Questa recensione al nuovo volume di Niall Ferguson, Il Grande Declino. Come crollano le istituzioni e muoiono le economie (Mondadori, pp. 134, euro 17.00), è apparsa (in una versione leggermente diversa) su "Agorà sette", il nuovo inserto culturale di "Avvenire", di venerdì 6 dicembre 2013.
In un passo della Ricchezza delle nazioni Adam Smith descrisse le condizioni di una società ‘stazionaria’, ossia di un paese in precedenza ricco che ha smesso di crescere. In queste condizioni, osservava Smith, il salario della gran parte della popolazione risulta piuttosto basso, ma il dato forse più significativo è che le élite diventano corrotte e cercano di sfruttare il sistema giuridico e amministrativo per consolidare il loro potere. Naturalmente l’economista scozzese si riferiva allora alla Cina, che, dopo essere stata per secoli una società florida, nella seconda del Settecento aveva ormai smesso di crescere, a differenza dell’Inghilterra e delle sue colonie americane, che si trovavano al principio della loro ascesa. A distanza di due secoli e mezzo, nel suo Il grande declino. Come crollano le istituzioni e muoiono le economie (Mondadori, pp. 133, euro 17.00), Niall Ferguson torna invece alle pagine di Smith per riconoscere come la situazione appaia oggi sostanzialmente invertita. Mentre la Cina è al centro di una crescita con pochi paragoni, l’intero Occidente sembra presentare tutti i tratti di una società stazionaria. Lo studioso di Harvard non si limita però a riconoscere che nelle democrazie occidentali la diseguaglianza è in aumento e che le élite tendono a assumere un ruolo regressivo. Il suo intento è piuttosto portare alla luce le vere motivazioni del declino. E, da questo punto di vista, si concentra soprattutto sull’importanza delle istituzioni. La sua convinzione è che proprio nell’infrastruttura istituzionale si nascondano tanto il segreto di una società dinamica quanto la spiegazione del suo deterioramento storico.
L’analisi non può che partire dall’indebitamento pubblico che accomuna tutti gli Stati occidentali, un fenomeno in cui Ferguson ravvisa il sintomo della rottura del contratto sociale fra le generazioni. Ma lo studioso sostiene anche che il grande declino occidentale dipende in misura significativa dall’eccesso di regolamentazione pubblica, e da questo punto di vista si discosta dalle letture più comuni. Per esempio, ritiene che la crisi finanziaria sia stata determinata non da un’insufficiente regolamentazione dei sistemi finanziari, bensì dall’eccesso di normative ipercomplesse e per questo difficili da far rispettare. D’altronde, secondo lo storico è proprio la proliferazione di regolamentazioni a tramutare i principi dello Stato di diritto nei presupposti di un «governo dei legulei». Infine, riecheggiando le tesi del politologo Robert Putnam, Ferguson ritiene che le società occidentali stiano declinando anche perché hanno dilapidato il loro ‘capitale sociale’, e cioè perché il tessuto associativo (non solo politico) su cui si reggeva la vitalità delle democrazie si sta logorando.
In questo nuovo lavoro Ferguson riprende alcune delle tesi già sviluppate in modo più ampio in Occidente (Mondadori). Ma in questo caso lo studioso capace di ricostruire con rapide pennellate le grandi tendenze storiche cede il passo al polemista interessato a incidere sul dibattito pubblico. E il rigore logico delle argomentazioni tende a essere rimpiazzato da formule retoricamente efficaci ma spesso fuorvianti. Ciò accade per esempio proprio quando si sofferma sul tradimento del patto generazionale o sulle conseguenze negative dell’eccesso di regolamentazione. Certo di tratta di fenomeni evidenti a chiunque osservi le nostre società. Il punto è però che lo studioso britannico tende a presentare questi elementi come le ‘cause’ principali del declino economico e politico dell’Occidente, e non come gli elementi di un quadro estremamente complicato. E proprio per questo il disegno del “grande declino” risulta alla fine tanto stilizzato da diventare quasi una caricatura.
Damiano Palano
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