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domenica 22 dicembre 2013

La scorciatoia. La battaglia di Luciano Canfora contro «il vero volto del maggioritario»



di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica-Rdponline.

Nonostante sia stabilmente entrata anche nel lessico politologico, l’espressione “Seconda Repubblica” rimane solo una formula giornalistica, per molti versi persino fuorviante. In effetti, la ‘transizione’ che si avviò fra il 1993 e il 1994 non innescò un rilevante cambiamento della Carta costituzionale, ma si ridusse al (parziale) mutamento degli attori della politica nazionale e del quadro ideologico di riferimento dei principali partiti. La ‘transizione’ si tradusse cioè nel passaggio da un «pluralismo polarizzato», come l’aveva definito Giovanni Sartori, a un «bipolarismo» che si sarebbe rivelato in seguito piuttosto frammentato, segnato da una certa instabilità e paradossalmente piuttosto ‘polarizzato’. Ovviamente si trattava di un cambiamento che doveva produrre conseguenze rilevanti. Ma è significativo che l’unica reale trasformazione – o quantomeno quella che più doveva incidere sull’effettiva dinamica del confronto politico – non coinvolgesse tanto l’architettura delineata nella Carta del 1948, quanto la legislazione elettorale, e cioè il sistema elettorale proporzionale che aveva contrassegnato la prima stagione repubblicana. Così, se qualsiasi seria ricostruzione storica del tramonto della ‘Prima Repubblica’ non potrebbe certo tralasciare di considerare le implicazioni della fine della Guerra fredda o il ruolo rivestito dalla magistratura nell’uscita di scena della classe politica del vecchio «pentapartito», difficilmente si potrebbe contestare il peso che, nel dar forma alla ‘transizione’, ebbe proprio la legge Mattarella, adottata sulla spinta propulsiva dei referendum popolare dei primi anni Novanta. E forse proprio per questo rimane scritto nel destino della “Seconda Repubblica” che il suo travagliato percorso debba essere costantemente accompagnato da un’inesauribile discussione sulla necessità di una ‘riforma elettorale’, oltre che, ovviamente, sul metodo che potrebbe consentire all’Italia di diventare finalmente un Paese ‘normale’. 
Comprensibilmente il dibattito non poteva non riaprirsi dopo le elezioni del 24-25 febbraio, coinvolgendo la legge Calderoli, diventata l’oggetto di un dileggio pressoché trasversale, eppure capace di resistere – nei suoi ormai otto anni di vita – a mutamenti di maggioranza, crisi  di governo ed emergenze nazionali. Nella contesa si cala ora anche Luciano Canfora, con un vibrante pamphlet il cui titolo – La trappola. Il vero volto del maggioritario (Sellerio, pp. 98, euro 10.000) – non lascia molti dubbi sull’opinione nutrita dall’antichista verso quello che nel gergo politico e giornalistico è ormai diventato il Porcellum. Il risultato delle consultazioni di febbraio – ossia l’esorbitante premio di maggioranza assegnato alla Camera alla coalizione di centro-sinistra, pur a fronte di un risultato di sostanziale parità in termini di voti popolari – viene infatti definito da Canfora come «il più grande scandalo mai verificatosi nella storia politica italiana», un risultato «più scandaloso persino del risultato ottenuto dal ‘listone’ mussoliniano (e associati), grazie alla legge Acerbo, nelle elezioni politiche dell’aprile 1924» (p. 9). In questo senso, Canfora si rivolge certo contro la logica di un sistema che distorce l’effettiva volontà degli elettori, creando artificialmente una maggioranza inesistente nelle urne. Ma il vero obiettivo della sua polemica non è tanto il sistema elettorale, quanto la classe politica del centro-sinistra, e cioè il gruppo dirigente della forza che ha beneficiato del premio di maggioranza previsto dalla legge Calderoli, e che paradossalmente «discende da quei partiti (Psi e Pci) che a suo tempo avevano condotto la più fiera e bene argomentata battaglia contro il feticcio del ‘premio di maggioranza’: contro quella che è passata alla storia come la ‘legge truffa’» (p. 10). Il pamphlet di Canfora può in effetti essere letto, oltre che come un manifesto polemico contro il sistema maggioritario, come l’ennesimo episodio di una battaglia contro la «metamorfosi» culturale della sinistra italiana (e del suo ceto dirigente), cui viene imputata la responsabilità di essere passata, «in pochi anni, dalla difesa del suffragio universale al principio-base delle corse dei cavalli» (p. 10). E, per quanto si tratti di una battaglia che a molti può apparire ricoperta di uno spesso strato di nostalgia, la cura filologica con cui viene condotta la rende comunque meritevole di un’attenta lettura.
Il percorso si snoda fra alcune tappe cruciali della storia elettorale italiana, ma prende avvio da un fatto destinato ad avere ripercussioni notevoli. Riprendendo una ricostruzione svolta da Calogero Salomone, Canfora sostiene infatti che l’articolo 75 della Carta costituzionale, nel quale vengono definite le materie che possono essere oggetto di referendum, sia viziato a causa di una «omissione», attribuibile principalmente a Meuccio Ruini. In sostanza, nella discussione condotta all’Assemblea Costituente il 31 gennaio 1947, l’Aula emendò gli articoli 72 e 73 del testo predisposto della Commissione dei Settantacinque, inserendo anche le leggi elettorali fra le materie escluse da consultazioni referendarie. Quando gli articoli 72 e 73 vennero però accorpati ad opera del Comitato dei Diciotto (rappresentante in Aula della Commissione dei Settancinque), la parola «elettorali» scomparve, o meglio fu «tacitamente omessa» (p. 15). Tanto che, come scrive Canfora riportando il giudizio formulato dallo stesso Ruini alcuni dopo, «il testo dell’articolo 75 risulta viziato a causa di quella omissione» (p. 17).
Il vulnus riportato alla luce da Canfora finisce naturalmente col gettare un velo di sospetto sull’intera vicenda della “Seconda Repubblica”, che, in qualche modo, sarebbe nata quasi mezzo secolo dopo proprio per effetto di quella «omissione», e che dunque risulterebbe addirittura in contrasto con lo spirito della Carta. Ma l’attenzione dello storico si concentra soprattutto sulla cosiddetta «legge truffa» e sul dibattito che in Parlamento ne precedette l’approvazione. Più che i risvolti politici del confronto, a Canfora interessano però quei rilievi che allora misero in discussione la costituzionalità della legge, proprio in quanto essa andava a violare il principio del voto libero e uguale fissato nella Carta, e dunque il principio di proporzionalità verso cui erano andate le preferenze dei costituenti. E, in questo senso, è comprensibile che nel pamphlet venga ripubblicato l’intervento contro il disegno di legge Scelba pronunciato da Palmiro Togliatti nel dicembre 1952. L’approfondita argomentazione di Togliatti – che occupa circa un terzo del volume – ricorreva alle posizioni di pilastri della storia italiana e della dottrina giuridica, come Gian Domenico Romagnosi, Cavour, Sidney Sonnino, Ruggero Bonghi, Giovanni Amendola e Vittorio Emanuele Orlando. La tesi principale del segretario del Pci era che la nuova legge modificasse l’ordinamento costituzionale e lo violasse in alcuni punti cruciali. In un passaggio importante del discorso affermava infatti: «In qual modo e perché questa legge è sovvertitrice dell’ordinamento costituzionale? Essa lo è perché nella nostra Costituzione vi è una determinata definizione del diritto di voto e la Costituzione stessa determina il modo dell’esercizio di questo diritto. Questa definizione del diritto di voto, e la determinazione del modo dell’esercizio di questo diritto non sono cosa a sé, atto di contingenza politica, ma conseguenza diretta del modo come è definito, nella Costituzione repubblicana, l’ordinamento costituzionale dello Stato. Ecco, quindi, il profilo esatto della mia eccezione di costituzionalità. Qui è violato l’articolo 56, che prevede il modo come viene eletta la Camera dei deputati ed è violato in particolare in relazione all'articolo 48, che sancisce l’eguaglianza del voto dei cittadini. Dall’esame di questi articoli e della violazione dei principi che essi asseriscono risalgo agli articoli 1, 3 e 49 della Costituzioni repubblicana, che rispettivamente definiscono e sanciscono la natura giuridica e politica del nostro Stato, l’eguaglianza politica dei cittadini e infine la funzione di determinati organismi politici – i partiti – di cui la Costituzione stessa parla all’articolo 48» (p. 48).
Se certo nel discorso di Togliatti non possono sfuggire alcune forzature argomentative, lo stile, la struttura e i riferimenti dell’intervento dell’allora segretario del Pci non possono non confermare – una volta di più – l’impressione della distanza che separa la classe politica della prima stagione repubblicana da quella che occupa oggi il proscenio della “Seconda Repubblica”. Al di là di questo, la decisione di ripubblicare quella che, non senza enfasi, viene definita come «la lezione di diritto costituzionale di Palmiro Togliatti», può forse indurre qualche lettore a liquidare l’intera discussione condotta da Canfora. In realtà, l’inserimento della dissertazione togliattiana nel pamplhet non ha solo un valore documentario, un valore nei confronti del quale la passione filologica di Canfora non può peraltro risultare indifferente. La «lezione» del Migliore è infatti destinata ad acquistare un peso politico, nella misura in cui viene indirizzata proprio contro quei leader politici che sono – più o meno direttamente – eredi della tradizione politica del Partito Comunista Italiano. Gli autentici bersagli della polemica di Canfora sono d’altronde proprio i vertici della sinistra italiana, cui viene imputata la responsabilità di avere abbandonato bruscamente, fra il 1989 e il 1991, il tradizionale sostegno al sistema proporzionale, sposando la causa del maggioritario, per un articolato insieme di cause. «Cambio di cultura, persuasione di poter ‘vincere al tavolo da gioco’ la battaglia elettorale, sfiducia forse nella propria capacità di conquistare consensi e illusione che nella lotta politica esistano scorciatoie: tutto questo determinò il passaggio alla ‘cultura del maggioritario’ proprio al vertice della forza politica che più aveva, e così a lungo, presidiato il principio fondamentale della democrazia: ‘un uomo/un voto’» (pp. 65-66). 
In altre parole, il vero motivo che alimenta il volumetto di Canfora è proprio una critica spietata alla convinzione, coltivata dai dirigenti del Pci/Pds/Pd, che gli ostacoli sulla strada verso il potere potessero finalmente essere aggirati, più che veramente superati, da una sorta di ‘scorciatoia’, e cioè da un sistema elettorale che – semplificando il gioco politico, ma distorcendo anche il voto degli cittadini – consentisse di conquistare la maggioranza in Parlamento, anche senza godere di una reale maggioranza nel Paese. La responsabilità, oltre che agli umori dell’elettorato, è dunque addossata soprattutto ai gruppi dirigenti del Pci, usciti dal travaglio dell’Ottantanove: «non tolleravano più di restare ai margini del governo, in posizione ‘morganatica’ rispetto ai governanti eterni includenti ormai stabilmente anche i socialisti (dal 1963). L’invenzione dell’‘arco costituzionale’ non soddisfaceva più; il potere locale (regioni etc.) non bastava; era ormai nato un ceto governativo (amministratori pragmatici e competenti ma del tutto indifferenti agli schieramenti ‘di principio’) al quale sembrava un assurdo intollerabile non poter governare in prima persona. Caduta l’Urss non esisteva nemmeno più il cosiddetto ‘fattore K’: dunque bisognava tentare, magari proprio con la scorciatoia del maggioritario, di ‘andare al governo’» (pp. 76-77).
Dopo il 24-25 febbraio 2013, le speranze riposte nelle virtù del premio di maggioranza, già messe in seria crisi delle precedenti performance della legge Calderoli, sono state definitivamente dissolte, anche se la capacità di conservare le rendite di posizione del duopolio Pd/Pdl rende piuttosto incerta l’eventualità di una riforma elettorale. Ma, in questa prospettiva, Canfora si esprime nettamente a favore del ritorno al proporzionale, spingendosi al massimo a concedere l’introduzione di una clausola di sbarramento simile a quella prevista dal sistema tedesco. In particolare, la sua difesa si basa su tre diversi ordini di argomentazione. In primo luogo, chiama in causa una motivazione di principio forte, ossia l’idea che la democrazia sia possibile solo in presenza di un effettivo suffragio universale, e soprattutto che – come sosteneva Togliatti – solo il sistema proporzionale «rispetti il principio del suffragio universale e uguale» (p. 68). In secondo luogo, celebra il sistema proporzionale perché «costringe le forze politiche alla ricerca di un compromesso» indispensabile in particolare «nelle società industriali avanzate (dette anche ‘complesse’)», nelle quali «la ricerca del compromesso è l’unica alternativa al conflitto, ed è perciò necessaria» (pp. 68-69). Infine, considera gli effetti prodotti sui cittadini, ossia la capacità di ridurre – se non certo di eliminare – l’«analfabetismo politico», perché il sistema proporzionale evita «che una forza politica capace di convogliare su di sé le simpatie degli elettori meno preparati (più facili, proprio per ciò da sedurre) possa trovarsi, grazie ad un ‘marchingegno’ maggioritario, a fare un indebito pieno di eletti assicurandosi così una schiacciante e devastante maggioranza parlamentare» (p. 97). In altre parole, dunque: «Il meccanismo proporzionale costringe i partiti ad essere veramente tali, cioè a guadagnarsi davvero, e quotidianamente, il consenso, non già a studiare con quale combinazione riuscire vincitori al tavolo da gioco. Costringe dunque i partiti a ridiventare veicolo di educazione politica di massa (unica vera risposta efficace all’obiezione di principio sull’‘incompetenza’ dell’elettore) quali furono i grandi e meno grandi partiti che costruirono la nostra Repubblica» (pp. 97-98).
Il primo elemento evocato da Canfora – l’argomento togliattiano del suffragio universale e uguale – può naturalmente risultare condivisibile in linea di principio, ma è scontato che debba sollevare più di qualche obiezione, suggerita peraltro anche da un esame comparato del funzionamento dei sistemi politici occidentali. In questo senso, si potrebbe ribattere a Canfora che Regno Unito e Stati Uniti utilizzano varianti del sistema elettorale maggioritario, con effetti peraltro fortemente distorcenti del voto popolare, senza che nessuna forza politica rilevante ne abbia mai messo in discussione il carattere democratico. Ma anche in questo caso è prevedibile una contro-obiezione rivolta, oltre che a rilevare le specificità storico-politiche di quei regimi, a metterne in discussione l’effettiva democraticità (o la piena democraticità). Al di là di questo, sono però soprattutto le altre due argomentazioni di Canfora ad apparire al tempo stesso più suggestive e più deboli, e non certo perché non abbiano qualche fondamento. Al contrario, si tratta di argomenti che riflettono l’esperienza storica del Parteienstaat postbellico, ossia di uno Stato in cui i partiti presenti in Parlamento avevano effettivamente – come voleva Kelsen – la funzione di stipulare un «compromesso» fra le componenti di una società sempre sull’orlo della guerra civile, e in cui svolgevano una funzione di educazione delle masse. In quel contesto, il sistema proporzionale aveva realmente la capacità di evitare il riacutizzarsi di vecchie fratture e dunque di ‘civilizzare’ il conflitto politico. Il punto debole del ragionamento di Canfora non consiste dunque nella descrizione della funzione che il sistema proporzionale svolse in quel contesto, ma nell’implicita convinzione che il sistema elettorale sia di per sé in grado di produrre quegli effetti sui partiti e sulla società. In questo modo, Canfora finisce infatti col cadere nello stesso vizio che imputa ai propri bersagli polemici. In altre parole, i dirigenti del Pci/Pds, a un certo punto, si convinsero effettivamente, come rileva Canfora, che alcune caratteristiche di fondo della società italiana potessero essere superate grazie alle virtù dell’«ingegneria elettorale», e che cioè la sinistra potesse finalmente accedere alla ‘stanza dei bottoni’ grazie a un sistema elettorale ben congegnato, e soprattutto capace di consentire finalmente l’alternanza di governo. Ma, benché segua una strada molto diversa, anche Canfora sviluppa in realtà un ragionamento simile, perché anch’egli finisce con l’imboccare una sorta di «scorciatoia», e col cedere dunque alle seduzioni dell’«ingegneria elettorale». In fondo, anche Canfora assegna infatti al sistema elettorale proporzionale la facoltà di produrre partiti forti, strutturati sul territorio e persino capaci di educare i cittadini al gioco democratico. Così, non diversamente dai referendari dei primi anni Novanta, giunge a ritrovare nella legge elettorale la chiave per risolvere l’eterna ‘anomalia italiana’. Ed è invece proprio da queste illusioni che è necessario guardarsi. Non certo perché il ritorno a un sistema proporzionale, magari con correzioni simili a quelle previste nel sistema tedesco, non sia sostenibile, auspicabile o persino augurabile. Ma perché sarebbe illusorio ritenere che solo il ritorno al proporzionale possa davvero ricostruire in Italia quei partiti omogenei, coerenti e relativamente stabili, senza i quali ogni sistema elettorale è per molti versi destinato a produrre una sostanziale instabilità.

Damiano Palano

lunedì 16 dicembre 2013

Il senso perduto dell’economia. "Il nuovo governo del mondo" di Georges Corm


di Damiano Palano

Questa recensione di Georges Corm, Il nuovo governo del mondo. Ideologie, strutture, contropoteri (Vita e Pensiero, pp. 271, euro 22.00) è apparsa su "Agorà-sette", il nuovo inserto letterario di "Avvenire", venerdì 12 dicembre 2013.

Proprio vent’anni fa Georges Corm dava alle stampe Il nuovo disordine economico mondiale. In quel testo, per molti versi profetico, lo studioso libanese prevedeva che il sistema economico avrebbe assunto forme selvagge e regressive, destinate a innescare crisi sempre più gravi. Ma, soprattutto, denunciava la “perdita di senso” della scienza economica, la quale, perseguendo l’obiettivo delle formalizzazione matematica, aveva smarrito la propria capacità di comprendere il mondo e la sua complessità. Nel suo Il nuovo governo del mondo. Ideologie, strutture, contropoteri, pubblicato in questi giorni da Vita e Pensiero (pp. 271, euro. 22.00), Corm riprende tutti i motivi di quella polemica, che è peraltro diventata oggi ancora più radicale. Negli ultimi vent’anni l’autore ha d’altronde avuto modo di trovare nuove conferme alle ipotesi iniziali anche grazie alla conoscenza diretta del funzionamento delle istituzioni internazionali. Perché, oltre a dedicarsi all’attività accademica, Corm ha ricoperto importanti incarichi istituzionali e di consulenza che gli hanno consentito di esaminare da vicino come operano le organizzazioni internazionali, e in particolare quelle che si occupano di cooperazione e sviluppo. 
Il libro si concentra soprattutto sulle tappe che – a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, e poi sempre più rapidamente dopo gli anni Sessanta – hanno condotto alla formazione del “potere mondializzato”. Con quest’ultima espressione Corm non intende comunque un vero e proprio governo sovranazionale. Il “potere mondializzato” ha infatti una struttura al tempo stesso piramidale e orizzontale, ed è costituito da una rete transnazionale e transettoriale di attori, pubblici e privati, che riesce a indirizzare (e vincolare) le scelte degli Stati. Questo potere poggia su una enorme burocrazia, composta dai leader e dai funzionari degli Stati, dei partiti politici e delle Nazioni Unite, ma anche dai dirigenti delle multinazionali, dai ricercatori dei think tanks, dalla stampa internazionale, dai dirigenti delle grandi Ong. Ciò che unisce davvero la rete del “potere mondializzato” non è però tanto un interesse condiviso, quanto il linguaggio comune della scienza economica. Un linguaggio che – come i codici di tutte le burocrazie – tende a essere autoreferenziale. E così a trasformare i principi della dottrina neo-liberista in dogmi indiscutibili.
Nel suo testo, oltre a segnalare gli effetti perversi prodotti dal “potere mondializzato”, Corm non manca di individuare alcune tracce di possibile cambiamento. A suo avviso una prospettiva credibile di ‘de-mondializzazione’ può passare soprattutto da una ‘regionalizzazione’ della politica mondiale, e dunque dalla creazione di grandi blocchi regionali organizzati in forma federale. Ma, dato che il cuore del “potere mondializzato” sta nel dogmatismo economico e nella condivisione acritica della dottrina neo-liberista, il problema principale è soprattutto di ordine intellettuale. In altre parole, l’economia politica dovrebbe tornare alla sua funzione primaria e non dovrebbe sentirsi dispensata dalla necessità di adottare criteri di moralità e giustizia. Non è così affatto casuale che, polemizzando con la retorica dello ‘scontro di civiltà’, Corm ritrovi nell’apporto delle grandi religioni un possibile antidoto contro le derive più selvagge della ‘mondializzazione’. E, soprattutto, non è sorprendente che lo studioso libanese riconosca anche nella Dottrina sociale della Chiesa – e in particolare nella Caritas in veritate di Benedetto XVI – l’indicazione della strada che l’economia dovrebbe imboccare, per tornare a essere davvero una “scienza morale”.

Damiano Palano

giovedì 12 dicembre 2013

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lunedì 9 dicembre 2013

L'Occidente? Stazionario. Il j'accuse di Niall Ferguson

di Damiano Palano 

Questa recensione al nuovo volume di Niall Ferguson, Il Grande Declino. Come crollano le istituzioni e muoiono le economie (Mondadori, pp. 134, euro 17.00), è apparsa (in una versione leggermente diversa) su "Agorà sette", il nuovo inserto culturale di "Avvenire", di venerdì 6 dicembre 2013.

In un passo della Ricchezza delle nazioni Adam Smith descrisse le condizioni di una società ‘stazionaria’, ossia di un paese in precedenza ricco che ha smesso di crescere. In queste condizioni, osservava Smith, il salario della gran parte della popolazione risulta piuttosto basso, ma il dato forse più significativo è che le élite diventano corrotte e cercano di sfruttare il sistema giuridico e amministrativo per consolidare il loro potere. Naturalmente l’economista scozzese si riferiva allora alla Cina, che, dopo essere stata per secoli una società florida, nella seconda del Settecento aveva ormai smesso di crescere, a differenza dell’Inghilterra e delle sue colonie americane, che si trovavano al principio della loro ascesa. A distanza di due secoli e mezzo, nel suo Il grande declino. Come crollano le istituzioni e muoiono le economie (Mondadori, pp. 133, euro 17.00), Niall Ferguson torna invece alle pagine di Smith per riconoscere come la situazione appaia oggi sostanzialmente invertita. Mentre la Cina è al centro di una crescita con pochi paragoni, l’intero Occidente sembra presentare tutti i tratti di una società stazionaria. Lo studioso di Harvard non si limita però a riconoscere che nelle democrazie occidentali la diseguaglianza è in aumento e che le élite tendono a assumere un ruolo regressivo. Il suo intento è piuttosto portare alla luce le vere motivazioni del declino. E, da questo punto di vista, si concentra soprattutto sull’importanza delle istituzioni. La sua convinzione è che proprio nell’infrastruttura istituzionale si nascondano tanto il segreto di una società dinamica quanto la spiegazione del suo deterioramento storico.
L’analisi non può che partire dall’indebitamento pubblico che accomuna tutti gli Stati occidentali, un fenomeno in cui Ferguson ravvisa il sintomo della rottura del contratto sociale fra le generazioni. Ma lo studioso sostiene anche che il grande declino occidentale dipende in misura significativa dall’eccesso di regolamentazione pubblica, e da questo punto di vista si discosta dalle letture più comuni. Per esempio, ritiene che la crisi finanziaria sia stata determinata non da un’insufficiente regolamentazione dei sistemi finanziari, bensì dall’eccesso di normative ipercomplesse e per questo difficili da far rispettare. D’altronde, secondo lo storico è proprio la proliferazione di regolamentazioni a tramutare i principi dello Stato di diritto nei presupposti di un «governo dei legulei». Infine, riecheggiando le tesi del politologo Robert Putnam, Ferguson ritiene che le società occidentali stiano declinando anche perché hanno dilapidato il loro ‘capitale sociale’, e cioè perché il tessuto associativo (non solo politico) su cui si reggeva la vitalità delle democrazie si sta logorando.
In questo nuovo lavoro Ferguson riprende alcune delle tesi già sviluppate in modo più ampio in Occidente (Mondadori). Ma in questo caso lo studioso capace di ricostruire con rapide pennellate le grandi tendenze storiche cede il passo al polemista interessato a incidere sul dibattito pubblico. E il rigore logico delle argomentazioni tende a essere rimpiazzato da formule retoricamente efficaci ma spesso fuorvianti. Ciò accade per esempio proprio quando si sofferma sul tradimento del patto generazionale o sulle conseguenze negative dell’eccesso di regolamentazione. Certo di tratta di fenomeni evidenti a chiunque osservi le nostre società. Il punto è però che lo studioso britannico tende a presentare questi elementi come le ‘cause’ principali del declino economico e politico dell’Occidente, e non come gli elementi di un quadro estremamente complicato. E proprio per questo il disegno del “grande declino” risulta alla fine tanto stilizzato da diventare quasi una caricatura. 

Damiano Palano

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lunedì 2 dicembre 2013

La legittimità schiacciata nella macchina della legalità. La rinuncia di Benedetto XVI nella lettura di Giorgio Agamben



di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica-Rdponline.

Alcuni giorni dopo la rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, sulla prima pagina di «Repubblica» comparve un breve editoriale, in cui Giorgio Agamben invitava a ritrovare nel clamoroso gesto di Papa Ratzinger una lezione capace di sottolineare la radici più profonde della crisi del nostro tempo. Quella decisione, osservava infatti Agamben, «richiama con forza l’attenzione sulla distinzione fra due principi essenziali della nostra tradizione etico-politica, di cui le nostre società sembrano aver perduto ogni consapevolezza: la legittimità e la legalità». «Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave», argomentava, «è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità», e non soltanto «le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima» (G. Agamben, Cosa insegna la rinuncia di Ratzinger, in «la Repubblica», 16 febbraio 2013, p. 1).
L’intervento apparve a qualcuno piuttosto sorprendente, sia perché Agamben non è uso prestare le sue doti di fine intellettuale al commento giornalistico, sia perché la lettura politica del gesto di Ratzinger che emergeva dal breve editoriale poteva risultare forzata, e anche per questo lontana dall’abituale misura di un filosofo che ha fatto dell’allusione alla realtà politica quasi una cifra stilistica. In realtà, la tesi che veniva solo accennata nel commento apparso su «Repubblica» aveva alle spalle una assai più meditata riflessione, le cui coordinate vengono esplicitate nell’opuscolo Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi (Laterza, pp. 68, euro 7.00), diventato nell’arco di alcuni mesi quasi un piccolo best seller. Nel saggio principale compreso nel volume, Agamben torna infatti sulla distinzione fra legittimità e legalità, precisando che i due elementi vanno intesi – a differenza di come sono stati concepiti da buona parte della dottrina dello Stato otto e novecentesca – come «le due parti di un’unica macchina politica, che non solo non devono mai essere appiattite l’una sull’altra, ma devono anche restare sempre in qualche modo operanti perché la macchina possa funzionare» (p. 7). Quando uno dei due elementi prevale sull’altro, si giunge infatti alla degenerazione, esemplificata per un verso dai regimi totalitari del XX secolo, «in cui la legittimità pretende di fare a meno della legalità», e per l’altro dalla condizione delle democrazie contemporanee, nelle quali «il principio legittimante della sovranità popolare si riduce al momento elettorale e si risolve in regole procedurali giuridicamente prefissate», con il risultato che «la legittimità rischia di scomparire nella legalità e la macchina politica è ugualmente paralizzata» (p. 8). Il gesto di Benedetto XVI, secondo Agamben, deve essere allora letto come una messa in questione dello stesso titolo di legittimità della più antica istituzione occidentale: «Di fronte a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia e del potere temporale, Benedetto XVI ha scelto di usare soltanto il potere spirituale, nel solo modo che gli è sembrato possibile, cioè rinunciando all’esercizio del vicariato di Cristo» (p. 8).
Agamben sostiene inoltre che la decisione di Ratzinger ha radici profonde, testimoniate innanzitutto dalla scelta di deporre sulla tomba di Celestino V, già nell’aprile 2009, il pallio ricevuto al momento dell’investitura, ma soprattutto dalla sua visione del corpo della Chiesa. In questo senso, Agamben ritrova infatti la chiave interpretativa del gesto in un saggio pubblicato dal giovane Ratzinger nel 1956, nel quale veniva analizzato il concetto di Chiesa delineato nel Liber regularum da Ticonio, un teologo della seconda metà del IV secolo. In sostanza, a differenza di Agostino (che distingue nettamente fra Gerusalemme e Babilonia), secondo Ticonio esiste un’unica città bipartita, una sola città con due lati, uno ‘sinistro’ e uno ‘destro’. Il corpo della Chiesa è dunque unico, ma al tempo stesso bipartito, composto cioè da un aspetto colpevole e da uno benedetto. Se nello stato presente questi due lati del corpo della Chiesa risultano inseparabili, la grande discessio avverrà invece, come scrive Ticonio, alla fine dei tempi: «Questo avviene dalla passione del Signore fino al momento in cui la Chiesa che si trattiene sarà tolta di mezzo dal mistero del male (mysterium facinoris), affinché, quando il tempo è venuto, l’empio sia rilevato, come dice l’Apostolo». Ovviamente il riferimento di Ticonio alla «Chiesa che trattiene» allude alla Seconda Lettera di Paolo ai Tessalonicesi, e in particolare all’oscuro passaggio in cui viene evocato il katechon, la forza «che trattiene», sulla cui identità si sono accumulate in due millenni le più differenti ipotesi (fra l’altro ricostruite di recente anche da Massimo Cacciari in Il potere che frena, Adelphi, Milano, 2013). L’idea di Ticonio era che il katechon non fosse l’Impero romano ma la Chiesa stessa, o meglio il suo carattere bipartito. 
Ratzinger, ricorda Agamben, non si limitò a dedicare a Ticonio uno studio giovanile. Nel 2009, Benedetto XVI avrebbe infatti evocato nuovamente Ticonio, in un’udienza generale, definendolo addirittura un «teologo geniale». Il punto è però che Ratzinger – secondo Agamben – concepisce la fine dei tempi in modo diverso dal teologo del IV secolo, ossia non come la fine del tempo, ma come «il tempo della fine», come «la trasformazione interna del tempo che l’evento messianico ha una volta per tutte prodotto e la conseguente trasformazione della vita dei fedeli» (p. 16). In altri termini, la consapevolezza del carattere bipartito del corpo della Chiesa non può risolversi nella passiva attesa della fine dei tempi, «ma deve ispirare in ogni istante la consapevolezza delle sue decisioni nel mondo» (p. 17).
Senza alcun dubbio affascinante, l’interpretazione proposta da Agamben conferma quantomeno, una volta di più, la densità intellettuale – oltre che ovviamente teologica – del lascito che Benedetto XVI consegna alla nostra epoca. Se le argomentazioni sviluppate sul versante teologico dal filosofo richiederebbero un’analisi approfondita, è però anche interessante riflettere sulla dimensione più strettamente ‘politica’ del discorso di Agamben, ossia su quella dimensione che, procedendo dal gesto di Benedetto, viene a mostrare il vulnus che lacera le nostre democrazie. Secondo Agamben anche il corpo delle nostre società è infatti ‘bipartito’, commisto di crimine e onesta, di giustizia e ingiustizia. Ma il punto è che nelle democrazie contemporanee questo problema viene risolto sul piano delle norme: «Anche qui, come è avvenuto per il problema della legittimità, esso viene liquidato sul piano delle norme che vietano e puniscono, salvo a dover poi constatare che la bipartizione del corpo sociale diventa ogni giorno più profonda. Nella prospettiva dell’ideologia liberista oggi dominante, il paradigma del mercato autoregolantesi si è sostituito a quello della giustizia e si finge di poter governare una società sempre più ingovernabile secondo criteri esclusivamente tecnici. Ancora una volta, una società può funzionare solo se la giustizia (che corrisponde, nella Chiesa, all’escatologia) non resta una mera idea, del tutto inerte e impotente di fronte al diritto e all’economia, ma riesce a trovare espressione politica in una forza capace di controbilanciare il progressivo appiattimento su unico piano tecnico-economico di quei principi coordinati ma radicalmente eterogenei – legittimità e legalità, potere spirituale e potere temporale, auctoritas e potestas, giustizia e diritto – che costituiscono il patrimonio più prezioso della cultura europea» (pp. 17-18).
La conclusione del discorso di Agamben fa affiorare nitidamente il cuore di un’interpretazione che spesso il filosofo ama avvolgere in una ragnatela di raffinate digressioni e rimandi eruditi. L’idea che emerge dai passi finali del Mistero del male è infatti sviluppata in modo molto più esteso in Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo (Neri Pozza, Vicenza, 2007), oltre che in altri testi recenti, e consiste nella tesi secondo cui il problema centrale della politica non è rappresentato dalla sovranità, bensì dal governo, e cioè dalla macchina governamentale che il corpo sovrano mette in movimento. Come sintetizza in un saggio recente: «Se oggi ci troviamo di fronte al dominio schiacciante dell’economia e del governo su una sovranità popolare che è stata progressivamente svuotata dal suo senso, ciò è forse perché le democrazie occidentali stanno pagando il prezzo di un’eredità filosofica che esse avevano accettato senza beneficio d’inventario. Il malinteso che consiste nel concepire il governo come semplice potere esecutivo è uno degli errori più carichi di conseguenze nella storia della politica occidentale. Il risultato è che la riflessione politica della modernità si è perduta dietro vuote astrazioni come la Legge, la Volontà generale e la Sovranità, lasciando impensato il problema in ogni caso decisivo, che è quello del governo e della sua articolazione rispetto al corpo sovrano» (G. Agamben, Nota preliminare a ogni discussione sul concetto di democrazia, in G. Agamben et al., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma, 2010, p. 12). Il sistema politico occidentale risulta così contrassegnato dall’articolazione dei due elementi eterogenei della razionalità politico-giuridica e della razionalità economico-governamentale, ossia, per un verso, da una ‘forma di costituzione’ e da una ‘forma di governo’. E la politeia si configura stretta da un’anfibolia, le cui implicazioni – osserva ancora Agamben – non sono soltanto teoriche: «È probabile che, finché il pensiero non si deciderà a misurarsi con il nodo e con la sua anfibolia, ogni discussione sulla democrazia – sulla democrazia come forma di costituzione e sulla democrazia come tecnica di governo – rischierà di ricadere nella chiacchiera» (p. 13).
Forse può stupire la fiducia nell’esercizio della filosofia che trapela in filigrana dal discorso di Agamben, quantomeno nel momento in cui riconosce l’origine della crisi delle democrazie contemporanee, come d’altronde dello stesso terrore totalitario, nelle perverse implicazioni di un’eredità filosofica. L’analisi sulle matrici teologiche dell’economia e del governo svolta da Agamben non risulta comunque per questo meno suggestiva e meno meritevole di quell’approfondimento critico che forse – almeno in Italia – le è stato per molti versi negato. Ciò che però rimane in gran parte in questione è invece quale sia la via lungo la quale Agamben ritiene si possa uscire dalla crisi delle democrazie contemporanee, o addirittura se egli ritenga che una via del genere davvero esista. Perché, se i libri di Agamben riescono come pochi altri a ‘decostruire’ le logiche della politica moderna e a mostrare la fondazione ‘tanatologica’ del potere sovrano, nel suo pensiero rimane del tutto in ombra proprio ciò si oppone a quel soverchiante potere. Se talvolta si intravede affiorare, ma solo ai margini, la figura del tutto evanescente dell’«inoperosità» - una forma di rifiuto radicale, estranea a ogni identità, a ogni appartenenza, a ogni comunità – è infatti piuttosto complicato immaginare come una simile «inoperosità» possa assolvere alla funzione che, per ciò che concerne la vita della Chiesa, Agamben attribuisce al gesto di Benedetto XVI. E, soprattutto, appare piuttosto complesso provare a ipotizzare come proprio questa sfuggente «comunità che viene» possa «controbilanciare il progressivo appiattimento su unico piano tecnico-economico di quei principi coordinati ma radicalmente eterogenei – legittimità e legalità, potere spirituale e potere temporale, auctoritas e potestas, giustizia e diritto – che costituiscono il patrimonio più prezioso della cultura europea», senza al tempo stesso diventare un soggetto, senza esprimere un potere, e – va da sé – senza riprodurre l’eterna logica degli arcana imperii.

Damiano Palano