martedì 29 ottobre 2013

Il mistero dell’«homo oeconomicus». A proposito di "Elogio dell'uomo economico", un libro di Silvano Petrosino




di Damiano Palano

Il lettore che, frugando tra gli scaffali di una libreria, si imbattesse nell’ultimo libro di Silvano Petrosino potrebbe essere quantomeno fuorviato dal titolo, Elogio dell’uomo economico (Vita e Pensiero, Milano, 2013, pp. 74, euro 10.00). Il volumetto – che riprende il testo della Lectio magistralis tenuta da Petrosino nel 2012, in occasione dell’inaugurazione del Festival Piacenza Teologia) – ha in effetti ben poco da vedere con ciò che di solito, tanto nella teoria economica quanto nella vulgata più comune, si intende per homo oeconomicus, ossia quella sagoma stilizzata dell’agire individuale, che riconduce le azioni e le decisioni umane agli appetiti egoistici e soprattutto a un criterio utilitaristico. Accompagnando il lettore attraverso una serie di snodi argomentativi, e dentro quella che Ernst Cassirer definì «l’aggrovigliata trama dell’umana esistenza», Petrosino cerca piuttosto di portare alla luce le radici più profonde dell’attività economica. Radici che, per molti versi, abbiamo ormai completamente dimenticato, e di cui nell’odierna pratica economica non resta neppure una labile traccia. L’«uomo economico» cui il filosofo dedica il suo elogio, più che la realtà di ciò che oggi chiamiamo ‘economia’, evoca l’antica  oiko-nomìa, ossia quella specifica forma di amministrazione che – come osserva Petrosino ripercorrendo il sentiero indicato da Benveniste – si esercita all’interno di un casa. Non si tratta pertanto di un’amministrazione che dà luogo a una spartizione casuale, in una divisione che si risolve in un atto meccanico o in un atto di forza. Piuttosto, l’oiko-nomìa di cui Petrosino delinea la sagoma è l’«espressione di una ‘convenienza’, di quel ‘convenire’ della casa che fin dal principio prende le distanze dalla rigidità e dall’automatismo propri del mondo animale». L’essere umano ‘calcola’ e pianifica perché, a differenza dell’animale, è sempre consapevole della propria finitezza: «l’uomo divide, calcola e misura, intensamente, continuamente, investendo ogni ambito della sua vita e di quella degli altri, proprio perché vive con altrettanta intensità, talvolta persino in modo esasperato […] il limite che affligge tutto ciò che esiste» (p. 29). Questa consapevolezza del limite rende l’uomo necessariamente un ‘essere economico’, e cioè un essere che è spinto a ‘calcolare’, a ‘progettare’, a ‘misurare’. Il riferimento alla ‘casa’, e implicitamente alla famiglia che la ospita, fa affiorare anche un aspetto ulteriore, che ha a che vedere con la consapevolezza umana che c’è sempre altro rispetto al proprio sapere, o che, quantomeno, c’è qualcosa che eccede il proprio sapere. La divisione che ha luogo dentro la «casa» è pertanto anche una «con-divisione», nella misura in cui l’essere umano risulta sempre orientato verso «l’inquieta ospitalità dell’altro». Come scrive Petroisno: «La ‘casa’ sembrerebbe così configurarsi come il luogo dell’affermarsi tra alterità secondo una misura diversa da quella che obbedisce alla legge della guerra e del conflitto. Una ‘casa’ non è un campo di battaglia e in essa non c’è nessun bottino da spartire, anche se essa, evidentemente, può in ogni istante trasformarsi nella scena di una guerra violentissima e distruttiva» (p. 34). L’alterità si pone come presenza costante, ma anche come elemento che eccede ogni presente: «l’uomo non è solo dotato di intelligenza ma anche di ragione e quest’ultima è in se stessa apertura all’altro, inquieta ospitalità dell’altro. L’uomo non è semplicemente un vivente ‘molto intelligente’, ma è quel vivente dotato anche di un’‘altra’ intelligenza, di un’intelligenza dell’‘altro’, non solo problem solving ma capace dell’altro, aperta all’altro, è un vivente dotato di quell’‘altra’ intelligenza che è la ragione stessa» (p. 36).
 I limiti costitutivi della condizione umana – la consapevolezza della mortalità e il ‘sapere di non sapere’ – si trovano dunque al fondo stesso del ‘calcolo’ dell’homo oeconomicus. L’esperienza umana sollecita «una ratio capace di misurare e dividere secondo un ‘tutt’altro conto’», una ratio cui «non bisogna temere di dare il nome che merita: ‘giustizia’» (p. 38). Naturalmente, la giustizia cui Petrosino riconduce la ratio dell’economia non può scaturire dall’applicazione della «legge», così come non può essere il risultato di un astratto equilibrio. Al contrario, essa consiste in un ‘calcolo’, che però non può essere semplicemente un ‘calcolo’ aritmetico, dal momento che deve considerare le specifiche esigenze dell’‘altro’. Così, «l’economia deve calcolare, non può e non deve evitare di calcolare, ma deve farlo non matematicamente, bensì economicamente, vale a dire in ordine a una ‘giustizia’ […] che in quanto tale non può mai essere appiattita sulla legge e risolta nel rispetto di una norma generale» (pp. 41-42).
L’oiko-nomia, di cui Petrosino tratteggia gli elementi originari ha evidentemente molto poco a che fare con la realtà odierna dei processi economici e con ciò che abitualmente si designa come specifico dell’‘economico’. Anche per questo, Petrosino utilizza il termine  business per indicare quell’attività, che oggi viene usualmente intesa come ‘economia’, e che invece – diametralmente opposta all’oiko-nomìa – si rivela per sua natura, costantemente, ‘anti-economica’. Dal momento che l’economia scaturisce proprio dalla consapevolezza dei limiti dell’esperienza umana, il business non infatti può non costituirne la negazione: «il business, a dispetto dello spiccato realismo che’esso stesso si attribuisce (il business si fa vanto di trascurare ogni indagine di tipo teorico – sia essa di natura antropologica, filosofica, storica, etica, ecologica, politica, religiosa ecc. – per puntare al sodo: senza perdere tempo in discussioni che spesso si rilevano inconcludenti, esso vive come un autentico ‘imperativo morale’ l’urgenza di concludere garantendo, per l’appunto ad ogni costo, un profitto. Di conseguenza, se l’economia è per sua natura, e per sua sfortuna sostengono alcuni, ‘politica’, il business per sua natura, e per sua fortuna sostengono sempre gli stessi, non lo è mai), a dispetto dunque di un simile supposto realismo, ciò che distingue questo termine, e il concetto ch’esso esprime, sembra essere invece proprio un’irriducibile astrattezza: il business non si occupa più dell’abitare […], «si disinteressa della complessa articolazione della ‘casa’ […], e di conseguenza  rimane insensibile all’esigenza della ‘giusta misura’ che si aggira al fondo dell’economia» (pp. 51-52). A ben vedere, si tratta in effetti di un’attività che recide, dissolve il legame con l’altro, un’attività che rende il soggetto sordo e che, in tal modo, tramuta l’individuo in uno schiavo del guadagno. E ciò non significa affatto che l’economia, al contrario del business, non ricerchi il profitto, ma soltanto che il business, nel tentativo di rispondere alla paura della fine, si concentra solo sul profitto, svuotando e pervertendo la complessità dell’agire economico: «Il business perverte di conseguenza la natura della convenienza che muove l’’economia’ e devolve in un’attività compulsiva e frenetica che, alimentata dalla paura, non ha più tempo e interesse per l’abitare in quanto tale: esso rompe il legame essenziale tra il ‘coltivare’ e il ‘custodire’ che anima la cura dell’abitare, convoglia […] l’intera attività del soggetto solo sul ‘coltivare’ (il guadagno) e rende il soggetto stesso sordo e indifferente ad ogni altro e a tutti gli altri» (p. 53).
Dinanzi al pervertimento onnipresente dell’homo eoconomicus, è molto difficile ritrovare oggi qualche segnale di sopravvivenza di quell’oiko-nomìa di cui Petrosino tesse l’elogio. Ma, pur dinanzi a simile scenario, il filosofo non si rassegna alla vittoria del business. E, così, al termine di una riflessione appassionata – che rappresenta il più recente episodio di una ricerca rigorosa e sempre affascinante – il filosofo scrive che, a dispetto del pervertimento dell’economia, «non sempre ma soprattutto non necessariamente le nostre case si trasformano in carceri e in campi di battaglia» (p. 64). Al contrario, sovente esse «si configurano come il luogo di una relazione con gli altri che sfugge al principio d’appropriazione e alla legge della guerra», e tornano dunque a essere il luogo «di quel ‘dividere’, che si afferma, stranamente o umanamente, come un ‘con-dividere’» (p. 64). E allora «perché» – si chiede Petrosino, concludendo la sua densa Lectio – «non dare credito a quel bene che si manifesta non nell’uragano o nel terremoto ma nel vento leggero di una quotidianità minima eppure così grandiosa? Perché non aver fede in quell’economia che in verità è uno dei segni più luminosi della dignità umana?» (pp. 64-65).
Damiano Palano

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