche se opera immancabilmente in vista del futuro verso cui l’azione coraggiosa è diretta. Più precisamente, essere coraggiosi non significa forse sacrificare l’istante presente in vista di quello futuro, identificando nel primo la condizione indispensabile per l’attuazione del secondo?» (p. 16). E ovviamente – dal momento che richiede, per manifestarsi, un rischio (non solo potenziale) – è anche una passione che presuppone il pericolo e che, in una certa misura, si alimenta della paura pur senza rimanerne schiacciata. In questo senso, scrive Fusaro, «non può sfuggire come la paura costituisca la condicio sine qua non del coraggio, che sorge e si manifesta sempre e solo al cospetto del timore, nel tentativo di disciplinarlo, di vincerlo, o anche solo di arginarlo temporalmente» (p. 40). E, dunque, il coraggio è «affermazione e, insieme, negazione della paura», o, ancora, «paura riconosciuta e superata, con la conseguenza che le azioni coraggiose sono compiute non in assenza del timore, ma malgrado la sua presenza, sulla quale prevale la libera scelta del perseguimento del fine prefissato» (p. 41).
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